Agli occhi, la prima impressione è il rosso della terra. Ma subito dopo c’è il cielo, che ha un azzurro tutto suo. All’orizzonte dell’immenso piazzale fatto di terra rossa c’è un edificio che ospita le sorelle. A sinistra un altro edificio, anche lui rosso ma contenuto da una siepe che lo separa dal suolo. A destra c’è una chiesa -potrebbe sembrare spoglia- ma è essenziale. A destra della chiesa c’è un edificio che ospita i preti missionari. A sinistra un edificio dalle pareti bianche.
L’aria che respiri ha il sapore della pace lì, a Tosamaganga. Riempie i polmoni in modo diverso rispetto all’aria, come se avesse dentro pura energia e non semplice ossigeno. Il vento che soffia spezza i raggi del sole, che altrimenti sarebbero cocenti. Ma raggiungono comunque ogni cosa. Colorano di sfumature nuove le cose più banali del mondo, eliminando la scorza di scontatezza che siamo soliti attribuire loro.
Come alberi con radici molto profonde
Ho riempito i miei occhi di quelle immense distese di niente, ma poi, dopo il primo impatto, mi sono emozionata a riosservarle, che d’un tratto mi parevano tutto. Erano giganteschi campi di granturco rinsecchito su terra sabbiosa o rossa oppure ricoperti da arbusti gialli e alberi scheletriti, senza più foglie.
Il primo impatto con i cinquecento chilometri di strada che separano Dar Es Salam da Tosamaganga sono stati duri per una come me, che ha visto ancora poche cose del mondo e che proviene da quella parte di mondo dove ogni cosa è per convenzione al suo posto. Mi sono chiesta come potessero vivere quegli alberi in quella terra così arida e mi sono risposta che dovevano avere radici molto profonde. Allora mi chiedevo come le persone potessero chiamare “casa” una stanza spoglia senza finestre, con i muri fatti di argilla e i tetti in paglia o lamiera arrugginita, immersi nella più inimmaginabile desolazione. Mi sono spaventata ad immaginare il buio che doveva esserci in quelle abitazioni la sera. Non riuscivo a trovare risposta. Almeno non per ora.
Nessuno è lasciato solo
Nella prima settimana della nostra esperienza missionaria abbiamo vissuto la vita di Tosamaganga. È stato fondamentale per vedere, osservare, cercare di immedesimarsi, perfino capire la nuova realtà nella quale eravamo stati catapultati in meno di due giorni di viaggio, ben diversa rispetto alla nostra abituale.
La vita di Tosamaganga è una vita basata sulla comunità: nessuno è lasciato solo. Ogni momento della giornata trova realizzazione nella condivisione. Dalla scuola al lavoro delle suore, dalla messa domenicale ai pasti condivisi, dai balli ai canti. Si percepiva ad ogni passo, ad ogni sguardo il senso di fratellanza che univa quegli uomini – che dovrebbe unire tutti gli uomini – sostenuto da una fiducia reciproca. Vedere che la fiducia non sempre deve essere guadagnata, ma spesso può anche essere donata, è stata una rivoluzione nel mio modo di pensare: siamo abituati costantemente a difenderci dalle delusioni che potrebbero darci le persone privandole della fiducia; siamo spesso così eccessivamente cauti nel darla, sprechiamo energie per difenderci ossessivamente dall’altro, quando dimentichiamo che spesso noi possiamo essere pericolosi per l’altro tanto quanto lui lo può essere per noi.
Ho letto fiducia incondizionata negli occhi dei bambini che ci correvano incontro ogni volta che solcavamo i cancelli delle scuole o degli orfanotrofi, in quelli delle persone nei villaggi che accoglievano il sacerdote che portava loro l’eucarestia, in quelli dei commercianti quando gli promettevamo che saremmo ripassati a comprare quella collana o quel braccialetto.
La spiritualità nella mani
C’è una potente spiritualità a Tosamaganga. Forse è proprio lei a mandare avanti questo posto. Quella spiritualità si vede, non solo si sente. Si vede nella centrale idroelettrica in costruzione o nell’orfanotrofio ricavato da alcuni container ad Iringa, si vede all’interno del centro di sostegno per sieropositivi che è stato costruito dal nulla ed è fonte di vita per centinaia di persone o nell’abbozzo di alcune pareti, un cumulo di mattoni, terra rossa, sabbia ed erbacce che sarà un laboratorio di scienze. È la spiritualità che muove le mani di tutte quelle persone che creano dal nulla tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere: ed ecco che spuntano case dove non ce n’erano, vengono cuciti maglioni per centinaia di bambini, santificate ostie, partendo da acqua e farina, per l’intera comunità.
Penso che il substrato cattolico che sta alla base della vita comunitaria di Tosamaganga non sia solo un puro elemento religioso, ma anzi è una forte componente culturale che dà sostegno e motivazione alla popolazione. Metti piede in chiesa e percepisci uno spirito diverso. La vita religiosa viene condotta come usanza culturale, a tal punto che anche noi, pur non capendo che poche parole di swahili, ci siamo lasciati coinvolgere dalle molteplici celebrazioni, sentendoci parte integrante della festa, con i canti e i balli che contagiavano chiunque. Abbiamo avuto la prova che gli Africani la musica ce l’hanno davvero nel sangue: ed ecco che da un tamburo e un coro di una decina di ragazzi nasce subito una grande festa.
Education is a weapon
“Education is a weapon”, è scritto sul portone della scuola dei bambini con le maglie rosse. L’educazione ha un ruolo primario a Tosamaganga, esattamente quanto la religione. Imparare a leggere, scrivere e contare, capire come è fatto il mondo, il nostro corpo e le altre culture religiose sono pilastri fondanti del sistema scolastico. I bambini delle scuole provengono da posti molto lontani, che distano anche centinaia di chilometri da Tosamaganga, dove trascorrono buona parte del loro anno scolastico, senza vedere spesso la loro famiglia. Nelle regioni dell’entroterra tanzaniano si nascondono le terre più povere di tutte, dal punto di vista culturale, materiale e sociale: molti bambini che provengono da queste zone vengono collocati negli orfanotrofi delle aree più avanzate, e vengono cresciuti con la stessa piramide di valori dei bambini che invece una famiglia ce l’hanno. “Lo dico sempre alle mie ragazze che devono crescere come se dovessero diventare le future presidentesse della Tanzanìa” dice Sister Joyce, una sorella che gestisce un orfanotrofio femminile ad Iringa. L’importanza della cultura trova maggiore espressione proprio in questi contesti: rappresenta il punto più fertile che può consentire il cambiamento, il riscatto di tutti quei bambini che sono nati e cresciuti in mille difficoltà, e con poche prospettive future. Ci sono circoli viziosi che alimentano il numero di neonati abbandonati o rimasti orfani, che vedono come cause concomitanti l’assenza di cultura, del senso di genitorialità, l’alcolismo, l’AIDS, tutti aspetti che però potrebbero essere ostacolati appunto, dalla cultura.
Donarsi senza riserve
Nella seconda settimana abbiamo visitato scuole, orfanotrofi e villaggi. Abbiamo partecipato alla riunione di una Jumuya: sono dei gruppi di fedeli, guidati da un catechista che li conosce personalmente e che guida quella piccola comunità nella preghiera, ma anche nella gestione della vita quotidiana. Quelle persone si erano riunite nel piccolo cortile della casa di una vecchina che aveva bisogno dell’aiuto degli altri per rifare il tetto –rigorosamente di paglia- della sua abitazione. Dopo il momento della preghiera le hanno consegnato doni, frutta, verdura ed offerte per riuscire a sostenersi, almeno per un po’ di tempo. Ed è stato sorprendente vedere crollare l’occidentale logica del “dare per avere” per lasciare posto a questo donare disinteressato da parte di tutte quelle persone nei confronti di una vecchina in difficoltà. La stessa esperienza di questo donarsi senza riserve l’ho vissuta in mezzo ai bambini dell’orfanotrofio: tantissimi, pieni di energia e meraviglia, ci correvano incontro e cercavano uno sguardo, un sorriso, una carezza. Tantissimi bambini che indossavano vestiti usati o rattoppati, con in mano pupazzi sporchi e spelacchiati, il faccino sporco di cibo e il nasino da soffiare. Come se fossero nati dal nulla, non possedevano niente, ma sono stati fonte inesauribile di amore e gioia. E allora davvero ci è venuto il dubbio su chi possedesse che cosa. Volevano giocare, imparare le canzoni italiane e a contare in tutte le lingue, i più grandi volevano anche conoscerci e ci chiedevano i nomi del nostro papà, della nostra mamma, dei nostri fratelli, loro che magari una famiglia non c’è l’avevano neanche. E tutto quello che noi potevamo dare loro non erano certezze, soldi, un’effettiva stabilità per il loro futuro, ma solo due ore del nostro tempo. Ma a loro luccicavano gli occhi, come se quel tempo fosse stato davvero oro.
L’Africa ti dà risposte a domande che non credevi di avere
E senza rendermi conto di quanto questo tempo – questo prezioso oro – sia passato veloce, mi ritrovo di nuovo sullo stesso pullman dell’andata, a percorrere al contrario gli eterni cinquecento chilometri che questa volta separano Tosamaganga da Dar. Ripenso a tutte le aspettative che mi ero creata, alle motivazioni che mi avevano spinta a buttarmi in quest’esperienza. E mi rendo conto solo ora che l’Africa ti dà risposte a domande che non credevi di avere, ma la cui ricchezza è fondamentale per nutrire l’interiorità. Mi sono resa conto che in realtà l’Africa non è vero che ti cambia. Si finisce spesso nella retorica presa di posizione che sostiene che fare un viaggio ti cambi la vita. L’Africa non ti cambia la vita, ma ti fa capire la piega che la tua vita può prendere. L’Africa ti fa riscoprire sfumature di te che avevi dimenticato, colori di te che non avevi mai visto prima. Io sono partita con delle domande, e l’Africa non mi ha consegnato le risposte già fatte. Mi ha aiutato a trovarle dentro di me, facendomi capire che sono sempre state lì.
E ancora quando mi vien da dire “Asante” anziché “Grazie”
Ora placo il Mal d’Africa continuando a cercarla nella mia parte di mondo che è fatta di cose apparentemente ordinate, ma che capisco un po’ di meno. La cerco nel braccialetto che la donna Masai mi ha stretto al braccio e che non riesco più a togliere, la cerco rileggendo il diario di viaggio, annusando le spezie e toccando le kanga che ho portato a casa. Guardo se c’è nel riflesso degli occhi di chi mi ascolta quando gli parlo di lei. Mi rendo conto che mi è entrata dentro quando non capisco perché un paio di scarpe ancora utilizzabili sono in una pattumiera, e mi arrabbio e mi vien da piangere. E ancora quando mi vien da dire “Asante” anziché “Grazie”. Cerco il mio angolo di Africa nel mio desiderio di fermarmi a parlare con qualsiasi persona di colore per chiederle da quale stato proviene, nella speranza che dica “Tanzanìa”. La mia Africa la ritrovo negli amici che ho trovato, negli episodi che abbiamo condiviso, nei sogni che insieme facciamo.
Su quel pullman di ritorno, in quei primi cinquecento chilometri che stavano mettendo distanza tra me e la mia Africa, riguardavo quelle immense distese di tutto e di niente, che già mi mancavano. Ho guardato gli alberi, ossuti e immobili come all’andata. Mi sono rassicurata pensando alla profondità delle loro radici che devono raggiungere il cuore della terra per trarre la linfa vitale. Ma ci riescono, riescono a sopravvivere, grazie al fatto di aver raggiunto il loro essenziale. Poi ho spostato lo sguardo su quelle case con quelle persone, che vivevano di niente ma in una nostra visita sentivano tutto. E di nuovo quel senso di inquietudine e desolazione, e di nuovo mi chiedevo come facessero a vivere. Ma poi mi sono ricordata degli alberi. E ho capito tutto.
di Ylenia Arese
Ylenia Arese
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