Slow page dei Missionari della consolata

Pasqua di Risurrezione 1958. P. Giuseppe Mina dal Kenya

Padre Giuseppe Mina, missionario della Consolata, ritratto in AMICO n.2 del 1958.

Carissimi,
questa prima Settimana Santa che ho passato in Missione, mi ha lasciato un piccolo margine di tempo che in avvenire non avrò più. Mi venne il pensiero di raccoglierne le impressioni sulla scorta dei Testi che la rinnovata Liturgia mette a disposizione per suscitare in noi la Fede e l’amore a Gesù Cristo, che muore Crocifisso per la nostra salvezza.

Lettera del Padre Mina Giuseppe dalle Missioni del Kenya

Chi non conosce P. Mina? È una delle così dette “Vocazioni Tardive”. A Fossano, dove nacque nel 1911, aveva già frequentato i corsi di avviamento professionale e già esercitava la sua arte di intagliatore, quando, a 22 anni, entrò nell’Istituto per completare gli studi e realizzare il suo sogno di essere Sacerdote Missionario, che aveva accarezzato per tanto tempo da militante nella A.C.I.
Dopo l’ordinazione Sacerdotale (1942) fu destinato all’educazione e formazione dei nostri “Apostolini” ricoprendo successivamente le cariche di Assistente Prefetto, Padre Spirituale e per sei anni consacrò il meglio della sua attività intelligente e dinamica nella Casa dei Fratelli Coadiutori di Alpignano.
Incaricato del Noviziato, nel 1957, ricevette la destinazione per le Missioni del Kenya. Tanti nostri giovani che l’hanno conosciuto e amato ascolteranno volentieri la sua voce sempre feconda ed entusiasta, e l’A.MI.CO interprete di tutti lo ringrazia di cuore formulando i migliori auguri.

Kyangonyi, Missione di S. Giuseppe
Pasqua di Risurrezione 1958

Carissimi,
questa prima Settimana Santa che ho passato in Missione, mi ha lasciato un piccolo margine di tempo che in avvenire non avrò più. Mi venne il pensiero di raccoglierne le impressioni sulla scorta dei Testi che la rinnovata Liturgia mette a disposizione per suscitare in noi la Fede e l’amore a Gesù Cristo, che muore Crocifisso per la nostra salvezza.
Non mi sono dilungato. Solo qua e là, qualche spunto che vi invio pensando di fare cosa grata a quanti, Amici, Dame Missionarie, Parenti e conoscenti in questi giorni si saranno ricordato di pregare anche per me. Queste righe vogliono dire che, per parte mia, ci fu il ricambio, soprattutto nella preghiera.

SETTIMANA SANTA 1958 IN TERRA DI MISSIONE

I°) LA DOMENICA DELLE PALME.
La nostra gente attende i giorni delle “cose sensibili”. La Chiesa, madre buona, da secoli conosce questi bisogni e prepara ai figli questi giorni, come la domenica delle Palme, il Giovedì, il Venerdì, il Sabato della settimana che ha i giorni “Santi”. Giorni in cui la Chiesa chiama i figli a ritemprarsi nella fede delle cose che furono che sono e che saranno; e tocca il loro cuore servendosi di “cose e di segni” accessibili alla umana natura. Essi diventano, “sacramentali”, via ai Sacramenti, mezzi di salute.
Così, oggi, nelle cristianità antiche come in quelle spuntate da poco nelle terre di missione si ripeterà “l’Osanna a Figlio di David”: benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Re di Israele, Osanna nel più alto dei cieli”.
Ed io, all’altare, indegnamente elevai supplice la preghiera: “Benedici, ti preghiamo o Signore, questi rami di palme o di altri alberi (appropriato per questa gente, l’inciso della “rubrica”: a Kyangonyi non crescon palme…). E concedi che, quanto il tuo popolo oggi compie esternamente in tuo onore, abbia una profonda risonanza nel suo spirito, dandogli vittoria sul nemico e vivo trasporto verso ogni forma di misericordia”.
–    Mio Dio, sì, difendi questo tuo popolo, Tu lo sai, quanti nemici lo attorniano: viene dal paganesimo, vive tra gente pagana, e nella stessa capanna, altri, sono ancora tali. Tu lo sai cosa vuol dire essere a contato con un mondo pieno di sensuali bisogni…
–    Quando mi sporsi alla balaustra per far scendere l’acqua lustrale sulle fronde e sul popolo, quello si diede ad agitar freneticamente il verde che teneva tra le mani. Non gridava: “Osanna”, non diceva nulla. Ma quel verde sullo sfondo scuro dei volti dagli occhi luminosi, dava la certezza che, con questa spontanea dimostrazione di gaudio, Dio lo traeva più vicino a Sè.
–    Perché, o Signore, adesso vien già tanto acqua? È una benedizione anch’essa per questa terra sempre bisognosa di pioggia. Ma il tuo popolo non può uscire all’aperto per cantare. “Gloria, onore a te o Re, Cristo Redentore…” lo sai che quel canto era da tempo che lo preparava…

Ma nel pomeriggio, splendeva il sole e la gente del villaggio di Nakianga e quella dei villaggi circonvicini, fin dall’una era già nella povera cappella fatta di pali e di fango; col tetto, addirittura in lastre zincate; – segno di progresso, questo ma che crea al mio Padre Parroco un sacco di fastidi per via… delle ottantamila lire che costa. (A chi può dire il missionario, tutti i suoi affanni, ed i bisogni che spesso ne arrestano il passo? Lo dico a voi, con questo inciso!).
Makianga è a 1.800 m.s.m. ed ha per scenario l’immenso mare delle colline che pian piano si agganciano ai sistemi montuosi dominanti dal Kenya e dal Kilimangiaro. E, sulle colline, villaggi dalle capanne ordinate come scolaretti in parata.
Vi giunsi verso le 14, e i primi a salutarmi furono i bambini, con i rami verdi in mano: è naturale che sia così; non hanno essi, oggi, la parte d’onore, nell’incontro col Re Divino? Trovai donne e figliole che sfoggiavano vesti multicolore veli sgargianti che, in chiesa danno un senso di festosità e di giovinezza capace di distogliere l’occhio dalla cruda povertà del luogo sacro.

Al cenno del catechista la flotta dei bambini e dei ragazzi entrò in cappella ad occupare il posto riserbatole dalla Liturgia; le sapienti cantorie dell’Italia stamane avevano difatto cantato l’antifona Nona: “Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei, preannunziando la risurrezione della vita, agitando i rami di palma, gridavano: Osanna nel più alto dei cieli”.

Scese anche su queste centinaia di fedeli l’acqua lustrale; essi agitarono ancora le palme e nel loro silenzio si intuiva che volevano Gesù per loro Re. GlieLo dissero poi, col canto. A gran voce i catechisti intonarono: “Osanna”. La folla uscì pian piano continuando il canto e portando la fronde (molte di palma, stavolta, certi le avevano intrecciate abilmente a ventaglio, a trecce, a freccia).

La processione trionfale si snodò sul piazzale antistante; la cerchia delle capanne faceva corona; molti pagani osservavano lo spettacolo per essi ancora senza nome, ma ricevevano forse il tocco interiore di Dio, come insinua l’Oremus, tocco “di profonde risonanze nello spirito”, capace di preparare la vita alla conversione.
Rientrati in cappella – stipata all’inverosimile, poiché anche gli spettatori volevano assistere al resto – il verde fu davvero la nota dominante della folla, composta come si trovasse in una cattedrale. Verde, speranza che anima la Chiesa che guarda, compiaciuta, i novelli virgulti.
La mia povera voce raccoglie la preghiera che conclude il trionfale Osanna: “Signore Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in cui onore, portando questi rami, abbiamo cantato solenni lodi, concedi propizio che dovunque saranno portati questi rami, là scenda la grazia della tua benedizione, e la tua destra protegga i tuoi redenti da qualsiasi nequizia e inganno diabolico”.
Dopo la messa vespertina i cristiani giocondamente porteranno quei rami benedetti nelle loro misere capanne.

“Là scenda la grazia della tua benedizione”, prega la Madre Chiesa. Essa conosce i loro grandi bisogni… le insidie diaboliche a cui saranno ancora sottoposti quei teneri virgulti. Li consola: “La destra di Dio li proteggerà. E essi vivono sereni, in questa fede.
Le Palme benedette sono pegno visibile di vittoria nelle lotte di domani e sempre.

GIOVEDÌ SANTO

Al mattino: i ragazzi della scuola, che ormai avevano innanzi le vacanze di Pasqua prestarono manforte a tagliar con la “panga”, il coltellaccio tuttofare – le erbacce che in Africa, come dappertutto, crescono meglio delle erbe buone. Ed erbaccia gramigna, addirittura fecero strage, quei bravi ragazzi, attorno alla missione.
In chiesa si doveva preparare il Santo Sepolcro o Repositorio, ma la suora incaricata della sacrestia è partita al mattino per una visita ai villaggi ove l’attendevano malati – è anche infermiera -, erano già le undici e non era ancora di ritorno.
–    Almeno avesse lasciato fuori i “drappi” – andava dicendo il mio Padre Parroco -. Invece…
Alla fin fine si doveva  preparare, il Santo Sepolcro e quella buona suora non tornava. Allora il Padre Parroco andò a rovistare là dove la suora non voleva che nessuno ci mettesse mano (ogni incarico ha i suoi “misteri”…) e ci trovò i famosi drappi. Io ci rimasi, perché, quelli, non eran drappi, ma due o tre scampoli, una striscia con certi ghirigori che volevano essere, nell’intenzione dell’artista, ornamenti; un gran “affare” a maglia, e una copritovaglia di colore indefinito. Tutto lì.
Demmo noi mano all’acqua, perché il tempo urgeva. Alle 16,30 era prevista la gran funzione “in Coena Domini”.

All’altare laterale della Consolata – su quello maggiore troneggia un san Giuseppe grande e bello – si preparò in men che non si dica un Repositorio, il quale, in questo, era conforme alla raccomandazione delle “rubriche”: che non lo vogliono sia “troppo sfarzoso”. Si fissò la striscia in alto, la faccenda a maglia, e le poche altre cose trovarono degno posto: si inserirono molti fiori nelle maglie (“facciamo sempre così, stanno bene”, badava a dire il Parroco missionario, che da oltre 25 anni se la passa con le cose semplici, povere, cioè); e quando fu di ritorno la suora che non aveva mai trovato, ai villaggi, tanti malati come quel giorno, il santo Sepolcro era pronto a ricevere, in un Tabernacolo anch’esso povero, il Re dei Cieli e Signore Nostro Gesù.
Intanto cominciavano a giungere da lontano e da vicino i fedeli che volevano far Pasqua. Assieparono il confessionale ed il mio Parroco non ne uscì più…
La suora infermiera – sacrestana continuò i lavori di addobbo con certe cosettine che teneva nascosto addirittura nell’inaccessibile; ed altare e Repositorio finirono di parere belli anche a me, giunto da poco dall’Italia. Buona, quella suora indigena; non fece neanche pranzo per essere in grado di far Pasqua anche lei!
Il suo popolo, gremì ogni banco della chiesa capace; e quando io uscii per la solenne celebrazione vespertina, – spingendo avanti un gruppo di chierichetti animosi e pronti a ogni cenno, – la chiesa era piena zeppa di fedeli. Donne, giovani e bambine a sinistra, uomini e giovani e ragazzi a destra, come al solito.

“Quanto a noi dobbiamo gloriarci della croce del Signore Gesù Cristo, nel quale sta la salvezza, la vita e la risurrezione nostra” disse con san Paolo, all’Introito, mentre cantori e popolo alternavano il Kyrie della “Messa De Angelis”. Intonato  il Gloria, campane e campanelli a distesa; le voci, più forti che mai dissero che anch’esse si gloriavano della Croce del Signore Gesù che li aveva tratti dal paganesimo.
Lessi l’Epistola dove san Paolo sta redarguendo i Corinzi (I – 2.20.23). Quelli in dato periodo, andavano alla sacra Mensa mal disposti, e l’Apostolo dice loro: “Vi devo lodare? Niente affatto; in questo non vi lodo… Ognuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice, perché chi ne mangia e beve indegnamente… si mangia e si beve la sua condanna”.
Il Padre Parroco uscì allora un momento dal confessionale ove lavava la coscienza di quella gente che non vuol mangiare e bere indegnamente il corpo ed il Sangue di Gesù; ascoltò il canto del Vangelo e poi salì sul piccolo pulpito mobile e di là spiegò al popolo, che ascoltava attento, la vicenda della bontà di Gesù. Il quale Gesù, è detto nel Vangelo che s’era cantato prima, lavato i piedi ai suoi Apostoli, poco prima di intuire il Sacrificio ed il Sacramento della Santa Eucaristia. Che lo ricevessero bene, sempre, Gesù, nell’Eucarestia. Se no, come dice san Paolo, uno si mangia e beve la sua condanna. Capito? E, per accertarsi che anche i sordi avessero… compreso, ripeté l’argomento e invitò a prepararsi alla Santa Comunione. E, che si volessero bene, “si lavassero i piedi a vicenda” con la carità! Egli parlava ai cristiani, che devono vivere tra pagani i quali non hanno la legge regale del perdono; cristiani che hanno ancora tanti inviti alla vendetta e qualcuno vi cede; com’era opportuno quel richiamo, a quel punto del Giovedì Santo!

“Quando ci riuniamo insieme: vediamo di non essere divisi di cuore lo dice il grande canto antico della “lavanda dei pedi”.
Cessino le contese maligne, cessino le liti. Ed in mezzo a noi sia il Cristo Dio. Ov’è la carità e l’amore, ivi è Dio. Insieme ai beati ci sia concesso di vedere nella gloria il tuo volto, o Cristo Dio. E sarà questo un immenso e giusto gaudio. Per gli infiniti secoli dei secoli. Così sia”.
Il canto antico si levò dalla cantoria. Mi parve significativo e ricco di risonanze superbe. Il popolo si addensa alla balaustra e, a cento, a cento, – quanti! –.
… Gesù, in un Giovedì ormai lontano ma sempre vicino, prima di patir e morire, nel momento dei supremi abbandoni e del tradimento di Giuda, “avendo amato i suoi”,  infine li amò dando Se stesso.
Ci vien da concludere: che “il tradimento non ci sia tra noi. Deboli, sì; bisognosi di confessionale, sì. Ma essere lontani per sempre da Gesù, no. Così mi sembra voglia questa gente, cui la Grazia sostiene la debolezza estrema; ma essi sono ricchi di fede”.
“O Signore Iddio, fa te ne preghiamo che nutriti degli alimenti di vita, ciò che celebriamo durante la vita mortale possiamo raggiungerlo col dono della tua immortalità”.
Quindi il povero Repositorio accoglie Gesù; il quale riceverà i fedeli nell’incontro delle soste adoranti. Giovedì Santo; sotto tutti i cieli, giorno del grande incontro.
A notte una luna dei tropici splende nel cielo. Una nuvola passa e la vela. Forse fece altrettanto, “quella notte”, per non vedere le sofferenze del Figlio di Dio. Egli nell’orto, sudava sangue.

VENERDÌ SANTO

“Queste cose dice il Signore: nella loro tribolazione verranno di buon mattino a me, dicendo: su, via, torniamo al Signore. Egli ci ha colpiti ed Egli ci risanerà”. Così Osea (6.1.2) oggi parlerà nella “prima Lezione” della solenne Liturgia pomeridiana del Venerdì Santo; ma alle 5,50 erano già proprio alla porta della Chiesa, parecchi per entrare a far compagnia a Gesù; nel Repositorio coi suoi pochi ceri ed i fiori infilzati nelle maglie di cui si disse ieri – adesso poi, cominciavano ad appassire -, Gesù ebbe presto chi gli tenne compagnia! Una specie di grande “turno”. Gli portò ai piedi, nelle diverse ore della mattinata, la folla dei ragazzi, quella degli uomini, quella delle donne  e così via via, questa gente dalla vita tribolata e grama, trovò riposo nella preghiera, nel canto sonoro anche se a noi non sempre gradito all’orecchio; perché sembra che essi percepiscano soltanto cinque toni… il Signore però, ha l’orecchio  più buono del nostro. Troverà forse quelle armonie che dovrebbero levarsi da certe antiche cristianità, che oggi non sanno più fare sentire a Lui!…

“E Gesù, quand’ebbe preso l’aceto disse: Tutto è compiuto. E, chinato il capo, rese lo spirito”. Così, oggi, San Giovanni ci dice nel “Passio”. E alle tre, in quell’ora suprema da cui dipende la nostra salute, – prezzo della Sua Morte -, la parrocchiale della missione san Giuseppe era gremita di gente venuta per la Via Crucis. Un bambino, alla quarta stazione rotolò giù dalla scaletta della tribuna ove s’era rifugiato, per sedersi un poco; era tanto piccolo. Lo portarono fuori. Ma urlava tanto forte da coprire la voce del Padre Parroco il quale leggeva le vicende della dolorosa salita. La suora sacrestana-infermiera uscì per dar due punti al labbro del bambino che s’era aperto, versando sangue pure lui.
Alle 16,30 però in chiesa c’era addirittura la ressa; gente venuta da ogni dove per assistere e partecipare alla funzione che tanto piace: l’adorazione della Croce. Non mi sarei mai immaginato una così larga partecipazione. C’era anche Jhon, il capo indigeno della “location”, e parecchi altri che governano il paese. C’erano, frammisti alla folla, pagani e catecumeni. Notai che la voce sempre squillante del Padre Parroco tremò quando giunse al punto della funzione ove la Chiesa prega “per i catecumeni nostri, affinché il Signore Dio apre le orecchie dei loro cuori e la porta della sua misericordia…”. Molti di più potrebbero essere, in questa parrocchia dagli 80.000 abitanti e con soli settemila cristiani tratti a grande prezzo di sacrifici. Ma come si fa a raggiungere tutta quella gente, con due preti soltanto e 47 e più villaggi sparsi sulle colline e sui monti? Oh, lo sapessero, quei della patria lontana, che qui c’è gente in attesa; ben disposti. N’approfittano i protestanti, della nostra miseria, e noi stiamo a mirare impotenti altri che raccoglie…

Per questo, penso, al Padre Parroco tremò un poco la voce, a quel punto. Ed anche quando si levò la preghiera per gli infedeli: “affinché Dio onnipotente tolga l’iniquità dai loro cuori, e così, abbandonati i loro idoli, si convertano al Dio vivo e vero, e al suo unico Figliolo Gesù Cristo…”. La gente Gekojo anche pagana, non adora idoli, ma un Dio solo, che molto bene distingue dal regno degli spiriti. Ha per Dio una reverenza grande. C’è da pensare che, con questa fondamentale disposizione, tutti entrerebbero nel vero ovile, se ci fossero sufficienti apostoli per chiamarli ad ostacolare l’avanzata di chi predica a quei poveretti un mutilo Gesù…
Quando però si scoprii la Croce al canto di “Ecco il legno della Croce, dal quale pende la salvezza del mondo”, era impressionante la tensione della massa che gremiva la chiesa (mille, mille e più? Non saprei quanti fossero…).
Il Padre Parroco ed io ci prostrammo per primi a baciare le Sante Piaghe, mentre i bambini cominciavano a salir sulle panche per veder meglio, e un gruppo di ardimentosi si piazzò sul pulpito nobile.
E cominciò la grande sequela degli “improperi” che mi sembra non si addicessero a quella gente avida di baciare le sacre piaghe; gli “athuri”, anziani che nelle funzioni metton ordine, non riuscivano a incarnarli tutti. Bimbi posti in mezzo alla calca, vecchiette che non riuscivano a farsi strada. Tutti, tutti, anche quel che non avevano fatto la prima comunione, volevano baciare Gesù. La cosa minacciava di finire con qualche incidente. Ed allora il Padre Parroco, che ha sempre idee adatte alla situazione, cessò di leggersi gli improperi (tanto più che la gente adesso cantava  piena voce con sant’Alfonso debitamente tradotto “ah, ah, ah qual provo tormento e dolor, sì, al pensare che offesi il Signor!”…); si alzò e prese il Crocifisso, e passando alla balaustra per farlo baciare, risolse un difficile problema che i testi liturgici della settimana Santa, anche rinnovati, non aveva risolto!
Ma vi dico che tutto quello si svolgeva in un clima di pietà vera.
Non mi stupii se, poi, le Comunioni furono tante e tante; oltre 500. Le prime ombre della notte, e poi la notte accompagnò i fedeli alle loro capanne vicine e lontane; ognuno racconterà ad altri l’avvenuto incontro con Gesù Crocifisso. Di colle in colle, nel Gekoyo e in tante parti dell’Africa cristiana, i medesimi suoi figli annunziano la lieta novella. La Chiesa, Madre buona, prima di congedarli, aveva pregato così:
“Signore, discenda abbondante la benedizione sul tuo popolo, che divotamente ricorda la passione e la morte del tuo Figliolo; trovi perdono, sia consolato, cresca nella fede, e percepisca gli eterni frutti della Redenzione. Per Cristo nostro Signore. Così sia”.
Dite anche voi: “Così sia!”.

SABATO SANTO

“Lei, che è fresco delle cose nuove, metta in regola il cero pasquale colle ultime disposizioni”, mi disse stamane il Parroco; e con questo voleva dire, disegnare sul cero una croce come sopra e sotto l’Alfa e l’Omega, e nell’angolo destro a sinistra, alto e basso della croce stessa, la data dell’anno corrente: 1958.
Rintracciai il cero, ma era così corto ormai che doveva averne già visti di Sabati Santi… prima della “Riforma” di Pio XII° del 1955. Il difficile poi fu trovar colori, biacca, o che volete. La missione san Giuseppe per il momento era completamente priva di queste cosette che voi trovate ad ogni angolo di vie. Pazienza. Presi carta rossa; ne venne fuori una croce fiammante con una Alfa ed una Omega meravigliosi, che incollai con molta perizia. Andai in camera, sfogliai il calendario di santa Teresa, dai “numeri grossi”, e vi tirai fuori quanto bastava per comporre l’anno dei satelliti artificiali: 1958. Debitamente ritagliati e incollati sul cero, erano così il tono col rosso della croce che ne fui contento. “Lei è fatto per rimodernare i ceri”, mi disse il Padre Parroco. Io presi per buono il complimento, vedendo innanzi aperto un bel campo di azione missionaria.

Ma a sera, allorché il sole stava per tramontare e il popolo di Dio si radunava davanti alla parrocchiale, mi accorsi come tutto veniva notato. Alla benedizione  del fuoco, uno sciame di ragazzi commentava le “novità del cero” – sanno leggere, essi, capite. Ma il Padre Parroco li incenerì con uno sguardo extra liturgico, che misero a posto il mondo piccino. Il quale mondo piccino, più intraprendente che mai, aveva portato con sé molte scatole di fiammiferi: queste, – un mucchietto accanto al fuoco, – furono benedette col medesimo. Le porteranno poi via con religioso rispetto.
Quei fiammiferi daranno “fuoco sacro in casa”, e per un bel po’ di tempo!
Quando il Padre Parroco ebbe terminato di incidere con lo “stilo”, (una “biro” nuova) la croce e l’anno di grazia 1958, (che non è tanto l’anno dei satelliti artificiali, quanto uno degli anni di Cristo: “Cristo, ieri e oggi, Principio e fine, Alfa e Omega: suoi sono i tempi, e i secoli”…), allora io portai processionalmente in chiesa il cero, cantando “Lumen Cristi” in tono sempre più alto. La chiesa era buia, essendo il sole tramontato; ben vennero in tagli le candele che la Liturgia fa accendere, perché a me, toccò in sorte di cantare l’Exultet. Come avrei potuto fare senza quel simbolo e utile ausilio? Alla missione san Giuseppe, non so quando giungerà la luce elettrica.
Poi attaccammo con impegno le “quattro” Lezioni; ma proprio dopo quella che narrò il passaggio degli Ebrei, a piedi asciutti, nel Mar Rosso, i ragazzetti indispettirono forte il Padre Parroco; molti di essi, oltre i fiammiferi, avevano portato una bottiglietta. Ogni tanto a qualcuno scappava di mano cadendo per terra, con relativo nefasto rumore. Durante la “traversata”, la faccenda si aggravò al punto che, in lingua Kikuyu, il Parroco li apostrofò intimando che la smettessero di disturbare. Per un poco la “monition” fece effetto… con che si portò l’acqua benedetta a casa? Mica c’è un surrogato come pel fuoco (i fiammiferi): e s’eran provvisti del necessario. Il resto, lo sapete ciò che avvenne, o almeno lo potete immaginare.
Queste cose in Africa però non tolgono la devozione e nessuno, e nemmeno il raccoglimento. E la stupenda funzione continuò ad avvincere tutti. La benedizione dell’acqua Battesimale fece scendere accenti meravigliosi sulla massa dei fedeli, – adesso nel buio del tempio senza luci. – Madre Chiesa sembra pensi alle terre di Missione dicendo quelle espressioni.

“…Riguarda, o Signore, alla tua Chiesa, e moltiplica in essa le rinascite spirituali tu, che con l’abbondanza della tua grazia… apri i fonti battesimali e la rinnovazione dei popoli tutti… e la grazia, qual madre, generi tutti ad un’unica infanzia quelli che il sesso distingue nel corpo e l’età nel tempo…” – senza distinzione, genti d’ogni razza, figli di Dio; “Discenda su tutta l’acqua di questo fonte la virtù dello Spirito Santo”.
All’ultimo “oremus” la Chiesa vuole per ogni popolo l’ora della redenzione. “Onnipotente sempiterno Iddio, riguarda alla pietà del popolo che sta per rinascere…
Il nostro pensiero corre ai Catecumeni che attendono, a quelli che Pasqua fa nascere a Cristo!
Corre ai quasi tre milioni di catecumeni sparsi per l’immenso continente africano; perciò la preghiera che ancor viene detta sull’acqua della salute, è quando mai significativa: “Sian cancellate, qui, le macchie di tutti i peccati, qui la natura creata a tua immagine sia restituita all’antico onore… affinché, tutti coloro che riceveranno questo sacramento di rigenerazione, rinascano alla vera innocenza di una novella infanzia”.
I chierichetti, stanch di far lume, lasciarono cadere tanta cera sulla mano di Padre Parroco, che questi disse loro di stare più attenti; i ceri si raddrizzarono e tutto il popolo, nel buio della navata si alzò perché era giunto il momento in cui la Chiesa si rivolge direttamente ad essi nella loro lingua: “Fratelli carissimi, terminata la preparazione quaresimale, rinnoviamo le promesse del santo battesimo, con le quali rinunciamo un giorno a Satana e alle  loro opere, e al mondo, che è nemico di Dio…”.
La risposta di quanti già erano entrati nell’ovile di Cristo, si levò franca, in un dialogo serrato, dialogo che li univa alle cristianità del mondo intero che, nel momento della mistica Risurrezione si rinfrancano nella adesione a Lui. La povera gente delle capanne di fango diceva a Cristo le stesse cose degli evoluti fili dell’era atomica. Ma tant’è; gli uni e gli altri traggono la loro grandezza da uno solo: da Gesù.

Fiori e fiori ornano adesso l’altare, mentre si terminano le litanie dei fratelli maggiori, i Santi. Al “Gloria” i ragazzetti si diedero a far trillare i campanelli, mentre la campana cantava nella notte africana l’inno della Risurrezione.
Il coro dei fedeli aveva già da tempo posto l’amen al “Gloria”, e quella suonava ancora perché la udissero i “dormienti nell’ombra di morte” e si svegliassero, perché la sentissero anche i fratelli separati, l’unica voce della comune risurrezione.
La comunione; poi il rapido concludersi della Messa cogli “Alleluja”. Il popolo intonò anch’egli  un  canto pieno di Alleluia. Gli Alleluja in bocca a questa gente diventano: “Areruja, areruja”, perché nel loro vocabolario non c’è la “l”.
Ma erano egualmente, entusiasti, giocondi accenti. Il Padre Parroco commosso rivolse parole di compiacimento per la bella partecipazione a tutte le funzioni della Settimana Santa; disse anche ai… ragazzetti dei fiammiferi e delle bottiglie che avessero pazienza; l’acqua benedetta, l’avrebbero attinta il dì di Pasqua, alla luce del sole. Era meglio così, lo credessero…
E intonò il “Regina coeli, laetare, alleluja”, cui tutti risposero con gioia: “quia surrexit, sicut dixit, alleluja…”.
Quando la navata si sfollò e tutti giulivi se ne andarono pieni di gaudio, Padre Parroco mi ripeté che, proprio, gente alla Settimana Santa, non ne aveva mai vista tanta. Forse, penso io, la sua Mamma, divenuta quest’anno cieca, aveva tanto pregato, perché i cristiani del suo figlio Padre Aldo, andassero dal Signore Gesù per trovare la vera luce.

Queste righe sono indirizzate pure a voi, cari Confratelli, giovani allievi e chierici delle nostre Case di formazione perché siate perseveranti nel seguire la Vocazione che vi porterà in queste terre ove c’è largo posto per tutti.
Ricordiamoci sempre nella preghiera e stiamo fidenti.
Devoti saluti e Alleluja, Alleluja!

P. Giuseppe Mina
Missionario della Consolata

 Da A.MI.CO. N.2 – 1958
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