Nata a Roma nel 1969, ultima di cinque fratelli, Claudia Gavarini sognava di avere anche lei una grande famiglia. Nel 1998 l’ha trovata nelle missionarie della Consolata. Dopo tre periodi in Kenya intervallati da soggiorni in Italia, oggi presta il suo servizio a Castelnuovo don Bosco, paese natale del beato Giuseppe Allamano.
«Sono nata il 10 agosto 1969 a Roma, ultima di cinque figli. Mio padre non aveva fratelli e, avendone sofferto, voleva avere tanti figli. Mia madre, sin da bambina, giocava a fare la mamma: il Signore, Dio della Vita e dell’Amore, li ha fatti felicemente incontrare».
Perché hai deciso di diventare missionaria e, soprattutto, perché della Consolata?
«Sin da bambina sognavo la missione: sapere di paesi lontani in cui c’era tanta sofferenza, povertà materiale e spirituale, ingiustizia, destava in me il desiderio di partire per condividere le gioie e i dolori di quella gente, e per portare un po’ di sollievo e consolazione. “Consolazione”, appunto! Il mio sogno però, non comprendeva la vita religiosa. Data la bella esperienza in famiglia, desideravo sposarmi e avere anch’io tanti figli, con i quali condividere la passione per la missione. Ma il Signore aveva altri progetti su di me. Le missionarie della Consolata avevano una comunità proprio vicino casa nostra, e la loro chiesa ospitava la comunità cristiana che si andava pian piano formando nel quartiere di periferia nato da poco. Da loro andavamo per la messa domenicale e per il catechismo. Da loro ci eravamo abbonati alla rivista “Il piccolo missionario”. Quando, all’età di 29 anni, ho deciso di fare un “serio” discernimento, il mio parroco di Roma mi ha indirizzato proprio dalle suore della Consolata. Allora, nel 1998, mi trovavo a Perosa Argentina (To), dove lavoravo in una casa di riposo per anziani. Così sono andata a Castelnuovo don Bosco. Si vede che i tempi erano maturi, perché in quel ritiro di sette giorni il Signore mi ha chiamata a “lasciare tutto e seguirlo” …in convento! E dato che mi trovavo già in un convento in cui mi ero sentita a casa sin dal primo momento mi è sembrato normale rispondere “Eccomi!” e chiedere di entrare nella famiglia della Consolata. Il mio sogno missionario e quello di avere una famiglia numerosa, veniva così esaudito».
Puoi raccontare la tua storia missionaria?
«Ho iniziato la mia formazione a Caprie, nel dicembre 1999. Dato che ero sola, per il noviziato sono stata mandata in Kenya. Dopo due anni, ho fatto i primi voti lì, il 29 gennaio 2003. Sono poi tornata in Italia per il primo anno di esperienza comunitaria, che ho fatto a Grugliasco. Poi sono tornata in Kenya, dove ho studiato catechesi a Nairobi per tre anni. Al termine degli studi ho ricevuto la mia prima destinazione missionaria. Io sognavo la Bolivia (non chiedetemi perché, non lo so neanch’io!), ma la madre generale e il suo Consiglio avevano pensato per me… indovinate un po’? Il Kenya! Così sono tornata per due mesi in Italia, giusto il tempo per il mandato missionario in parrocchia e qualche giorno in famiglia (ormai sparsa per l’Italia), e poi di nuovo in Kenya, questa volta per la missione, dove sono stata per quattro anni. A dicembre del 2010 sono tornata in Italia per l’anno di preparazione ai voti perpetui, al termine del quale ho ricevuto una nuova destinazione: Castelnuovo don Bosco, paese natale del nostro Fondatore, dove mi trovo tutt’ora, da febbraio 2012».
Puoi dire due parole sul paese in cui ti trovi oggi? Quali sono le sue sfide missionarie?
«A chi mi chiede se sento nostalgia del Kenya e se voglio tornare in missione, dico di no. Il Kenya è il Kenya, l’Italia è l’Italia. Paesi bellissimi, diversissimi, non si possono paragonare. La sfida principale che penso abbiamo ora in Italia è duplice: da una parte la perdita dei valori umani e della nostra fede, dall’altra quella che chiamiamo “emergenza migranti”, con tutti i suoi lati belli ma anche quelli difficili, come il rischio della perdita della nostra identità culturale e religiosa. Il grande problema della disoccupazione giovanile (e non solo) è un’altra sfida. Come missionari siamo chiamati a fare da “ponte” tra i diversi popoli che si incontrano qui da noi, accogliendo tutti senza discriminazioni, e aiutando a costruire comunità, perché tutti possiamo imparare a vivere da fratelli, figli dello stesso Padre, che ci ama tutti, ma proprio tutti, così come siamo».
Che lavoro stai facendo oggi?
«Attualmente, oltre al servizio interno nella mia comunità, presto il mio servizio in una casa di riposo per anziani e persone con disabilità fisica e mentale in un paesino vicino a Castelnuovo, e cerco di accompagnare i giovani a livello personale, andandoli a trovare a casa, creando rapporti di amicizia anche con i loro genitori».
Qual è la difficoltà più grande che incontri? E quale la soddisfazione?
«La difficoltà più grande che trovo è la mancanza di collaborazione da parte di alcune persone, la chiusura nel “proprio orticello”, insieme alla mancanza di dialogo e vera comunicazione. Nell’era della comunicazione immediata via internet, è così difficile creare dei legami veri, comunicando cuore a cuore!
La soddisfazione più grande è sentirmi chiamare “la nostra suora”, o “la nostra Claudia”, sentire di appartenere alla gente a cui sono stata mandata da Lui, il sentirmi veramente sorella».
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«Ce ne sono tanti… Forse quando, in Kenya, alcune donne di diversi villaggi appena incontrate, mi hanno fatto una bellissima accoglienza, e dato un nome in lingua samburu: Naitutum, che vuol dire “persona che crea comunione, che fa da ponte”. Un nome bellissimo, che è anche la mia missione».
Cosa possiamo offrire al mondo come missionarie/i della Consolata? Quali sono le ricchezze che possiamo condividere con gli altri?
«Prima di tutto, credo che possiamo e dobbiamo offrire Cristo, il Consolatore e Vera Consolazione, avendolo conosciuto e sperimentato personalmente. Poi la nostra esperienza missionaria in altri paesi, con altri popoli, la conoscenza di lingue, culture, religioni diverse. Questo ci può aiutare a creare comunione tra i diversi popoli ed etnie, camminando insieme a loro per formare un’unica Famiglia, quella dei figli di Dio, dove c’è posto per tutti, nessuno escluso».
Cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
«I giovani hanno bisogno di ascolto, di comprensione, di spazio vitale per crescere, fare esperienze, imparare a scegliere. Hanno bisogno di modelli “solidi” che possano indicare la strada, senza imporla, disponibili a camminare loro accanto. Stare con loro, dove loro sono. Andarli a trovare, interessarsi, farsi amico, compagno di viaggio. Ma con discrezione, lasciandoli liberi, anche di sbagliare. Essere con e per loro, attenti, disponibili».
Che frase, slogan, citazione proporresti ai giovani che si avvicinano ai nostri centri, e perché?
«Una frase che ho trovato su un pezzetto di carta nel mio astuccio, quando ero alle superiori (non so come ci sia finito…): “La gioia nasce nel momento in cui abbandoni la ricerca della tua felicità per cercare di darla agli altri”. Perché? Tutti, in un modo o in un altro, siamo alla ricerca di gioia, di felicità. Questo può essere un buon modo di trovarla!».
Luca Lorusso
di Luca Lorusso
Luca Lorusso
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