Cristina Garcia, medico spagnolo, ha compiuto un’esperienza nell’ospedale di Gambo, oggetto, nei mesi scorsi, del nostro progetto Amico reparto Lebbra.
Ecco la sua testimonianza (luglio e agosto 2013).
Scrivo alla luce di una candela dal cuore dell’Etiopia. Non è un modo di dire… Sono già iniziate le piogge e la luce va via continuamente. Oggi abbiamo avuto luce per un’ora al massimo.
Finalmente comincio a inserirmi e a capire come funziona questo mondo. Voi sapete che un viaggio in Africa è sempre come tornare indietro nel tempo, ma in questo caso tanto più, perché secondo il calendario etiope siamo nel mese di ottobre 2005.
In realtà non è così diverso da altri luoghi dell’Africa che mi hanno conquistato in altri viaggi… Il posto è bellissimo (un’oasi verde tra le montagne a 2200m slm). Anche se può essere sorprendente, fa piuttosto freddo, siamo nella stagione delle piogge e l’altitudine e le nubi non lasciano aumentare molto la temperatura. Sembra un paradosso, no? Io scrivo dall’equatore nel mese di luglio con due coperte addosso, mentre voi state passando una calda notte d’estate in Spagna!
Le persone qui sono deliziose… Sempre con un sorriso sul volto, nonostante le evidenti difficoltà. Si tratta di una zona molto povera, dove le persone vivono il loro bestiame (chi lo ha) e l’agricoltura di sussistenza. Gambo non è una città, è solo il nome dell’ospedale in cui lavoro e imparo ogni giorno. Si tratta di un ospedale distante da grandi concentrazioni di popolazione, ma a poco a poco la gente si sta stabilendo qui intorno e comincia a formare un piccolo villaggio. L’ospedale è costituito da diversi edifici separati, collegati da splendidi giardini e vialetti pieni di persone, animali e vita. (Niente a che fare con i nostri blocchi di cemento enormi e freddi). In totale ha 200 letti (anche se non è raro avere più pazienti per letto, specialmente se bambini). C’è un blocco di pediatria e per la malnutrizione infantile, che generalmente ospita 60-70 bambini, un edificio per ricoverare gli adulti, un altro per tubercolosi, lebbra, maternità, chirurgia e ambulatori.
La cosa ha avuto un inizio forte, dal momento che nel nostro primo weekend dopo il Master di medicina tropicale che ci ha portato a Gambo siamo stati in servizio presso l’ospedale. Le guardie durano tutto il fine settimana, dal venerdì alle 15:00 al lunedì mattina. La guardia fa tutto: per l’intero fine settimana tu sei l’unico medico in ospedale, per cui devi arrivare a fare tutto. Sei pediatra, ginecologo, radiologo, infettivologo… Per fortuna abbiamo un team di infermieri molto ben preparati e pazienti che sanno veramente bene qual è il significato della parola «pazienza», nonostante le situazioni estreme che ogni giorno vivono.
Abbiamo avuto molte emergenze, in particolare bambini con grave malaria e malnutrizione, ma anche alcuni parti complicati e adulti con meningite, grave anemia… La verità è che la gente arriva in condizioni già molto gravi!
Per i medici… questo è medicina clinica! Durante il fine settimana non c’è la radiologia, solo un’analisi di base. […].
Ho scoperto antibiotici che non avevo mai usato nella mia vita… ho trattato il mio primo caso di meningite con cloramfenicolo con un eccellente risultato… Abbiamo un Eco, ma non un radiologo, quindi mi sto stancando a forza di fare ecografie (a fini ginecologici).
Beh… nonostante mille difficoltà, siamo sopravvissuti alla guardia!
Ci sono anche momenti molto difficili. In questo tempo ho visto molti bambini di un mese morire, e molti altri al limite. Per la prima volta ho dovuto applicare la rianimazione cardiopolmonare pediatrica e neonatale (senza molto successo). È molto sorprendente la durezza del popolo, il modo diverso che ha, rispetto a noi, di reagire di fronte alla realtà della morte. In Occidente spesso ci ossessionano per mantenere «vivi» anziani che hanno completato il loro ciclo di vita e che non chiedono altro che riposare, mentre qui, per esempio, un bambino di 3 anni muore per non aver affrontato in tempo un parassita intestinale (cinque centesimi di €).
Il nostro lavoro è abbastanza intenso: dalle 8 alle 13 in reparto. Nel pomeriggio, dalle 15 alle 19 facciamo attività ambulatoriale (dove affrontiamo anche le emergenze che arrivano).
Dopo queste intense giornate desideriamo solo riposare e digerire tutte le informazioni ricevute.
Dopo settimane ci si sente integrati nella routine del lavoro all’ospedale, cosa non facile, perché tutto è un po’ caotico, in uno strano ordine africano, ma alla fine le cose funzionano.
Benché fossimo arrivati con l’obiettivo di prenderci cura dei malati di lebbra e tubercolosi, le prime due settimane, il medico responsabile ha approfittato della nostra presenza per prendere un po’ di vacanza, così mi sono dovuta adattare d’improvviso a occuparmi di tutto, oltre ai problemi di lebbra e tubercolosi. Una bella sfida.
Dopo queste due settimane di stress e di apprendimento forzato, mi sono finalmente dedicata al mio compito (lebbra e tubercolosi). Nella sezione della lebbra ci sono 46 posti letto, 25 in quella dedicata alla Tbc. Quando non ci sono volontari, questi due edifici sono di solito molto abbandonati, il medico che si prende cura degli adulti non può vedere ogni giorno tutti i pazienti, e quindi passa attraverso queste sale quando la situazione è insostenibile e gli viene notificata una emergenza.
Come potete immaginare non riesco a vederli tutti ogni giorno, così passo nelle stanze a giorni alterni, e se capita un incidente.
Il lavoro con la lebbra è bello. La maggior parte delle persone sono vecchi pazienti già trattati in passato, con conseguenze significative (amputazioni, deficit di sensibilità, le reazioni post-lebbra), alcuni arrivano con ulcere infette, infiammazioni dei nervi, alcuni sono nuovi casi.
Sono pazienti molto speciali! La maggior parte ha subito una profonda esclusione sociale e anche famigliare per molti anni, ed è evidente che qui si sentono al sicuro, come in una grande famiglia, dove nessuno è respinto.
Da buona appassionata di malattie infettive, qui sto imparando e godendo moltissimo, perché, a parte la lebbra, quasi tutti i pazienti hanno ulcere nelle quali proliferano batteri che non so nemmeno pronunciare. Abbiamo poche risorse, quindi la gestione di queste infezioni a volte diventa un’arte, che non ha sempre un buon risultato. In generale sono molto felice, perché siamo riusciti a far uscire in buone condizioni pazienti ricoverati da mesi e persino anni.
Da alcuni mesi abbiamo un microbiologo che è venuto dalla Spagna per stare qui sei mesi. Non sapete quanto bene ci viene dal suo aiuto e quanto sta migliorando la nostra capacità di lavorare.
Inoltre, stiamo facendo numerose ricerche su lebbra, tubercolosi e malaria. Quindi, anche in considerazione della mia formazione, questa è l’esperienza più costruttivo per me.
Per quanto riguarda la tubercolosi, il lavoro è abbastanza difficile. Di solito abbiamo circa 20-25 pazienti che fanno la prima fase del trattamento (due mesi). La maggior parte sono giovani (18-30 anni), che arrivano in condizioni al limite, grave malnutrizione cronica, anemia brutale, parassiti intestinali.
Qui il lavoro è duro. Abbiamo solo 3 fonti di ossigeno per 25 posti letto, e pochi trattamenti al di fuori di quanto provveduto dal governo. Si vivono drammi reali quando il paziente non migliora, non abbiamo mezzi. Sono molto frequenti i casi di tubercolosi disseminata (addominale, intestinale), che in Spagna sono piuttosto rari e hanno un decorso molto più complicato.
Nel pomeriggio seguiamo i pazienti ambulatoriali e in emergenza. Non siamo a corto di orrori! Ci sono momenti veramente difficili. Quando un paziente deve essere ricoverato per una malattia grave, ma la famiglia non può pagare il ricovero e l’operazione! Questo accade quasi tutti i giorni, ed è tremendo. A volte possiamo ricoverarli in «osservazione» per salvare il pagamento del ricovero (ma non sempre ci sono letti per farlo).
Fuori dall’ospedale, la realtà non è meno difficile. La zona è davvero povera. Ad ogni passo che fai vedi ragazze o donne che trasportano acqua, legna, borse. Le case delle persone sono molto umili, ed è normale che la gente cammini a piedi nudi sul fango perpetuo che c’è durante la stagione delle piogge. Ogni mattina quando vado a fare colazione, incontro un gruppo di ragazzi che vengono alla «missione» per ricevere una piccola bottiglia di latte: l’unico latte che ogni giorno entra in casa.
A parte queste realtà, la nostra vita al di fuori dell’ospedale è breve, ma molto bella. Ci sono quasi sempre diversi volontari con profili molto diversi. Questa estate abbiamo avuto 10 volontari spagnoli, 3 italiani, 10 canadesi, un inglese e un olandese (a parte gli abitanti della missione), il che rende l’esperienza molto divertente e internazionale. Nei fine settimana in cui non siamo di turno, viaggiamo e cerchiamo di conoscere i dintorni di Gambo.
Come sa chi mi conosce bene, nonostante tutti momenti difficili, vivere e sentire la realtà dell’Africa, ha per me sempre un lato dolce. Aiuta a conoscere meglio se stessi, a conoscere il lato amaro della disuguaglianza e soprattutto a imparare a godere di quei piccoli momenti che rendono una giornata speciale.
Un enorme abbraccio da un angolo di Africa che mi ha lentamente conquistato!
di Cristina Garcia su gambohospital.org
Cristina Garcia
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