Slow page dei Missionari della consolata

Missione Kenya. Lasciarsi accogliere

La missione ti cambia

Cinque torinesi della parrocchia missionaria Maria Speranza Nostra, per tre settimane in Kenya, accompagnati da padre Daniel Lorunguiya, hanno vissuto un’esperienza intensa che ha cambiato la loro vita.

Eravamo a Wamba, zona centro Nord del Kenya, gli ultimi giorni del nostro viaggio di agosto 2022. Io (trentaduenne), Margherita (classe 1999), Ornella (del 1964), Marcello e Vita (coppia di 63 e 64 anni) avevamo negli occhi la missione di Maria wa Consolata Suguta Marmar, diocesi di Maralal, dove eravamo stati per dieci giorni, prima di arrivare a Wamba, e dove ci eravamo sentiti accolti come in famiglia dal parroco diocesano, padre John Dida Namoi, dalle suore, i bambini, i giovani religiosi, (il seminarista Martino Lengupae e fratello Ambrose Lochilia) e il personale laico. Con noi c’era la nostra guida spirituale, padre Daniel Lorunguiya, missionario della Consolata keniano in missione a Torino da diversi anni. Quando ha visto la nostalgia nei nostri sguardi, per provocarci, ci ha chiesto: «Chi vuole tornare a Suguta?». E, dato che nessuno ha alzato la mano, ha commentato: «Ma allora siete dei missionari bravissimi!».
È stato così, tramite la sua battuta, che abbiamo realizzato cosa voglia dire essere in missione: non essere dove vorremmo, ma dove c’è bisogno della nostra presenza.
Per questo abbiamo deciso di intraprendere un viaggio di tre settimane in Kenya: per rispondere al nostro bisogno di incontrare l’altro, metterci in discussione, ristabilire un contatto più profondo con noi stessi, ma soprattutto per rispondere alla nostra fede. Non c’è fede senza missione, senza l’incontro con l’altro, che sia a due passi da casa, o dall’altra parte del mondo.

La missione ti cambia

L’esperienza missionaria dell’estate scorsa ha segnato ognuno di noi già durante il viaggio.
Ad esempio, Ornella, persona espansiva, in certi momenti sembrava persa nei suoi pensieri, impegnata a riflettere in silenzio sulle cose appena vissute.
Marcello, spiritoso e amante delle battute, in un momento di condivisione di gruppo, si è commosso mentre parlava dei missionari.
Io stessa, Giulia, persona poco paziente, ho scoperto in me un’insospettabile calma.
D’altronde, come farebbero a non cambiarti, a non segnarti, certe cose che vedi?
Come quando vedi bambini che si comportano da adulti, seri e responsabili, talmente sono disciplinati, obbedienti, ordinati, silenziosi e che, non appena dai loro un gioco, anche il più banale, ritornano veri bambini, che si divertono di gran gusto e sono capaci di seguirti per ore e ore, instancabilmente.

«Cosa stai imparando?»

Non potrò mai dimenticare la sera in cui, a Suguta Marmar, siamo andati a trovare gli studenti, ospiti della parrocchia, che facevano cena.
Erano 250 e, non appena siamo entrati, hanno puntato tutti i loro 500 occhi su di noi.
Si servivano con le mani, senza posate, né tovaglioli, né bicchieri.
Consumavano il loro pasto in silenzio, senza lamentarsi del cibo, e vuotavano il piatto prima di andarlo a lavare loro stessi.
Avevano dagli 8 anni ai 14 e facevano tutti così.
Mangiavano in tavolate da 15/20, servendosi a vicenda.
Una di quelle sere il mio sguardo si è posato su una ragazzina, Tiffany, che era rimasta al tavolo da sola, essendo l’unica che non aveva ancora terminato. Allora, mi sono avvicinata, e abbiamo chiacchierato un po’: mi diceva che era sazia, per questo mangiava a forza, ma che non se ne parlava di avanzare del cibo.
Mentre ero con lei, sempre più ragazzi si aggiungevano al nostro tavolo e, come al solito, mi guardavano come se fossi una santa, sempre sorpresi di potere vedere o stare accanto a un «mzungu» (termine swahili che sta a indicare una persona bianca). A un certo punto, Tiffany mi ha fatto la domanda più matura che abbia mai sentito da una persona così giovane: «Cosa stai imparando da questa tua esperienza in Kenya?».

Ragazze salvate

E che dire di padre John Dida, il parroco di Suguta Marmar (ex missione della Consolata, affidata alla diocesi nel 2000)? Ci ha accompagnato per tutta la nostra permanenza in Kenya, anche quando ci siamo trasferiti a Wamba.
Padre John gestisce la parrocchia, una grande chiesa, un laboratorio di cucito, l’orto, il campo da basket, la scuola, la mensa, l’oratorio e i dormitori.
Con lui ci sono le suore di Maria Immacolata di Nyeri che si occupano della scuola secondaria per ragazze e del Girl child rescue centre, attraverso cui salvano la vita di tante giovanissime dai matrimoni precoci, le mutilazioni genitali e il lavoro minorile.
Impossibile dimenticare la nostra visita a questo centro, dove le ragazze ci hanno accolto fuori dal cancello cantando e ballando per noi, e dove, poi, quattro di loro si sono offerte di regalarci la loro testimonianza.
Tutte erano state circoncise prima delle loro nozze programmate con uomini (che potevano essere loro nonni) da cui hanno voluto sottrarsi, a costo di vagare nella foresta per giorni, senza cibo né acqua.
Nel centro di Suguta hanno trovato una nuova vita e una seconda possibilità: vanno a scuola, stanno con le loro coetanee e hanno tutte dei sogni.

Dolore e impotenza

Oltre alle suore di Maria Immacolata di Nyeri, incontrate a Suguta, a Wamba abbiamo conosciuto anche le suore della Carità e le suore del Nirmala Dasi provenienti dal Kerala (India).
Ricordo che Vita, una volta, ha condiviso di essere rimasta colpita dall’accoglienza che ogni congregazione di suore ci aveva offerto. Dovunque ne abbiamo incontrate, queste sorelle ci hanno fatto sentire a casa, erano dolci, ospitali e materne con noi.
Se è vero che spesso papa Francesco raccomanda alle suore di essere madri per il prossimo, loro lo fanno molto bene.
Personalmente, rammenterò sempre la visita alla Huruma home (casa di misericordia in lingua swahili) gestita a Wamba dalle sorelle indiane, perché è stata, forse, l’esperienza emotivamente più forte della mia vita. Le suore si occupano di ragazzi con disabilità fisiche e mentali. I più fortunati (pochi) riescono a stare seduti sulla sedia a rotelle e a tenere oggetti in mano, ma la maggior parte è costretta a letto.
Bernadette, sorella di padre Daniel e infermiera di professione a Wamba, ci ha spiegato che, normalmente, gli ospiti della Huruma home sono persone abbandonate da famiglie troppo povere per occuparsi di loro, e che, quando muoiono, vengono seppelliti dalle suore, uniche persone che di ricorderanno di loro.
Quel giorno, sono uscita da lì profondamente sconvolta: mi faceva male vedere quelle persone che non potevano nemmeno alzarsi da un letto; ma, forse ancora di più, sentirmi, per la prima volta nella mia vita, totalmente impotente.
Fino alla sera non sono riuscita a parlare con nessuno di come avevo vissuto quella visita.
Nonostante ciò, ho visto che Bernadette aveva intercettato il mio turbamento. D’altronde, chi meglio di una mamma di quattro figli e nonna di due nipoti può capire se una persona giovane ha un turbamento nel cuore?

Bernadette

Bernadette è stata il nostro punto di riferimento per ogni cosa durante i giorni trascorsi a Wamba: ci accompagnava nei nostri spostamenti e ci ha ospitati a casa sua per tutti i pasti.
Abbiamo conosciuto due dei suoi quattro figli, Lavenda e John, e i nipotini, Laureen e Francis.
Anche dal contesto casalingo di Bernadette abbiamo imparato qualcosa sulla cultura locale: in Africa, se sei un ospite, non è necessario che tu chieda il permesso per prendere qualcosa da mangiare, basta che tu lo prenda direttamente.
Ricordo bene quando Bernadette ci preparava il chapati e l’ugali (un tipo di polenta bianca) ed era tutta contenta nel vedermi mangiare con le mani o fare il bis. Mi divertivo tantissimo ad appallottolare l’ugali, accompagnandolo con verdure e carne. Per non parlare del chapati, molto più buono della nostra versione italiana, la piadina (non me ne vogliano i miei compatrioti).
Capirete, quindi, come il cosiddetto «mal d’Africa» abbia iniziato a farsi sentire già da quando abbiamo lasciato Wamba e, quindi, la casa di Bernadette.
Anche lì ci siamo sentiti come in una famiglia, e noi wazungu delle vere e proprie «celebrità».
A prova di ciò, le due o tre volte al giorno che andavamo a casa di Bernadette, anche se eravamo in auto, i bambini ci riconoscevano da lontano e accorrevano in massa per un saluto, una caramella, una carezza sulla nostra pelle o sui lunghi capelli.

Accolti

Durante il tragitto da Wamba a Nairobi siamo passati attraverso la savana. Nei viaggi precedenti, di solito eravamo noi a salutare i bambini dalle auto, e loro ricambiavano il gesto. Invece, durante il viaggio di ritorno, per ben due volte, gruppi diversi di bambini ci hanno salutato per primi, facendosi trovare sul ciglio della strada, a parecchi metri di distanza prima che passassimo. Come se sapessero che stavamo per lasciare il Kenya e volessero darci l’addio, facendoci sentire, ancora una volta, accolti, coccolati, amati.
In aeroporto, mentre ancora ricevevo i saluti finali dalle persone che avevamo conosciuto durante la nostra permanenza in Kenya, padre Daniel mi ha detto: «Sei stata voluta bene!».
Credo sia questo il senso della missione: accogliere e lasciarsi accogliere dall’altro, nell’Amore.

di Giulia De Gennaro

eggi, scarica, stampa da MC marzo 2023 sfogliabile

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