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La fede secondo Paolo

Terzo e ultimo articolo della serie sulla prima delle tre virtù teologali

in occasione dell’anno della fede, indetto dal papa Benedetto XVI.

Paolo è un personaggio complesso e affascinante: da persecutore delle Chiese diventa l’annunciatore instancabile della fede. I cristiani della Galazia parlano della sua conversione in questi termini: «Colui che una volta ci perseguitava va ora annunciando la fede che un tempo devastava» (Gal 1,23). Da persecutore egli diventa «l’evangelizzatore della fede» (cf. Atti 26,11).
Nell’espressione «annunciare/ evangelizzare la fede», il termine «fede» non va inteso come un insieme di verità da credere (si pensi al Credo che si recita nella S. Messa), nonostante esse non vengano escluse, ma principalmente come un’adesione personale a Gesù Cristo. In questo modo Gesù diventa l’elemento centrale su cui si misura l’esistenza del cristiano.

Vivo non più io, ma vive in me Cristo
Paolo esprime questa convinzione nella famosa espressione: «Vivo non più io, ma vive in me Cristo. La vita che io vivo adesso nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi amò e consegnò se stesso per me» (Gal 2,20). Paolo qui sottolinea la relazione interpersonale tra lui e Gesù Cristo. La sua affermazione farebbe addirittura pensare a un sopravvento della personalità di Cristo su quella del credente. Cristo ha preso possesso della vita di Paolo, infatti egli dice: «Vive in me Cristo», e subito aggiunge: «Vivo nella fede del Figlio di Dio». Questa precisazione ci fa capire in che senso Cristo prende possesso della sua vita. È il totale abbandono a Cristo che permette a Paolo di entrare nella vita del credente e stabilire con Gesù una relazione profonda, una comunione che diventa un costante dono di reciproca presenza. Questa è la ragione per cui Paolo considera la fede non come un assenso dato dalla mente a un insieme di verità, ma come un abbandonarsi senza condizioni a Cristo. La fede, tuttavia, non è un atto irrazionale perché si fonda sulla stessa azione di Cristo, il quale, come dice Paolo: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». L’azione storica di Gesù costituisce per Paolo il solido fondamento per la fede. Cristo ha suggellato il suo amore per noi con il dono della sua vita. Anche Matteo 20,28 e Marco 10,45 affermano che il Figlio dell’uomo è venuto «per dare la vita in riscatto per molti». Paolo personalizza l’espressione e invece di dire «per i nostri peccati» (1Cor 15,3), ovvero «per molti» (Mt 20,28; Mc 10,45), egli dice: «Per me».

Adesione a un «Tu»
È evidente che Paolo voglia enfatizzare la sua relazione personale con Cristo per eliminare ogni possibile riferimento a un’adesione meramente astratta.
All’azione di Gesù di consegnare se stesso «per me», corrisponde un’adesione affettiva e totalizzante da parte del credente. Se Cristo diventa il centro e il fulcro della vita del credente si realizza nel mondo una nuova creazione, in alternativa si rimane a osannare gli eroi estemporanei che appaiono sull’orizzonte e poi si dileguano nell’arco di una generazione.
Al grande abisso di generosità del Cristo, potrà mai esserci una risposta di fede adeguata? Che grande mistero! «Per me», «per noi» Cristo ha consegnato se stesso spontaneamente al dramma della croce. Per questo io posso affidare totalmente me stesso a lui nella fede.
In Gal 2,19 Paolo scrive: «Sono stato crocefisso con Cristo». Questo fa capire che l’atto di fede non è indirizzato alla persona di Cristo in astratto, ma alla sua passione intesa come azione redentrice. Affermando che egli «è stato crocefisso con Cristo», Paolo vuole sottolineare un legame fortissimo con Cristo, un immedesimarsi affettivo ed esistenziale. Paolo qui usa la forma verbale greca del perfetto per indicare il risultato perdurante di un’azione passata: «Sono stato crocefisso con Cristo e lo sono ancora». L’unione che Paolo sperimenta con la morte di Cristo è un’esperienza così totalizzante che nella lettera ai Filippesi afferma: «Per me vivere è Cristo» (1,21). Qui Paolo si riferisce al Cristo totale, che comprende passione, morte, sepoltura e resurrezione. La fede per Paolo è il mezzo unico e indispensabile per divenire una nuova creazione (vedi Gal 6,15; 2Cor 5,17).

Chi mi separerà?
Egli si sente talmente unito a Cristo che, in un momento di fervore quasi mistico, afferma: «Chi mi separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35). Subito dopo aggiunge: «Io sono convinto che né morte, né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né altezza né profondità, né altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo, nostro Signore» (Rm 8,38-39). La lista dei possibili ostacoli è veramente impressionante. Abbraccia le diverse dimensioni del cosmo. In nessun punto del mondo esistente si troverà un ostacolo che possa in qualche maniera sviare la fede di Paolo che ha per fondamento Cristo (cf. 1Cor 3,11).
A questo punto sorge spontanea la domanda: Come si può arrivare ad una così profonda fede? Per Paolo la fede è una reazione alla predicazione del Vangelo. Il cammino della stessa fede, dunque, comincia con l’ascolto del Vangelo o della parola che riguarda Cristo e il suo ruolo salvifico. La fede, perciò, «dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,17). Il semplice ascolto può favorire un assenso intellettuale alle verità che riguardano Cristo. Tuttavia un semplice «sì» della mente non è la fede di cui parla Paolo. Per lui l’ascolto della parola del Vangelo deve sfociare «nell’obbedienza della fede» (Rm 1,5; 16,26), che consiste in una totale e incondizionata sottomissione a Cristo e in un impegno di tutta la persona con Dio in Cristo. Infatti Paolo afferma: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). Di qui ne consegue che la fede in Dio o in Cristo (1Tess 4,14; 1Cor 1,21-23; Rm 4,24) è un impegno esistenziale verso Cristo stesso che investe tutta la persona del credente in termini di relazioni con Dio, con le persone e con la natura. Il vero atto di fede induce il credente a uscire da se stesso per esprimere la sua volontà di poggiare la sua esistenza su Cristo. Non si confida più in se stessi, ma si confida unicamente su quanto Gesù ha detto e fatto nel suo ministero pubblico. La fede ha tutte le connotazioni dell’amore: il dono di una perenne presenza reciproca per vivere in una osmosi rigenerante.

 

di Antonio Magnante

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