Slow page dei Missionari della consolata

Non abbiate paura di essere voi stessi

Nato nel 1978 a Milano, di origini Brianzole, primo di tre fratelli, padre Marco Turra, dopo cinque anni di seminario diocesano a Como ha iniziato il suo cammino con i missionari della Consolata. Ora è al suo sesto anno in Tanzania, il paese che gli ha fatto scoprire se stesso.

A 19 anni sono entrato nel seminario diocesano di Como. Quando ero già al quarto anno di studi, nel 2000, mi hanno mandato un mese a Londra, nella casa dei missionari della Consolata, per studiare inglese. Quello che mi ha colpito lì è stato il fatto di vivere con seminaristi di tante nazionalità differenti che si preparavano per andare ad annunciare il Vangelo ai poveri. Questa famiglia internazionale per l’evangelizzazione mi ha convinto.

Ci racconti la tua storia missionaria?

Entrato nella Consolata nel 2001, sono stato due anni ad Alpignano e uno a Rivoli, dove ho fatto il noviziato. I due anni ad Alpignano sono stati i più belli. Lavoravo in un’associazione («La brezza Onlus») che si occupava di persone sieropositive, o che avevano problemi di tossicodipendenza. Andavo due o tre giorni a settimana. Anche durante il noviziato visitavo gli ammalati nella corsia dell’ospedale Amedeo di Savoia. Lì incontravo problematiche e culture differenti, cosa che missionariamente mi ha stimolato moltissimo. Un apostolato così vario e aperto non l’ho più fatto. È stato padre Manolo Grau (formatore ad Alpignano, ndr., vedi Amico giugno 2014) a indirizzarmi lì. L’obiettivo era soprattutto il prestare ascolto, però, ovviamente, si veniva a contatto anche con tutte le verie problematiche: sociale, sanitaria, psicologica, anche culturale, legata all’immigrazione, ecc.
Dal 2005 al 2007 ho fatto un’esperienza da seminarista in Tanzania. Sono stato a Morogoro per imparare lo Swahili, poi nella parrocchia della Consolata a Iringa, dove ho lavorato con i giovani, e infine ho fatto sei mesi in una missione rurale a Pawaga.
Poi sono tornato in Italia per i due anni di specializzazione, ma tra un anno e l’altro ho fatto un anno di servizio ad Alpignano con gli anziani. Dopo i tre anni in Italia, alla fine dei quali sono stato ordinato diacono, sono tornato in Tanzania per lavorare in parrocchia a Sanza, nella Rift Valley: il luogo più bello in cui sono stato. Una missione remota dove ancora oggi non c’è il collegamento telefonico. Lì c’era un contatto quasi primordiale con la natura. Per seguire quello che era lo stile di vita della gente, mi sono messo ad allevare bestiame, e poi ho fatto pastorale visitando i villaggi.
Sono stato ordinato sacerdote nel 2011 nella parrocchia di Kidamali, sulla strada che da Iringa porta al Ruaha National Park.

Puoi dire due parole sul paese in cui ti trovi oggi? Quali sono le sue sfide missionarie?

Il Tanzania è un paese in forte crescita economica, non senza problemi ovviamente. La sfida della missione è quella di accompagnare il progresso di questo popolo, ma soprattutto, io penso, di aiutarlo sia a conservare, sia a implementare i suoi valori spirituali – l’accoglienza, il desiderio di coltivare le relazioni interpersonali -, alimentandoli con le virtù cristiane, come ad esempio la fedeltà, o una certa stabilità negli affetti. Quello tanzaniano è un popolo in crescita, non solo da un punto di vista economico. Lì, in generale, anche rispetto a quello che vedo in Italia, c’è più ottimismo nei confronti della vita, nonostante sia un paese piuttosto povero in cui la maggioranza della popolazione vive ancora di agricoltura di sussistenza.

In Tanzania hai ritrovato l’Aids?

Sì, soprattutto quando ho lavorato a Ikonda, dove c’è il nostro ospedale, ma poi anche nella pastorale quotidiana, anche se la gente fa molta fatica a parlarne. Nelle città la gente ha preso più coscienza del problema e quindi tende molto di più a utilizzare gli strumenti offerti per affrontarlo, come le medicine, il counselling, e questo anche grazie al lavoro fatto dalla Chiesa e dai Missionari della Consolata: penso a Ikonda, al Centro Allamano delle suore Mc a Iringa. Nella zona di Ikonda, credo che almeno un terzo della popolazione sia sieropositiva. La regione di Iringa è quella più colpita.

Che lavoro stai svolgendo oggi?

Sono amministratore regionale. Mi occupo fondamentalmente di contabilità. Da un punto di vista pastorale aiuto nella parrocchia della Consolata. A Natale e a Pasqua vado in una parrocchia della periferia di Dar Es Salaam.

Qual è la difficoltà più grande che incontri?

La responsabilità e le problematiche legate al campo amministrativo, anche se il lavoro di per sé non mi pesa. E poi certamente il fatto di aver potuto fare pochi anni di pastorale esclusiva.

E quale la soddisfazione?

Quella di essere in questo paese da sei anni, e di sentirmi a casa.

Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?

Appena arrivato in Tanzania sono stato in un villaggio vicino a Morogoro. Ricordo che una bambina molto piccola mi prese per mano di sua iniziativa, cosa che normalmente non avviene. Mi trascinò in una classe di catechismo, prese uno sgabello e me lo mise lì perché voleva che mi sedessi vicino a lei. È stata una cosa che non mi è mai più capitata. Oggi lo vedo come un piccolo segno della Grazia e dell’accoglienza di questo popolo. Normalmente siamo noi a essere protesi verso la gente a cui andiamo. Mentre invece in questi anni ho scoperto che accade soprattutto il contrario. Ti senti una persona normale: non semplicemente una persona che è lì per loro, ma uno che riceve, e molto di più di quello che riesce a dare.

Quali sono secondo te le grandi sfide della missione del futuro? E come pensi che si possano affrontare nel paese in cui vivi?

Mi ritrovo in pieno nel programma di papa Francesco: andare alle periferie, uscire, ma perché questo andare sia una fonte di rinnovamento per noi, di semplificazione delle nostre strutture. Per noi in Tanzania questa è una vera e propria sfida: abbiamo creato strutture belle e importanti e che danno un servizio qualificato alla gente, ma dobbiamo fare in modo che non ci venga a mancare lo spirito di andare oltre, per rinnovarci.

Che cosa possiamo offrire al mondo come missionari della Consolata?

Una cosa che non vedo per nulla scontata nel mondo di oggi è il discorso dello spirito. È bello vedere che noi missionari della Consolata non stiamo insieme solo così, per interessi particolari, ma perché tra noi c’è uno spirito: lo spirito di famiglia, la missione, la santità nella vita. Quello che noi missionari della Consolata possiamo offrire è di continuare a essere noi stessi: come missionari ma anche come uomini. A me piace molto ritrovarmi con persone con cui ho tanto in comune. Ed è forse quello che un po’ manca in generale: l’umanità tende molto alla disgregazione, o a un’aggregazione attorno a cose che poi ti lasciano poco. Noi lo spirito, per quel che posso vedere, lo abbiamo.

Cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?

Nel mio piccolo, quando vengo a contatto con i giovani cerco di trasmettere una libertà a partire da quello che io sono.

Che frase, slogan, citazione proporresti ai giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari?

Non abbiate paura di essere voi stessi.

di Luca Lorusso

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