Slow page dei Missionari della consolata

Non possiamo dare altro che Dio

Fratel Gerardo dal Mozambico al Portogallo alla Certosa di Pesio

Missione in Mozambico

Fratel Gerardo Secondino è nato in Sicilia, a Pietraperzia, in provincia di Enna, nel 1959. Trasferitosi a Torino nel 1970, ha conosciuto i Missionari della Consolata nel 1983. È entrato nella loro famiglia mentre gestiva il suo maneggio.
Ha emesso la professione perpetua nel 2000. Ha lavorato 14 anni in Mozambico, 8 anni in Portogallo e da tre anni si occupa dell’accoglienza nella casa di spiritualità della Certosa di Pesio.


«Noi siamo sei figli: cinque maschi e una femmina. Ho anche sette nipoti: sono lo zio missionario.
Alla Certosa di Pesio mi occupo dell’accoglienza, quindi sono abituato a incontrare persone diverse tutti i giorni. Diverse, ma con bisogni uguali».

Perché hai scelto di essere missionario della Consolata?

«Il perché non lo so neanche io. L’ho sentito, e ho cercato seguire quello che sentivo al meglio possibile.
Ho conosciuto i Missionari della Consolata nel 1983 perché volevo fare un’esperienza di volontariato internazionale, e avevo saputo che in Corso Ferrucci potevo prepararmi. Così ho fatto il cammino al centro di animazione con altri giovani. Volevo andare tre mesi in Kenya, e ho studiato anche un po’ di Swahili, ma, quando è arrivato il tempo di partire, un missionario mi ha detto che per lui non avevo la vocazione.
Mi sono cadute la braccia, e ho ripreso a fare la mia vita. Abitavo a Bricherasio, vicino Torino, dove avevo un maneggio in cui mi occupavo di alcuni cavalli miei e di altri. Ma il pensiero della missione non mi lasciava, e alla fine ho deciso di farmi avanti: ho parlato con il superiore in Italia, padre Gottardo Pasqualetti, e da lì è iniziato tutto».

Racconta la tua formazione.

«Sono entrato come postulante a Rivoli (To) nel ‘92, dove sono stato tre anni. Ho fatto il noviziato a Vittorio Veneto (Tv) nel ‘95-’96 assieme ad altri cinque. Tra loro, il cardinale Giorgio Marengo.
Ho fatto la prima professione nel 1996. Poi c’era la possibilità di partire in missione per tre anni, ma, quando era ora, è arrivata un’altra necessità: ristrutturare dell’antica chiesa abbaziale del 1173 alla Certosa di Pesio.
Lì, mentre facevo i lavori della chiesa, sono stato seguito dai padri Francesco Peyron, Paolo Angheben e Bartolomeo Giorgi. E nel 2000 ho fatto la professione perpetua. Poi sono stato due anni a Milano per gestire un negozio dei Missionari della Consolata vicino al Duomo. Infine, grazie a Dio è arrivata la destinazione per il Mozambico».

Di cosa ti sei occupato lì?

«Sono stato destinato a Maúa, nel Niassa, nel Nord del Paese, senza un obiettivo specifico. Con la comunità ho ponderato quali fossero le necessità, e alla fine abbiamo deciso di fondare una scuola di arti e mestieri.
Lì sono stato per dieci anni insieme a padre Giuseppe Frizzi che, tra le altre cose, traduceva la bibbia nella lingua locale.
Il progetto della scuola prevedeva di formare un gruppo di ragazzi per tre anni, ma sono riuscito a portarlo avanti per otto anni. Prima che venissi via, lo Stato voleva comprare la scuola, ma poi si è tirato indietro, così l’ho dovuta chiudere.
Le classi erano di 30 studenti. Essendoci due corsi di tre anni ciascuno, uno di falegnameria e uno di muratura, nella scuola venivano circa 180 ragazzi ai quali davamo anche i pasti.
Quando ho aperto la scuola, non volevo solo i ragazzi del villaggio, ma sono andato a prendere gli studenti in tutto il territorio, da diversi gruppi. Così, nella scuola non c’era un unico modo di vivere e di essere.
Dopo Maúa, nel 2012 sono andato a Cuamba, fino al 2016.
Lì ho costruito e aperto un negozio di fotocopie, libri e cancelleria. In zona c’era l’università, ma mancava un servizio come quello.
Con i soldi ricavati, ho costruito poi altri tre negozi per assicurare entrate alla parrocchia. Quando sono partito, sono diventati proprietà alla diocesi».

Dove sei stato poi?

«Nel 2016 sono partito per il Portogallo dove ho lavorato a Cacém (Lisbona), nella casa di formazione, fino al 2023.
Ho fatto il formatore… o forse più lo “sformatore“.
Per alcuni anni, hanno vissuto con noi anche alcuni giovani migranti in accoglienza. È stata una bellissima esperienza. Abbiamo imparato molto dai ragazzi musulmani. Abbiamo sperimentato veramente cosa vuol dire vivere in modo pacifico e arricchente con altri.
Infine, nel 2023 sono stato destinato in Italia, alla Certosa.
Mi trovo molto bene qui. Faccio accoglienza alle persone che arrivano, sia gruppi che singoli, sia turisti che persone in cerca di tempi di preghiera».

Quali sono le difficoltà che hai incontrato nei tre Paesi?

«Nessuna. Forse stare dietro a tanta gente diversa».

Quali le soddisfazioni?

«La soddisfazione più grande in Mozambico è stata la scuola, vedere tanti ragazzi uscire preparati per affrontare la vita.
In Portogallo seguire gli studenti di teologia. Ciascuno di loro aveva il proprio modo di vedere le cose. Diversi hanno lasciato l’Istituto, ma uno oggi è Missionario della Consolata.
In Certosa è incontrare le persone e riuscire a comunicare loro chi sono i missionari».

Quali sono, secondo te, le sfide missionarie in Italia?

«Abbracciare la causa dei giovani. Oggi in Italia i giovani non hanno un’autonomia critica religiosa, siano cristiani o di un’altra religione. Lavorare con i giovani è importante».

Fratel Gerardo Secondino, settembre 2025. Foto di Gigi Anataloni.

Racconta un episodio della tua vita missionaria.

«Una volta, in Mozambico, andavo con un laico animatore missionario in bicicletta verso una comunità distante parecchi chilometri. A un certo punto, incontriamo una leonessa con tre cuccioli. L’animatore mi dice: “Attenzione che c’è un leone“. Allora iniziamo a correre così veloci che perdiamo per strada la Bibbia, il libro dei salmi e tutto il resto. Solo quando arriviamo alla comunità ci tranquillizziamo. Dopo un po’ cominciano ad arrivare altri animatori. Ci portano i libri e tutto quello che avevamo perso per strada.
Quello che mi ha fatto riflettere è che una leonessa con i suoi cuccioli di solito è molto aggressiva, ma noi le siamo passati vicino indenni: nonostante tutto ciò che puoi fare di pericoloso, c’è sempre Qualcuno che ti mette una mano sopra, ti accompagna, e ti fa arrivare dove devi arrivare».

Secondo te, cosa possono offrire al mondo i Missionari della Consolata?

«Noi abbiamo solo una cosa che possiamo dare: Dio. Non abbiamo altro. Dio è tutto. Più di quello, non possiamo dare.
La nostra vita è questa: siamo figli di Dio.
Abbiamo questa fortuna: essere parenti di Dio! Ma ti rendi conto di cosa significa?»

Cosa fare, secondo te, per attrarre i giovani a Dio?

«Non lo so. È difficile per me capire il mondo dei giovani. Ma l’importante, penso, è tentare, tentare, tentare».

Ci suggerisci uno slogan per i giovani dei nostri centri?

«Copio dal fondatore: “Fare bene il bene senza far rumore“. Anche in portoghese: “Fazer bem o bem, sem fazer barulho“».

di Luca Lorusso

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