Slow page dei Missionari della consolata

Tredici e la violenza sulle donne

Le ragioni per leggerlo. E riflettere sulla violenza contro le donne.

Un particolare della copertina del libro. Jay Asher, Tredici, Mondadori, Milano 2017.

Più di due milioni e mezzo di copie vendute solo negli Stati Uniti, una serie tv che ha tenuto milioni di spettatori col fiato sospeso. «Thirteen reasons» è stato uno dei trend più dibattuti della primavera, ma soprattutto un libro scritto con un’abilità di raro fascino.
Pensando alla frequenza con cui il tema della violenza sulle donne emerge dalla cronaca quotidiana, ecco una lettura che vi costringerà a riflettere e che, in un modo o nell’altro, vi metterà in crisi.

Troppo tardi

Chiunque comincerà a leggere Tredici, sarà arrivato troppo tardi. Hannah Baker, la protagonista, si è già suicidata sotto il peso di segreti indicibili e cattiverie diffuse. Ma prima di morire, Hannah ha spiegato i tredici motivi del suo gesto in tredici cassette, che ha poi inviato alle tredici persone che l’hanno spinta a suicidarsi. Compreso il protagonista, Clay Jensen, il ragazzo di cui era innamorata e che era innamorato di lei. Comincia così una notte tormentata in cui i pensieri arrovellati di Clay si intrecciano con la voce registrata di un’adolescente morta che conduce il ragazzo e il lettore attraverso i luoghi e gli eventi che hanno segnato per sempre un’esistenza troppo breve.

A prescindere dal climax di indifferenza, abbandono, bullismo e violenza subiti da Hannah, ciò che è veramente interessante e paurosamente attuale è lo schieramento dei personaggi (e dei lettori) pro e contro la vittima. Ed è questo che costringe a pensare e, inevitabilmente, a prendere posizione.

Tutto agisce su tutto
Jay Asher, Tredici, Mondadori, Milano 2017.

Hannah è, sostanzialmente, una persona sola. Profondamente, irrimediabilmente sola. Pur essendo circondata da compagni di scuola, professori e genitori amorevoli, non può contare su nessuno. Pensate che la madre non si accorge del drastico e improvviso taglio di capelli della figlia! Tutte le sue interazioni finiscono violentemente, e ogni volta lasciano un segno più profondo, che riapre e peggiora una ferita sempre più inguaribile.

Ma Hannah è anche arrabbiata. Furiosa. Si aggira tra i suoi giorni trasportando un rancore silenzioso e impotente contro tutti quelli che le hanno fatto del male e che continuano a far parte della sua vita come se nulla fosse. Prese singolarmente, queste persone (a parte un paio di casi) non sono assassini e nemmeno criminali. Ma neanche brutta gente. Semplicemente adolescenti egoisti o adulti indaffarati. Ma il problema è che tutte le loro azioni messe insieme sono fatali. E nessuno di loro ne è consapevole.

«Non avete idea di quello che stava succedendo al resto della mia vita», si sfoga la protagonista. «Non sapete niente della vita di nessuno, se non della vostra. Ma quando giocherellate con una parte della vita di qualcuno, in realtà non stuzzicate solo quella. Purtroppo, è impossibile essere così accurati e selettivi. E il particolare con cui vi siete trastullati finisce per influenzarne l’intera esistenza. Tutto agisce… su tutto».

Se l’è cercata

Ovviamente, è molto più facile scaricare la colpa sugli altri, chiunque altro (vittima compresa), piuttosto che fare un esame di coscienza e riconoscersi, almeno in parte, colpevoli. È quello che succede alle tredici ragioni, che rifiutano di considerarsi parte del problema e incolpano piuttosto la fragilità di Hannah o persino il suo esibizionismo.

«E tu? Cosa hai fatto?», chiede Clay ad un’altra delle tredici persone coinvolte. «Niente. Una cosa ridicola. Non dovrei nemmeno essere su quelle cassette. Hannah cercava solo una scusa per uccidersi». Una risposta da brivido. Una miopia crudele e purtroppo diffusa anche tra i commenti alla cronaca di tutti i giorni.

Ma c’è un’altra accusa che, in parte, è condivisibile. È l’accusa di Clay, l’unico in tutta la vicenda che sembra davvero tenere ad Hannah. «Forse non sapevi cosa pensasse la gente di te perché non sapevano neanche loro cosa pensare. Forse non ci hai fornito abbastanza elementi per farci un’idea di te. […] Hai preferito che non succedesse. Hai deciso tutto da sola.» Ed è vero. Hannah (ma metteteci pure il vostro nome) è troppo affezionata al suo dolore, troppo determinata nella sua solitudine per cercare una relazione sana e costruttiva con i genitori, i compagni, la scuola. Nessuno la conosceva davvero, perché il dolore l’aveva resa troppo schiva per lasciare che qualcuno la conoscesse. Chi sia da incolpare in questo circolo vizioso, non lo so.

Non lasciate che sia un libro

Questa storia è sorprendentemente stimolante. Vi toglierà il sonno, ma vi costringerà a pensare. E siccome è impossibile non arrabbiarsi o non simpatizzare con questo o quel personaggio, senza che ve ne accorgiate vi ritroverete a intavolare le discussioni più animate con i vostri amici e colleghi. Sicuramente il dibattito sul bullismo, la violenza sulle donne e la responsabilità personale e collettiva non può che rivelarsi arricchente e costruttivo.

Ma se davvero il messaggio di Tredici avrà raggiunto la vostra sensibilità, comincerete a vedere Hannah nelle persone attorno a voi. Lasciate che vi sveli il finale: il libro finisce bene. Finisce con un’immortale, commovente speranza di poter trarre del buono dal dramma. E così Clay si accorge di un’altra ombra che si aggira ad occhi bassi tra gli armadietti della scuola. La raggiunge e la saluta. E forse ciò che può fare la differenza tra la vita e la morte è una telefonata, un caffè, una notte insonne. Tutte cose alla portata di tutti.

D’altra parte, è ciò che tutti vogliamo. Come afferma Jay Asher, autore di Tredici, «Le persone hanno bisogno di sentirsi capite, o di sapere che saranno capite se solo decideranno di aprirsi e di chiedere aiuto. Altrimenti non ci proveranno neppure. Quindi, vi prego, non lasciate che sia un libro a far sì che qualcuno si senta capito per la prima volta».

di Annarita Leserri

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