Slow page dei Missionari della consolata

Dio, educatore fedele

Amore sovrabbondante e rifiuti, alleanze e abbandoni.

La storia della salvezza è caratterizzata da amore sovrabbondante e rifiuti, alleanze e abbandoni.
Il popolo eletto sfugge, si ribella, s’intestardisce. Ma Dio cerca con fedeltà le sue creature, conosce il loro cuore, e lì pone la sua alleanza.

Il compito dell’educatore è universalmente riconosciuto come un’impresa difficile, che richiede insieme pazienza e amore. È un’opera indirizzata all’intelligenza e alla volontà di colui che viene educato, spesso condizionate da fattori sociologici e caratteriali. Se per gli educatori questo compito è duro e fallimentare, verrebbe da pensare che per Dio, invece, l’impresa risulti facile. Non è così. Con Israele Yahweh stabilisce un’alleanza di amore (cf. Es 4,22), operando segni e meraviglie. Lo libera dalla schiavitù d’Egitto «con mano potente e braccio teso», gli fa attraversare il mare delle canne, e per tutto il tempo di pellegrinaggio nel deserto si rivela come un padre provvidente facendo scaturire l’acqua dalla roccia, nutrendolo con manna e quaglie. È interessante notare come questa sua premura si scontri con la dura cervice del popolo. Sin dal tempo di Mosè Israele ha manifestato una serie di infedeltà. Eppure Dio gli aveva offerto la sua Torah, che letteralmente significa «istruzione» (cf. Es 120,1) con cui indicava i sentieri da seguire. Ma Israele si rifiuta di obbedire (cf. Osea 2,16-20). Appena prima della ratifica della grande alleanza del Sinai, rivolto a Israele, Dio aveva dichiarato: «Voi sarete il mio possesso tra tutti i popoli». Israele aveva l’opportunità di diventare «esclusiva proprietà» di Dio. La mancanza di obbedienza di Israele tradisce una crisi di fede, che Geremia capisce molto bene domandandosi: «Può forse un Etiope cambiare la sua pelle, o un leopardo la sua picchiettatura? Allo stesso modo potrete voi fare bene, anche voi abituati a fare il male?» (Ger 13,23). Spesso Geremia ritorna sul tema dell’istruzione impartita da Dio al popolo. Rivolto a Gerusalemme, egli la esorta: «Lasciati ammaestrare, o Gerusalemme» (Ger 6,8), abbandonandosi poi a una constatazione sconsolata: «Si sono fatta una faccia più dura della pietra, e non vogliono convertirsi» (Ger 5,3). Nonostante l’amore di Dio e la sua pazienza, Israele non riesce a formulare nient’altro che un pio  desiderio: «Tu mi hai castigato, e io ho subìto la correzione come un giovenco non domato. Fammi ritornare e io ritornerò, perché tu sei il mio Dio» (Ger 3,18). Israele rimane un giovenco non domato e recalcitra al pungolo dei profeti. Si entusiasma, ma solo per un momento. Dio ne è cosciente, ma non si arrende e ancora una volta prende l’iniziativa. Nella prima alleanza Dio aveva scritto le sue istruzioni su pietra (Es 31,18; 34,28-29; Dt 4,13; 5,22) o in un libro (Es 24,7). Ora compie un lavoro da vero cesellatore, e intagliare la sua istruzione (Torah) direttamente sul cuore dei figli di Israele. Il cuore nella Bibbia è la sede della mente e della volontà. Solo dalla profondità della persona può nascere la decisione di seguire le vie indicate da Dio. Dio quindi decide di stabilire una nuova alleanza: ora Israele non può più accampare scuse perché l’insegnamento scaturisce dal suo cuore. Israele sperimenta in profondità il senso di appartenenza reciproca, secondo la formula classica dell’alleanza «Io diventerò il loro Dio ed essi, da parte loro, diventeranno il mio popolo» (Ger 7,23; 11,4; 24,7; 30,22; 31,32.38; Ez 11,20; 36,28; Sal 95,7). In forza della nuova alleanza il popolo non avrà più bisogno di maestri come Mosè, sacerdoti e profeti, perché tutti, dal più piccolo al più grande, conosceranno Dio senza mediazione alcuna (cf. Ger 31,31-34). Il profeta usa il  termine «conoscere», che nella Bibbia non indica una mera conoscenza intellettuale, ma intima relazione tra due persone, completa dedizione dell’una all’altra. San Tommaso d’Aquino la definisce «una  conoscenza per connaturalità».
Israele, dunque, può attingere la conoscenza di Dio dalla propria natura divina che Dio stesso ha impresso sul suo cuore al momento della creazione. Di qui ne consegue che le istruzioni di Dio non sono più precetti e proibizioni da osservare, ma un istinto naturale, un’intuizione interiore che permette di percepire la  presenza di Dio non «in un vento gagliardo e impetuoso da spaccare i monti e spezzare le rocce», neppure nel terremoto che scuote le fondamenta della terra, o nel fuoco che divora, ma nel «mormorio di un vento leggero» che accarezza il volto (cf. 1Re 19,11-13). Per cogliere la presenza di questo vento leggero è necessario il silenzio: bisogna far tacere le tante sollecitazioni che riempiono la nostra vita e soffocano anche la voce di Dio. Con la nuova alleanza Dio compie una grande opera per l’umanità, ma anche questo tentativo naufraga inesorabilmente. È necessario un intervento ancor più radicale. Nelle vicissitudini della sua storia travagliata Israele si lascia trasportare dalle sirene dei popoli circonvicini, soprattutto nel tempo  del suo esilio in Babilonia. Israele perde la sua fiducia in Dio e dispera di poter tornare a Gerusalemme per  poter cantare di nuovo i canti di Sion.
Dio decide di mettere in atto un nuovo esodo per far ritornare il suo figlio primogenito nella terra che aveva concesso con amore ai padri antichi. Egli decide però di intervenire ancora sul cuore di Israele da cui  estirpare gli idoli cambiando quello di pietra, infedele e ribelle, con un altro «di carne», con cui Israele possa amare il suo Dio e ascoltare la sua voce. Dio opera quest’azione meravigliosa attraverso il suo Spirito, che diventerà la forza interiore di Israele per camminare lungo i sentieri tracciati da lui (cf. Ez 36,26-28).
Basterà a Israele questa nuova alleanza, addirittura definita «eterna» per agire secondo gli insegnamenti divini? Avrà Dio finito di stupirci o inventerà qualcosa di ancor più sorprendente? Vedremo.

di Antonio Magnante

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