Slow page dei Missionari della consolata

Comunità e nuova evangelizzazione

Riflessioni sul nostro tempo e proposte pastorali
Nuova evangelizzazione: un tema di ricerca su cui necessariamente – obbligatoriamente – tutta la chiesa è chiamata oggi a interrogarsi. Confrontata con la nostra società segnata dal neopositivismo, dove la materia è diventata metro di giudizio, una fede che liberi e riproponga le strategie dell’amore richiede una comunità ecclesiale rinnovata.

Che si ispiri, per esempio, a quanto Paolo chiede ai Corinzi – in uno dei libri neotestamentari di riferimento per questo libro. Il lavoro in stretta collaborazione e sintonia di sacerdote e laici appare così fondamentale per recuperare il senso e le modalità dell’Annuncio nel contesto odierno.
Il tutto è realizzabile attraverso comunità della presenza, dell’annuncio kerygmatico, della profezia, dell’impegno etico e della nuova iniziazione cristiana. Sono cinque modelli utili da tenere presente nelle realtà dove ancora si stenta a rilanciare la fede con schemi nuovi.
Il libro unisce delle piste operativo-pastorali all’analisi dello spirito del nostro tempo e alle considerazioni di natura biblico-teologica.

Prefazione di Antonio Staglianò

Autore:
Ruccia Antonio
Sacerdote, direttore della Caritas di Bari-Bitonto, è docente di Teologia pastorale alla Pontificia Università Urbaniana e alla Facoltà teologica di Bari. Autore di diversi libri.

anno: 2012
formato: 14×21
pagg. 176
euro 12,00

INDICE

Prefazione, di Antonio Staglianò, 7

Introduzione, 15
Comunità ed evangelizzazione, 17
Il sacerdote della nuova evangelizzazione, 60
I laici corresponsabili della e nella nuova evangelizzazione, 103
I modelli della nuova evangelizzazione, 125
Fede e nuova evangelizzazione, 157
Conclusione, 167

Bibliografia, 169
PRESENTAZIONE

Nuova evangelizzazione e nuova pastorale

Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni, "la nuova evangelizzazione non è una reduplicazione della prima, non è una semplice ripetizione, ma è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo" (n. 5): così i Lineamenta della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi – La nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana – si impegna a offrire criteri per il discernimento del "mondo di oggi a partire dalle sue sfide", ribadendo l’attitudine del cristianesimo di "sapere leggere e decifrare i nuovi scenari" del tempo presente, quelli culturali e sociali, quelli legati alla profonda incidenza sulla coscienza collettiva dei mezzi di comunicazione sociale, dello sviluppo distorto in campo economico e del progresso della scienza tecnologica, fino a quelli prodotti dalla riconfigurazione politica del mondo. Sono scenari che urgono di non restare immobili o chiusi nei propri recinti, ma di avanzare (con una forte capacità critica e autocritica) nel rinnovamento delle strutture di pensiero, degli stili di vita, della percezione del valore, dell’ethos e dei linguaggi con i quali oggi gli umani comunicano la loro speranza di costruire un futuro migliore, degno dell’uomo e rischiano l’azzardo di una possibile deriva post-umana e/o disumana, dentro le tante forme incivili della barbarie.
Tutto questo comporta l’elaborazione di nuovi modelli di chiesa, nuovi modi di presenza e rinnovate modalità di abitare questo mondo, ma anche un ripensamento della fede stessa, perché essa brilli nella sua bellezza e ricchezza, oltre le sue indecenti caricature che hanno nei tempi suscitato tra gli uomini tanti interrogativi critici e negativi circa il volto di Dio che essi annunciano. Perciò la nuova evangelizzazione – che secondo i Lineamenta "integra" (nel senso che ne fa parte essenziale) anche il "Cortile dei Gentili" – significa "avere l’audacia di portare la domanda su Dio all’interno di questi problemi, realizzando lo specifico della missione della Chiesa e mostrando in questo modo come la prospettiva cristiana illumina in modo inedito i grandi problemi della vita" (n. 7).
Mentre dunque si afferma l’inevitabile necessità dell’auditus culturae – la nuova evangelizzazione è "lo strumento grazie al quale misurarsi con le sfide di un mondo in accelerata trasformazione" (n. 1), poiché l’annuncio richiede "che prima ci sia un momento di ascolto, comprensione, interpretazione" (n. 3) per individuare "vie nuove, capaci di parlare alle culture odierne" (n. 5) –, invita anche e soprattutto "a sviluppare una rilettura del presente a partire dalla prospettiva di speranza che il cristianesimo porta in dono", per "mostrare al mondo la forza profetica e trasformatrice del messaggio evangelico" (n. 7).

Tutto questo comporta l’urgenza di ridefinire i compiti dell’iniziativa pastorale delle chiese locali. Allo scopo, ritengo faccia un buon servizio il prezioso testo di don Antonio Ruccia, catecheta e pastoralista affermato che s’impegna a interrogare tutti gli attori ordinari dell’azione ecclesiale dentro la "misura critica" della nuova evangelizzazione. L’intento non è quello di offrire delle ricette. Risulterebbe presuntuoso e poco rispettoso della creatività e dell’intelligenza pastorale propria di ogni comunità cristiana. La mission è invece quella di accompagnare, possibilmente, il rilancio della missione in ogni parrocchia e in ogni esperienza credente, avviando un percorso di riflessione, puntellato da domande impegnative, ma necessarie, in riferimento all’urgenza di rilanciare l’annuncio del Vangelo.
È possibile oggi annunciare il vangelo senza tener conto della crisi del contesto culturale in cui viviamo, dominato da tanti riduzionismi antropologici che minano alle basi le possibilità stesse del nostro linguaggio ordinario? La predicazione cristiana deve con nuova forza affermare la verità del vangelo – Dio è amore –, ma può oggi farlo senza l’inevitabile rischio che le sue parole vengano propriamente fraintese, perché le coscienza dei giovani e degli adulti sono realmente distanti dal significato umano e cristiano della parola amore? E come recuperare – ovviamente non tanto in un corso di teologia per accademici, ma nella concretezza dell’iniziativa pastorale della chiesa – la verità dell’amore che solo il Crocifisso rivela, nella sua definitività, come dono che spinge l’offerta di sé per l’altro fino alla morte? Le iniziali osservazioni di Ruccia sul relativismo e sul neopositivismo non indulgono affatto all’accademicismo. Sono la semplice avvertenza che è veramente cambiato, nel profondo, il contesto culturale e in esso anche la mentalità degli uomini e delle donne nelle società complesse e secolarizzate. Sono cambiati i loro giudizi di valore, il modo con cui vivono gli affetti, le attese per il futuro e, da qui, il loro modo di incontrare religiosamente Dio e di accogliere l’annuncio del vangelo, nell’eventualità che trovino qualcuno che lo faccia realmente con nuovo ardore e nuovo zelo. Senza poi insistere su quell’individualismo che domina nelle relazioni umane a tutti i livelli e genera competitività frustrante e fredda indifferenza. Proprio qui, nel nucleo incandescente di una società che degenera e perde l’umano nell’agghiacciante disamore, la chiesa deve riscoprire linguaggio nuovo e nuovi metodi per comunicare il vangelo dell’amore, nel tentativo di superare la schizofrenica separazione tra vangelo e vita, tra fede e storia, tra dottrina e sapienza. Qui dentro occorrerà ridisegnare il compito educativo della chiesa.
Educare alla vita buona del vangelo è la risposta concreta. Questo comporta un grande lavoro di elaborazione teorica e dottrinale, da una parte, e contestualmente anche il generoso sforzo di individuare percorsi di vita praticabili affinché il vangelo diventi "carne e sangue" della quotidianità di ogni persona e delle comunità, incidendo nella trasformazione dell’ethos, della cultura, della mentalità, dei principi fondamentali e dei valori determinanti. Educare è "portar fuori" per "introdurre dentro": ha a che fare con la "conversione cristiana" che cambia la vita portando (ma anche attraverso) all’incontro con la Realtà, la verità della persona di Cristo, morto e risorto, senso e speranza della vita. Il cristianesimo che educa (e a cui educare) vive sempre del nesso tra parole e fatti, e nel "nesso" trova lo splendore della verità. Il cristianesimo nasce da un evento e pertanto non trasforma mai la verità in dottrina, perché la sua verità "nasce sempre dalla carne". Educare costringe al doveroso compito di tracciare percorsi di vita cristiana proponibili, vivibili, interessanti, che rendano il cristianesimo "opportuno" nella ricerca del senso della vita, tenendo conto delle difficoltà culturali odierne e delle esigenze della comunicazione del vangelo nel mondo ormai cambiato.

L’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI con la lettera apostolica Porta fidei si presenta come un’occasione propizia nella quale "dovrà intensificarsi la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al Vangelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo" (n. 8). Questo ripensare la fede non avrà il significato di una sua "rifondazione", ma di una sua più autentica epifania cristiana e – mi sia consentito – "cattolica", che non potrà non interessare direttamente la specificità della scienza teologica nel suo cuore pulsante e nevralgico, la cristologia (come sta facendo il santo padre con i suoi preziosi scritti su Gesù di Nazaret, nei quali con "scienza e sapienza" ci introduce nella verità del mistero del Cristo reale, quello veramente capitato nella storia e coincidente con quello annunciato dalla chiesa). Riguarderà anche e soprattutto l’azione pastorale, nei suoi attori, nei suoi destinatari, nelle sue dimensioni, nelle sue finalità: tutti ne devono essere coinvolti, vescovi e presbiterio, presbiteri, religiosi e religiose, fedeli laici. Ma quale potrebbe essere la mossa vincente in questa grande impresa della nuova evangelizzazione? La proposta di don Antonio Ruccia è chiarissima e nella sua semplicità del tutto scontata: "riscoprire la comunità", come nuova consapevolezza della radice ontologica della chiesa-comunione, che travasa finalmente – oltre ogni enfasi retorica – nelle strutture stesse dell’azione ecclesiale, nei suoi ritmi, nei suoi metodi, richiedendo una maggiore epifania della corresponsabilità a tutto campo. Così leggeremo: "la comunità ecclesiale, allargando così i propri perimetri, necessita di una partecipazione attiva di tutti per esistere e per crescere. È richiesto: – una partecipazione attiva alle decisioni; – un’assunzione di responsabilità; – una preoccupazione in riferimento ai diversi problemi territoriali e mondiali; – una corresponsabilità evangelizzativa. Questo modo di procedere, in cui tutti sono corresponsabili di tutto, stabilisce un nuovo ordine al divenire della comunità e richiede una trasformazione notevole delle strutture, in quanto l’evangelizzazione da attuare non è più per gli altri ma con gli altri". E tanto basta. Ora però cosa fare per dare "carne e sangue" a questa ovvietà?
Il testo che leggeremo si può presentare come una buona "ermeneutica dell’ovvio". È un servizio provocante e a tratti profetico, perché l’ovvio ordinariamente viene gettato nell’oblio, per la fatica che si fa a dargli corpo, a farlo diventare epifania della realtà che viviamo. In questo senso, potremo domandarci: a che punto è l’"ecclesiologia di comunione" del Concilio Vaticano II? Domanda seria a cinquant’anni dalla sua apertura. O ancora, qual è la figura pastorale del rapporto tra presbitero e fedele laico con la quale normalmente si opera nella vita delle nostre parrocchie? Si potrebbe continuare a interrogare. L’opera di Ruccia lo fa mentre si impegna a delineare qualche prospettiva, ad aprire nuovi orizzonti, a dinamizzare la prassi pastorale in una direzione più comunionale.
Mi chiedo – solo per offrire un mio personale contributo e così interagire con le proposte di Ruccia –, quanto feconda sarebbe per la nuova evangelizzazione la riscoperta della diocesi e della diocesanità per ridare respiro missionario alle nostre parrocchie, finalmente aperte al territorio, interagenti tra loro nelle linee di una "pastorale integrata" che sappia superare ogni barriera e sappia costruire nuove sante alleanze con tutti gli uomini di buona volontà, dediti a non perdere l’umano dell’uomo, impegnati a superarne il degrado. Alla fine l’annuncio del vangelo comporta l’epifania della bellezza del volto di Dio, ma ha anche la "funzione" (mi si passi il termine) della rivelazione della bellezza del volto umano dell’uomo, bellezza che è custodita da Cristo, l’uomo vero (perché Dio vero).
Le iniziative di cooperazione interparrocchiali nascono pertanto dalla spinta comunionale della diocesi. Essa esiste affinché le parrocchie maturino una spiritualità di condivisione e corresponsabilità, e l’impegno per l’unità non ricada soltanto su pochi. Le parrocchie infatti non possono esimersi dal praticare la disciplina della comunione, della comunione trinitaria che si apprende nell’impegno a convergere vicendevolmente in un contesto che non ha soltanto significato territoriale. Questa forza altro non è che una spiritualità che s’ispira alla comunione trinitaria. Ne consegue allora che il principio di cooperazione, dal quale si formano comunità di parrocchie, è frutto di uno stile di comunione che si pratica per l’influsso di questa spiritualità, espressa e generata dalla chiesa locale. Quest’ultima, giustamente, va immaginata come grembo di conservazione dell’umano, nella sua capacità di relazione, di condivisione, di solidarietà: "de-individualizzare per vivere ciò che è comune". È questo in fondo il compito della chiesa locale in relazione alle parrocchie. La sua esistenza genera infatti una spiritualità di comunione "diocesana". L’attributo indica, in senso spaziale, il fatto che la spiritualità interessa ogni comunità ecclesiale; in senso esistenziale, che le parrocchie sussistono pastoralmente come testimoni di comunione. La spiritualità diocesana, che la chiesa locale esprime ontologicamente, è visibile nell’impegno delle parrocchie ad essere comunità aperte, capaci di vivere lo spazio kenotico della prossimità e collaborazione.
Il dialogo tra presbiteri e fedeli laici, espressione di una spiritualità diocesana nella via della communio, fa dunque della parrocchia uno spazio missionario da cui risalta il valore delle differenze. Queste ultime non mettono a rischio la comunione fraterna, mentre favoriscono la formazione di un laicato adulto e responsabile. Nella misura in cui i presbiteri sanno esprimere tra di loro forme di apertura sincera, il laicato, quasi per riverbero a questa capacità comunicativa che, come si è visto, ha fondamento sacramentale nell’amicizia di Cristo con i presbiteri, matura una presenza adulta, capace di dialogare con la società odierna. I presbiteri che mostrano tale apertura sospingono indirettamente i fedeli laici a quella maturità di fede che non soltanto permette loro di stare in piedi nell’esercizio della testimonianza cristiana, ma anche di affrontare con le persone di oggi, e in particolare con quelle che sono in ricerca, un dialogo schietto sui grandi temi dell’esistenza. In questo senso, il dialogo assume valenza educativa. Esso infatti sottostà al potenziale comunicativo che l’odierna cultura mediatica impone. È questa la motivazione che obbliga a riformulare una nuova prassi dialogica, i cui principi non possono che essere quelli evangelici: quei principi che soltanto la comunità ecclesiale, in virtù del dialogo tra presbiteri e fedeli laici, è in grado di formulare e mediare. Ciò accade unicamente perché alla base di questo dialogo intraecclesiale vi è in fondo l’amicizia con Cristo: Parola incarnata e segno del dialogo permanente tra Dio e l’umanità. Per tutto questo, l’opera che ora leggeremo con frutto "dona a pensare".

Antonio Staglianò
Vescovo di Noto

di EMI – Editrice Missionaria Italiana

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