Slow page dei Missionari della consolata

Campo in Tanzania 3. L’Africa ti mette in difficoltà

Dodici giovani di Torino. Tre settimane in Tanzania, a Tosamaganga. Accompagnati da Fabrice Bakebe, missionario della Consolata congolese, in Italia da diversi anni. Il racconto di Stefano.

Stefano con un bimbo di Tosamaganga, Tanzania.

L’Africa ti mette in difficoltà. Questo è ciò che ho capito nel momento in cui, dopo un viaggio che mi ha cambiato la vita, ho rimesso piede all’aeroporto di Caselle e ho compreso che essere riassorbito in maniera indolore in quel sistema socio economico che avevo scelto (anche se per poco tempo) di lasciarmi alle spalle, del quale non avrei più dato per scontato i fattori essenziali, sarebbe stata un’impresa più complessa del previsto.

Un salto nel vuoto

Ma andiamo con ordine. Decido di partire per l’Africa mollando le mie cose per venti giorni per più di un motivo. L’intento è quello di fuggire dal peso soffocante di un mondo i cui meccanismi, perlomeno in quella specifica frazione della mia esistenza, hanno avuto la meglio sulla mia sensibilità e resistenza psicologica.
Riconosco a me stesso che si sta profilando un salto nel vuoto ma accetto la sfida, in quanto la ritengo l’unica valida alternativa all’oblio in cui sono rintanato da mesi e che minaccia di tenermi in ostaggio ancora per molto.
Si parte per l’avventura con un gruppo folto ed eterogeneo. I miei compagni di viaggio al momento della partenza mi sono ancora quasi sconosciuti, ma l’energia che c’è nell’aria, probabilmente originata dalla spinta verso l’inscoperto, ci rende subito emotivamente molto compatti.
Il viaggio verso Tosamaganga, piccolo centro dell’entroterra tanzaniano all’interno della provincia di Iringa, nonché prima missione istituita in questo Stato dai Missionari della Consolata, dura due giorni ed è come previsto molto stancante. Mettiamo piede nelle nostre camere la notte dell’8 Agosto e, prima di addormentarci, cerchiamo risposte negli sguardi altrui senza esplicitare alcuna domanda. Le risposte, accompagnate da mille emozioni, sarebbero arrivate molto in fretta.

Aids, alcolismo, famiglie disgregate

La fase iniziale è giustamente di rodaggio: il primo giorno lo trascorriamo a Tosamaganga, dove visitiamo il centro delle suore missionarie, che producono e rivendono all’esterno sapone, farina e abiti riuscendo a portare avanti in maniera autosufficiente la loro quotidianità, e l’ospedale, gestito in parte dai religiosi (i quali hanno acquistato autonomamente le strutture di partenza) e in parte dallo Stato. La giornata successiva la passiamo invece ai mercati alimentari e artigianali di Iringa, dove ad accoglierci ci sono tanti venditori molto scaltri e scafati ma allo stesso tempo alquanto calorosi.
Il 10 Agosto ci rechiamo alla messa di ordinazione del giovane Padre Nicodemo in un paese chiamato Mdabulo, a più di tre ore di macchina dalla nostra base. Quando arriviamo non crediamo ai nostri occhi: duemilacinquecento persone sono già in pieno clima di festa e all’interno delle cucine decine e decine di donne stanno preparandosi a servire il pranzo a tutti i presenti. La celebrazione dura più di quattro ore e i canti e le danze non si fermano fino alla nostra dipartita. E’ davvero inspiegabile la sensazione che si prova nel vedere centinaia di africani uniti nel ballo, che ai miei occhi sono come gli addendi di un’unica grande massa corporea che si dirama in mille direzioni ma che ritrova in una perfetta scansione ritmica del tempo il suo baricentro e il suo modo di essere.
Fondamentale e piena di sorprese è per me la giornata del 13 Agosto, che passiamo a Iringa. In mattinata visitiamo il Centro Allamano per la prevenzione e cura dell’AIDS, uno delle piaghe che affliggono la Tanzania. Le suore missionarie che gestiscono il centro hanno brevettato un interessante sistema basato sul microcredito, grazie al quale i pazienti hanno la possibilità di autofinanziarsi l’acquisto di macchinari utili alle terapie. Le suore si dicono molto soddisfatte dell’opera del Governo, il quale contribuisce attivamente alle cure passando loro gli opportuni medicinali.
Successivamente entriamo nell’orfanotrofio di Iringa, anch’esso gestito da suore missionarie. Qui vivono venticinque bambine, le quali hanno perduto gran parte dei familiari o sono completamente sole. Una di esse è stata faustamente strappata ad una fine certa: abbandonata a se stessa, viveva giorno e notte districandosi tra i rami degli alberi della savana.
Ci viene spiegato come il grave problema dell’orfananza di tanti ragazzini sia direttamente legato al dramma dell’AIDS e a quello dell’alcolismo dilagante. E’ molto doloroso soffermarsi sul modello di nucleo familiare africano, in cui per la maggioranza dei casi la figura del padre di famiglia manca completamente. E’ infatti la donna, spesso umiliata e abbandonata con figli a seguito dal marito, a essere il punto focale della sua economia. Il Governo della Tanzania sembra essere particolarmente sensibile e attivo rispetto a questa problematica sociale: negli ultimi anni è stata infatti creata la Corte per la Difesa dei Diritti della Donna e in quest’ambito, per mezzo dell’emanazione di nuove leggi molto severe, è stata attuata una vera e propria inversione di tendenza rispetto al passato.

Si gioca, si parla tanto, si balla e si ride insieme per ore

Il primo grande momento di commozione del sottoscritto è avvenuto proprio tra le mura di questo orfanotrofio. Le venticinque ragazzine decidono di darci il benvenuto cantando e ballando per noi. Vedere nei loro occhi una serenità insperata, carica di una immensa voglia di vivere e di dimostrarsi “presenti nel mondo”, mi ha fatto scendere più di una lacrima. Entusiasmo che si traduce in coordinazione, risate che si trasformano in melodie, drammi che vengono reincanalati in energia positiva. Non si può che piangere e cambiare dentro, seguendo ogni singolo movimento di questi piccoli angeli.
Il giorno seguente, che passiamo a Tosamaganga, veniamo letteralmente “rapiti” dalle bambine alunne della scuola gestita dalle suore, il cui approccio nei nostri confronti è particolarmente curioso. Capeggiato da alcuni elementi più estroversi e abili con l’inglese, ogni gruppetto sceglie uno di noi come punto di riferimento e passa con la persona prescelta tutto il pomeriggio in maniera totalizzante. Si gioca, si parla tanto, si balla e si ride insieme per ore. Spesso viene fuori una palese incomunicabilità e si procede a gesti o a sogghignate sotto i baffi, ma fa parte del gioco. Ad un tratto spiego a quello che è diventato il mio gruppetto personale che in Italia faccio rap e subito le ragazzine mi chiedono di cantare loro qualcosa. Da buon amante dell’hip hop decido di coinvolgerle e suggerisco loro di improvvisarmi un “bum bum cha” cadenzato in modo da avere un ritmo su cui spalmare le mie parole. Alla fine di ogni strofa urla di giubilo, abbracci e sorrisoni. Musica fatta insieme grazie al solo strumento dell’entusiasmo.

Essere l’unica cosa meritevole di attenzione e dedizione

E’ straordinario come queste bambine riescano a godersi appieno la persona che hanno davanti. Qualcosa di inconcepibile ma di elettrizzante per chi, come me, ha sempre convissuto con gli schemi comportamentali tipici della mia cultura d’origine. In quel momento tu per loro sei tutto. E con “tutto” intendo proprio “l’unica cosa meritevole di attenzione e dedizione”. Qualsiasi distrazione che vada oltre l’essenza di chi sta in carne e ossa davanti a loro stona. Vogliono volerti bene, punto. E io quel bene me lo sono voluto prendere proprio tutto, fino all’ultima goccia.
Le ragazze, come tutti gli Africani con cui ho avuto a che fare in queste tre settimane, mi chiamano “Stefàno”. Ne comprendo immediatamente il motivo: in lingua Swahili non esistono parole in cui l’accento cade sulla terzultima sillaba (sdrucciole). Per loro è inconcepibile che io mi chiami come in realtà mi chiamo e mi ha sempre chiamato chiunque. Io, dal canto mio, non ho nessuna intenzione di correggerle: è un’affascinante sfida con me stesso essere considerato da chi mi sta attorno come un’altra persona rispetto a quello “Stefano” di partenza, ripiegato in quelle sue convinzioni mai lontanamente scardinate da chicchessia.

You are a little champion, Noeri!

Molto intensi e pieni di vita sono poi i giorni centrali della missione, dedicati alla vita in orfanotrofio. Mettiamo piede in quella caldissima e nauseabonda stanzetta e capiamo immediatamente che, per mancanza di mezzi e di personale, i bambini vivono in una condizione di estrema precarietà. Le ragazze del gruppo provvedono alla loro pulizia, io personalmente cerco il contatto prima con i maschietti più grandicelli e poi anche con i più piccolini. Stupendo è il pomeriggio passato a giocare a pallone con Noeri, un bambino di 8 anni amante del calcio che sfrutta ogni momento libero per uscire in cortile, mettersi a scartare i suoi compagni a piedi nudi e ricercare l’angolo giusto all’interno della porta disegnata col gessetto sul muro di pietra. Dopo ogni tentativo andato a segno affermo a gran voce “You are a little champion, Noeri!”. E’ l’unica mia arma a disposizione per offrirgli una dose di carica aggiuntiva rispetto a quella che è già insita nel piccolo grande motore che ha dentro di sé.
A pochi metri dall’orfanotrofio c’è un asilo in cui spesso ci fermiamo a intrattenere i bimbi. Il momento più toccante è quello dell’uscita da scuola: per la maggior parte dei bambini il tragitto è estremamente breve dal momento che, non potendo contare su una famiglia e dunque sulla protezione di un’abitazione, hanno come unica ed angusta destinazione la porta dell’orfanotrofio posizionata a due passi dal cancello dell’asilo. Un ping-pong quotidiano che, visto dall’esterno, sembra quasi un perfido gioco escogitato da una sorte beffarda che seleziona a caso le sue vittime e poi le raggruppa insieme per godere della loro immensa disgrazia.
I bambini più fortunati escono invece di corsa da scuola e si dirigono da soli verso le proprie case, macinando spesso chilometri e chilometri sul ciglio di strade sterrate (o, nei centri più grossi, lastricate), a diretto contatto con i mille rischi che possono emergere in situazioni di questo tipo. Sono decine e decine i bimbi che ogni giorno vediamo viaggiare a piedi da soli per raggiungere scuole e abitazioni, spesso trasportando cartelle o oggetti più pesanti e voluminosi dei loro stessi corpicini. La compassione e la sorpresa da parte mia è enorme, tanto che, assieme ai miei compagni di viaggio, spesso decido di offrirmi per scortare i nostri piccoli amici verso le loro mete. Loro ci salgono sulle spalle e ci danno fiducia, indicandoci a gesti quale percorso seguire.
Accompagniamo poi uno dei Padri a dare la comunione a tutti quegli anziani dei villaggi limitrofi che, per impedimenti logistici, la domenica non riescono a raggiungere la parrocchia. L’atmosfera che si respira nell’entroterra africano è davvero affascinante. Completamente slegati dalla realtà del tessuto urbano, i componenti dei villaggi vivono all’interno di piccole casette di fango isolate e fatiscenti, spesso costruite con le proprie mani, che si rivelano a noi visitatori semplicemente come delle stanzette buie e completamente sprovviste di energia elettrica o tubi per l’acqua.
L’ottica del villaggio è quella dell’autosufficienza economica: si coltiva riso e si allevano le galline, si vive attorno a un pozzo comune e ci si sostiene a vicenda. Le soluzioni abitative variano in genere rispetto alla condizione patrimoniale dei figli dei loro abitanti, alcuni dei quali sono riusciti a lasciarsi alle spalle quel tipo di vita e a trovare la fortuna in città più grosse e fiorenti (come ad esempio l’ex capitale Dar Es Salaam) e hanno dunque avuto la possibilità di far costruire abitazioni più dignitose ai loro genitori.

Il sostegno spirituale e materiale dei missionari

Le esperienze degli ultimissimi giorni ce le siamo godute da turisti e da osservatori. Entusiasmante l’incontro con i Masai, popolo nomade affascinante, elegante e allo stesso tempo a tratti conturbante, la cui economia è incentrata nell’allevamento. Incantevole la fauna del Parco Nazionale del Ruaha, ammirata nel corso di un bellissimo Safari a bordo di una jeep scoperchiata da cui abbiamo potuto goderci gli scorci di una savana che si apriva al nostro passaggio mostrandoci quanto il mondo, spesso e volentieri, sia in grado di partorire delle vere e proprie meraviglie e di non chiederci nulla in cambio.
Il 22 Agosto visitiamo una scuola adiacente a una parrocchia della missione. Per ogni parrocchia (undici in tutto) è infatti presente un asilo in cui vige un sistema particolare: la comunità cristiana che ruota attorno alla Chiesa contribuisce al pagamento di metà della rata di ogni alunno, venendo così incontro alle famiglie meno abbienti che hanno dunque la possibilità di far studiare i loro figli. Questo è il segno tangibile di quanto l’amore e la dedizione di uomini che hanno costruito la propria missione di vita sulla parola di Dio si possa tradurre, se lo si vuole, in operazioni non solo di sostegno spirituale ma anche e soprattutto di concreta assistenza materiale. “L’istruzione prima di tutto, perché è grazie all’istruzione che si cambia in meglio la società”: queste le parole ricorrenti da parte dei religiosi che ogni giorno lavorano per il benessere della comunità. Uomini che mi hanno lasciato grandi speranze e che ringrazierò sempre.

Il momento stupendo e drammatico dei saluti

Il pomeriggio dell’ultimo giorno prima della partenza mi reco alla scuola delle suore per salutare le ragazzine che tanto ci si erano affezionate: “Stefàno, bum bum cha!” – “No ragazze, ho finito le strofe!”, “Stefàno, ritornerai presto a trovarci, vero?” – “Lo spero tantissimo, ma che ne dite di venire voi in Italia?”. Il momento dei saluti è stupendo e drammatico allo stesso tempo. Quei quindici minuti ininterrotti di placcaggio a suon di abbracci prima di riuscire a uscire dalla struttura li porterò sempre nel cuore. Appena fuori dal cancello ho pianto e per tutta la sera ho avuto il bisogno di stare in silenzio con me stesso, in attesa di abbandonarmi nelle braccia della mia ultima notte a Tosamaganga.
Spesso mi chiedono cosa mi abbia lasciato l’Africa. Rispondo che mi ha donato un nuovo modo di intendere l’esistenza e in particolare le relazioni interpersonali che servono a darle un senso.
Il modello europeo ha sociologicamente conciliato, nell’ambito dei rapporti umani e dell’economia, l’individualismo e il capitalismo. In Tanzania invece l’essenza del tribalismo tradizionale ha incontrato positivamente l’importazione del modello socialista da parte dell’amatissimo Presidente Nyerere dopo l’indipendenza dal regno unito del ’61, la cui applicazione pratica ha tra l’altro avuto modo di allacciarsi al concetto cattolico di “aiuto incondizionato al prossimo”, specie se in difficoltà. Mentre in Europa socialismo e cattolicesimo si scontravano sul piano ideologico, in Africa le stesse parti in campo univano le persone.

Mettere al centro la persona

Proprio per questo nella Tanzania che ho avuto modo di conoscere il concetto di comunità è qualcosa di imprescindibile: si prega assieme, si studia assieme, si balla assieme, si mangia assieme. La relazione tra gli individui sta al centro di tutto. Lo sforzo è quello di ognuno, il risultato sperato è il bene di tutti.
Ho poi riflettuto molto sull’unico e inderogabile compito universale della politica, di cui io stesso spesso prima di vivere questa esperienza ero dimentico: far stare bene le persone. Questa finalità, all’apparenza immediata e scontata, all’interno della nostra società che diciamo essere “evoluta” sta purtroppo silenziosamente lasciando spazio a mille nefandezze. Riflettiamoci bene: spesso alla “persona”, nel suo significato più genuino, nemmeno si accenna. Si parla di banche, non di persone. Si parla di account, non di persone. Si parla di pacchetti di voti, non di persone. Ma, soprattutto, si finisce per considerare automaticamente il valore economico di un bene, di un servizio o di un patrimonio come il surrogato dell’essere umano che ne è titolare o beneficiario. Ecco, io in Africa ho capito che bisogna rimettere al centro della vita sociale il valore e i bisogni primari della persona, cercando di considerare come accessori tutti gli artifizi e le sovrastrutture che spesso annebbiano la nostra vista e condizionano le scelte e i giudizi del nostro cervello.
Il nostro mondo spesso provoca in noi un senso di smarrimento, legato in particolare alle difficoltà di un’esistenza burocratizzata, alla impossibilità di vivere in maniera libera e intellettualmente onesta e di essere in grado di programmare per se stessi e per i propri figli un futuro certo e sereno.
Riflettendo su queste tematiche ho ridato un peso enorme al valore della scelta, che poi è quel piccolo gesto rivoluzionario che porta alla costruzione di un futuro autentico e non manipolato, deciso da se stessi e non da chi non ha nessuna legittimazione a farlo per noi. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma siamo trascinati ogni giorno da una corrente potentissima che, mentre ci vince silenziosamente portandoci dove vuole, ci illude facendoci pensare di star nuotando con le nostre braccia e con le nostre gambe. E questo è un cancro che va estirpato, perché la dignità dell’individuo e la sua libera determinazione non sono compatibili con l’indiscriminata influenza dei “piani alti” o semplicemente dell’artificioso sfasamento dell’assetto societario, che finisce molto spesso per portare a una deviazione rispetto al progetto autentico della persona.

Rinascita, conoscenza e consapevolezza

L’Africa è stata per me fonte di rinascita, di conoscenza, di nuova consapevolezza. E’ stata per me un’entità suggeritrice di soluzioni, una musa da corteggiare dal primo all’ultimo momento. Non so bene cosa sia stato io per lei. Non so quanto sia stato in grado di far star bene quei ragazzini in orfanotrofio, quei venditori al mercato, quei religiosi eroici che hanno la forza e l’attitudine di pensare prima agli altri che a se stessi per tutta la vita, quegli anziani senza nome che mi hanno accolto con un sorriso nella loro casetta di fango facendomi sentire a casa, quelle ragazzine che hanno trasformato il cortiletto della loro scuola in un grande abbraccio come fosse la cosa più naturale del mondo. Chissà cosa sono stato io per loro. Forse semplicemente “Stefàno”.

Di Stefano Baudino

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