Prima di vederlo, vivevamo sfasati: da una parte la nostra vita, dall’altra un cuore, delle idee, delle aspettative che rifiutavano quella vita.
Da una parte la quotidianità, dall’altra la rincorsa di ciò che non eravamo, di ciò che non avevamo.
Da una parte l’essere, dall’altra il dover essere che rischiava spesso di rendere inaccettabile l’essere.
Vivevamo divisi, fuori dalla nostra vita, lontani da noi stessi. Non eravamo presenti là dove eravamo, e le cose ci sfuggivano, il tempo si comprimeva, si dimezzava, spogliato del suo spessore, della sua sostanza.
Poi l’abbiamo visto: un bimbo adagiato in una mangiatoia.
Ecco il segno: non il canto dell’esercito celeste, non l’abbaglio dell’angelo, che pure ci ha spinti verso Lui, ma un bimbo avvolto in fasce. Il punto di riallineamento tra noi e ciò che siamo, tra noi e la nostra sostanza, il punto di azzeramento della sfasatura, in cui l’uomo si è scoperto combaciante con Dio, in cui ci è stato dato di tornare ad abitare la nostra esistenza così com’è, senza paure o rimpianti o sensi di colpa, perché anche Lui la abita.
E abbiamo capito il mistero di quel canto di angeli: la pace in terra sono gli uomini che si sanno amati (Luca 2,1-14).
di Luca Lorusso
Luca Lorusso
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