Padre Luca Bovio è nato nel 1970 a Milano, dove abitano tutt’ora i genitori e il fratello. Nel 2008 è stato il primo missionario della Consolata, insieme a due suoi confratelli, a sbarcare in Polonia.
«Le persone, qui, soffrono molto le restrizioni per il Covid, soprattutto per le messe: nelle chiese è prevista una persona ogni 15 m2.
Noi in comunità siamo quattro padri e tre seminaristi. Due di loro, provenienti dall’Africa, fanno l’anno di servizio, il terzo è un ragazzo polacco che ha iniziato quest’anno. Fino a oggi nessuno di noi ha avuto il Covid. Diverse famiglie vicine a noi, invece, ne hanno sofferto molto».
Perché hai deciso di essere missionario della Consolata?
«Quando avevo 22 anni, ero parte del gruppo giovanile della parrocchia Sant’Anna, a Milano. Quell’anno, il nostro vicario ci ha proposto di fare un’esperienza in Africa. Abbiamo contattato l’associazione Africa Oggi che ha la sede presso la casa Imc di Milano. Abbiamo fatto alcuni incontri lì, e poi il campo in Tanzania, vicino a Iringa, dai missionari della Consolata.
L’anno dopo c’è stato un secondo viaggio, di nuovo in gruppo. Poi, l’anno successivo sono tornato solo io, insieme alla mia fidanzata. Allora lavoravo con i miei genitori: facevo il tappezziere dalla fine della terza media. Mi piaceva quel lavoro, era molto creativo. Non pensavo assolutamente di diventare sacerdote. Dopo la terza esperienza, però, ho iniziato a farmi delle domande, e ho messo in discussione molte cose.
È stato un periodo travagliato.
Dopo un anno, ho deciso.
Ricordo che mi aveva aiutato molto una giovane suora del Pime, suor Rosanna».
Quali sono state le tappe per diventare missionario?
«Per me, fare il cammino missionario significava innanzitutto fare un lungo percorso di studio. Sono entrato nel seminario di Alpignano (To) e ho fatto il liceo scientifico in due anni. Poi due anni di filosofia a Fossano (Cn). Nel 2000 ho iniziato il noviziato a Rivoli (To). La prima professione è stata nel 2001 in Casa Madre, mentre si celebrava il centenario dell’Istituto. Erano rappresentate tutte le vocazioni: padri, suore e fratelli.
Dopo il noviziato ho studiato teologia per tre anni a Roma. Prima della professione perpetua ho chiesto di fare un anno pastorale a Platì, in Calabria. Infine, ho fatto gli studi di licenza alla Gregoriana a Roma, e sono stato ordinato nella mia parrocchia a Milano il 30 settembre 2006. A me sarebbe piaciuto andare in missione in Mongolia, oppure in Etiopia, in Sudafrica, ma i superiori mi hanno proposto di far parte di un nuovo gruppo per la Polonia, e io ho accettato.
Nel 2008 siamo partiti in tre. Dal 2013 abbiamo a Kielpin, vicino Varsavia, una casa con una cappella pubblica per l’animazione missionaria».
Chi c’era nel primo gruppo?
«C’era un padre tanzaniano, Silvanus Stock, uno etiope, Ashenafi Abebe, e io. Oggi, oltre a me, padre Ashenafi e i tre seminaristi, ci sono padre Juan Carlos Araya, argentino, e padre Ditrick Sanga, tanzaniano».
Due parole sulla Polonia e le sue sfide missionarie?
«La Polonia è un paese cattolico con 40 milioni di abitanti, nel centro esatto dell’Europa, in mezzo ad altre due confessioni cristiane: ortodossa e protestante. Questo elemento religioso è stato spesso coinvolto nei conflitti con i vicini.
Molti ci chiedono che ci facciamo noi missionari in un paese cattolico. Il discorso è sottile: qui il cattolicesimo è molto legato alla nazionalità. In più in Polonia gli stranieri sono pochi, e quei pochi, sono soprattutto dell’Est.
La nostra comunità missionaria, composta da persone di tre continenti e cinque nazionalità diverse, diventa un segno eloquente di universalità, aiutando molti a vedere un’immagine di chiesa diversa. Poi facciamo conoscere le missioni, portiamo i giovani in Africa. E la gente inizia a pregare per le persone di altre culture».
Che lavoro svolgete?
«Siamo tutti impegnati nell’animazione missionaria. Avvicinare la missione alla gente e la gente alla missione. In più io da otto anni sono segretario nazionale della Pontificia Opera Missionaria, e ho girato tutti i quaranta seminari polacchi».
La difficoltà più grande?
«Tolto il primo periodo in cui c’era la barriera della cultura e della lingua, la difficoltà credo che sia quella di stare in un ambiente che non ha la missione nel suo orizzonte».
La soddisfazione?
«Le soddisfazioni sono molte. Singoli incontri con le persone nei quali vedi che il Signore e la missione le cambia, le apre. È bello vedere come il Vangelo raggiunge molti attraverso di noi, che siamo strumenti fragili, deboli, contraddittori».
Quali sono le grandi sfide della missione?
«Questo anno della pandemia ci obbliga a ripensare molte cose. Cose che prima erano prioritarie, forse non lo sono più. Anche la missione è da ripensare.
Giovanni Paolo II, ha scritto nella Rredemptoris missio che la missione, dopo duemila anni, è soltanto all’inizio. Il lavoro da fare è ancora immenso. Anche qui in Europa. In ogni caso, l’Asia rimane il continente più sfidante».
Cosa offrono i missionari della Consolata al mondo?
«Penso dica molto la parola “Consolata” che ci definisce. Portare la consolazione non è dare una pacca sulla spalla dicendo “domani andrà meglio”. La consolazione ha radici profonde. A volte magari è un aiuto concreto, però poi, profondamente, è aiutare le persone a lasciare che il Signore si faccia strada in mezzo a loro, perché lui stesso è la consolazione».
Cosa fare con i giovani?
«Noi qui lavoriamo in mezzo ai giovani. A me piacciono le cose semplici. Più che sviluppare strategie, penso che basti essere noi stessi. Essere in mezzo a loro quello che siamo chiamati a essere: missionari. Se tu sei una persona sincera, aperta, onesta con te stessa e quindi anche con Dio, le persone si fanno delle domande».
Ci suggerisci uno slogan per i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari?
«Vicino a casa nostra, a Varsavia, c’è la tomba di un giovane prete martire, ucciso dalla polizia comunista nel 1984. È il beato Jerzy Popiełuszko. Lui ha sintetizzato la sua vita con le parole di san Paolo: «Vinci il male con il bene». Di fronte a un male che ci circonda e aggredisce, il bene è la risposta con cui si vince. È morto a 37 anni rimanendo sempre fedele a questo ideale: parlava forte contro il regime comunista, mosso da un bene maggiore. I missionari non vivono mai in contesti facili, ma l’ultima parola ce l’ha il bene».
di Luca Lorusso
Leggi, scarica, stampa da MC marzo 2021 sfogliabile.
Luca Lorusso
Ultimi post di Luca Lorusso (vedi tutti)
- Stanchi di camminare si misero a correre - 9 Ottobre 2024
- Un banchetto di nozze - 7 Ottobre 2024
- Giuseppe Allamano, finalmente santo - 4 Luglio 2024