Padre Célio João Fumo nasce nel 1986 a Maputo, Mozambico. Battezzato a 16 anni, a 18 entra tra i Missionari della Consolata. Studia in Mozambico, poi a Roma e Torino. Oggi lavora nell’animazione missionaria a Bevera (Lecco), cercando di interpretare i cambiamenti sociali, culturali e religiosi del nostro tempo per rispondervi con lo stile della Consolata
Padre Célio João Fumo è nato il 17 aprile 1986 a Maputo, Mozambico, da genitori cattolici.
Ricevuto il battesimo all’età di 16 anni e la cresima a 18, due anni dopo è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata.
Perché sei diventato missionario della Consolata?
«Il mio primo contatto d’infanzia con la missione e il mio primo entusiasmo li ho avuti grazie ai Missionari della Consolala che da cinquant’anni operavano nella mia parrocchia.
La loro testimonianza di fede e la loro tenerezza e vicinanza verso le persone hanno inciso nella mia decisione.
In quel tempo, poi, i padri, che prima erano focalizzati nel primo annuncio, nella promozione umana e nell’animazione vocazionale a favore della chiesa locale, avevano iniziato a lavorare per le vocazioni missionarie, quindi per l’Istituto della Consolata. Così sono entrato nell’Imc proprio nello stesso anno in cui i missionari hanno lasciato la mia parrocchia».
Puoi raccontare brevemente la tua storia missionaria?
«Avendo fatto il percorso catecumenale per il battesimo, ricevuto nella Pasqua del 2003, tre anni dopo ho iniziato la mia avventura. Nel 2006 sono stato mandato a Nampula, nel Nord del Mozambico, per il triennio di propedeutico che però ho concluso a Matola, Maputo, nel 2008. L’anno dopo, ho iniziato il corso di filosofia, conclusa nel 2011. Il 2012 è stato l’anno del noviziato e della prima professione religiosa nell’Imc celebrata a Maputo.
Dal 2013 al 2016 ho frequentato gli studi teologici nella Pontificia Università Urbaniana a Roma. Allora nell’Istituto, dopo gli studi teologici, era previsto un anno di servizio all’Imc, e l’ho fatto in Puglia, a Martina Franca.
Nel 2017 ho fatto la professione perpetua e ricevuto l’ordinazione diaconale a Torino. Nel 2018 l’ordinazione sacerdotale in Mozambico.
Dal 2018 al 2021 ho fatto la specializzazione in teologia pastorale giovanile all’Università pontificia Salesiana di Torino.
Dal 2018 al 2022 ho lavorato come vicario parrocchiale nella parrocchia Maria speranza nostra di Torino (cfr. Missioni Consolata marzo 2024, pag 51). Ho lavorato nella pastorale giovanile, in oratorio e nell’animazione nelle scuole. Ovviamente accanto alla pastorale ordinaria della parrocchia».
Puoi dire due parole sul posto in cui ti trovi oggi? Quali sono le sue sfide missionarie principali?
«Da febbraio del 2022 mi trovo a Bevera di Castello Brianza, provincia di Lecco. È un centro di animazione missionaria che nasce negli anni Cinquanta come seminario. Un punto di riferimento per tutta la zona. Qui siamo conosciuti come “i padri di Bevera”. Il centro ha formato decine di missionari, laici e giovani, e li ha inviati in tutto il mondo.
Per molti anni i miei confratelli hanno girato in tutte le parrocchie e scuole del territorio: raccontavano la bellezza della vita e delle esperienze in missione.
Nonostante la posizione della casa Imc di Bevera, che non è molto comoda, essa era frequentata da persone provenienti da tutta la Brianza.
Passano i tempi, cambiano le realtà pastorali ma anche la fisionomia del centro. La crisi vocazionale e delle parrocchie incide anche nella sua vita. La Chiesa locale è meno aperta di un tempo alle testimonianze missionarie.
La secolarizzazione ha portato alla personalizzazione della fede, a scandire l’esistenza fuori della vita religiosa. Ciascuno crede a modo suo, soprattutto nella fascia giovanile.
Gli adulti di oggi non sono quelli di una volta, anche se il legame con il centro persiste, esso non è più il luogo della socializzazione e della crescita nei valori della fede, ma tende a essere visto con un luogo nel quale ricercare benedizioni, sfogarsi, tranquillizzare la coscienza».
Che lavoro stai svolgendo oggi? Qual è la difficoltà più grande che incontri?
«Oggi lavoro nel centro come amministratore, nell’animazione missionaria e nella pastorale famigliare con famiglie che vivono fragilità e sofferenze per separazioni e divorzi e nuove unioni. La sfida più grande, soprattutto nel campo dell’animazione missionaria, è quella di fare coabitare l’approccio pastorale del passato e le esigenze pastorali di oggi. Trovare un nuovo modo di abitare gli spazi che tenga conto del mondo virtuale nel quale vivono i giovani.
Anche se le persone vengono nella nostra casa, si percepisce che la loro appartenenza è cambiata rispetto a una volta. Se prima, quelli che oggi sono adulti passavano ore e ore impegnati in iniziative spirituali, oggi i giovani fanno molta fatica. Per me è molto difficile capire come fare innamorare i ragazzi alla missione, e aiutarli a coinvolgersi con la vita di Cristo».
Qual è la soddisfazione più grande?
«La soddisfazione più grande è vedere in quei pochi ragazzi la ricerca di un bisogno più profondo per la loro vita.
Qualcuno l’ha fatto entrando nel seminario della diocesi, qualcuno lasciandosi interrogare sul campo della fede e del proprio futuro in colloqui e confronti».
Puoi raccontare un episodio della tua vita missionaria?
«Più che un episodio, vorrei condividere che da giovane prete mi è capitato di celebrare più funerali che battesimi e matrimoni (senza però contare il sacramento della Penitenza che mi viene richiesto spesso).
È in queste occasioni, di fronte al mistero della morte e del dolore, che vedo il risveglio della gente alla fede. È bello e impressionante quando le persone mi avvicinano e mi ringraziano per le parole dette, anche se spesso è stato più l’atteggiamento di silenzio e di ascolto orante a parlare».
Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione del futuro? Come pensi di affrontarle?
«Le sfide che vedo sono molte: la prima è il fenomeno della marginalizzazione delle nostre comunità religiose in un tempo nel quale la ricerca di salvezza e di realizzazione da parte della gente è sempre più autonoma.
Altra sfida è quella delle comunità ecclesiali chiuse in se stesse, autoreferenziali e troppo lontane dai bisogni della gente e dall’educazione alla fede. Oggi c’è un tasso di ignoranza religiosa davvero alto che tende di giorno in giorno a crescere.
Un’altra sfida è l’affermazione di un modello spirituale che mette al centro l’individuo e il suo personale rapporto con il sacro, senza alcun confronto l’altro e con l’alto, e vissuto in una dimensione solo umana.
Cosa si può fare? È urgente trovare dei linguaggi adatti che tocchino il cuore della gente. Offrire, attraverso la nostra testimonianza concreta e credibile del Vangelo, spazi di ospitalità e di accesso all’esperienza di Cristo.
Aiutare la gente a vivere non più da spettatrice ma da protagonista in un’azione collettiva di prossimità, di vicinanza e di reciprocità».
Che cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata? Quali sono le nostre ricchezze da condividere?
«Come Missionari della Consolata, al mondo possiamo offrire noi stessi. Il carisma del fondatore incarnato nel nostro vissuto quotidiano. Il fatto che non subiamo l’omologazione comunitaria del pensiero, ma ci arricchiamo delle nostre diversità culturali. I valori che ci uniscono fanno emergere l’esperienza delle prime comunità cristiane.
Si tratta di vivere da consolati per poter portare la consolazione al mondo».
A partire dal tuo contesto, che cosa dovremmo fare, secondo te, per coinvolgere il mondo giovanile?
«Secondo me è necessario recuperare la dinamica dello stare, più che del fare, con i giovani: una qualità di vita che in sé indica unità e armonia.
Se oggi il disorientamento e il senso di impotenza tra i giovani costituiscono incubatori di relativismo, fondamentalismo, dipendenze e fuga della realtà, è importante far sì che essi diventino un serbatoio di domande. A noi sta accoglierle e ascoltarle.
Bisogna coinvolgere i giovani non per proporre delle attività ma per ideare insieme a loro dei cammini di crescita».
Ci suggerisci uno slogan per i giovani dei nostri centri missionari?
«Sulla terra c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per soddisfare l’ingordigia di tutti. Ecco l’urgenza di mostrare ai giovani che, al di fuori dell’esperienza di amicizia con Cristo, vissuta a tu per tu, non c’è la felicità».
di Luca Lorusso
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Luca Lorusso
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