Slow page dei Missionari della consolata

Campo in Tanzania 1. Sensazioni Corporee

Dodici giovani di Torino. Tre settimane in Tanzania, a Tosamaganga. Accompagnati da Fabrice Bakebe, missionario della Consolata congolese, in Italia da diversi anni. Il racconto di Diana.

Il gruppo partito da Torino. L'autrice dell'articolo, Nadia Pellegrini, è la prima a sinistra nella prima fila.

Non so descrivere cosa siano state per me queste ultime settimane, probabilmente per la mutevolezza del mio umore degli ultimi giorni o per la mia grave incapacità di razionalizzare.
L’Africa si è insinuata in me come un cancro silenzioso, è entrata fanciullescamente in punta di piedi e si è nascosta sotto il letto, per poi attendere pazientemente che qualcuno la trovasse. Per tale motivo il ricordo di quest’esperienza, vissuta in modo così inconsapevolmente intenso, non corrisponde alle forti emozioni che sono affiorate una volta tornata in Italia.
Spesso durante il giorno sento il mio stomaco ferito dall’ulcera dell’amore; ripenso agli sguardi delle bambine della scuola elementare femminile che mi insegnavano con genuino entusiasmo i numeri e i giochi tradizionali; agli attenti sguardi di quei maestri amorevoli che si assicuravano imparassi correttamente – ben lungi dalla presunzione sterile dei coetanei europei; agli stessi capienti sguardi che, anfore profonde, chiedevano di venir colmati di ciò che sapevi, di ciò che potevi offrir loro, di ciò che tu stesso eri.

Conoscere Dio in tutta la sua umanità

I bimbi dell’orfanotrofio di Tosamaganga ci hanno infuso il loro incommensurabile amore attraverso le loro gambine tese attorno alla nostra vita; ce l’hanno contagiato come il raffreddore.
Il giorno che andammo a visitarli, appena scesi dalla macchina, ci corsero incontro; molti si appesero al nostro collo, alcuni non vi scesero più. Mi chiesi il motivo di tutto quell’irragionevole affetto. Cosa stavamo facendo nel concreto per meritarlo? Cosa avevano visto in noi di così speciale? Ma ho imparato che l’amore non si pone giustificazioni né domande e non è in risposta a qualche favore; con loro ho finalmente conosciuto, dopo anni di ricerca sui freddi banchi ecclesiastici intrisi di parole senza significato, Dio in tutta la sua umanità.
Poco più tardi entrammo nel dormitorio, una stanza con pochi lettini rispetto al necessario, impregnata dell’odore agre di chiuso e di urina. I neonati gattonavano spensierati su un pavimento lurido e disseminato di schegge di plastica, i movimenti erano impediti da un nodo di stracci contenitivo – in sostituzione del pannolino – che nascondeva fastidiose piaghe cutanee nelle zone intime. Passammo una provvidenziale salvietta umidificata su qualche sederino sporco, ma avemmo qualche problema a riannodare gli stracci; una bambina – dall’alto della sua maturità di nove anni – ce lo insegnò. Ricordo l’inquietante fiducia con cui alcuni, come un gioco malsano, si lasciavano cadere dalla culla per attirare l’attenzione, ricercando la nostra presa salvatrice.
Quelli più grandi raggiungevano l’asilo attraversando la strada. Scoprimmo quasi per caso quel giacimento di preziosa umanità e ne fummo gelosamente attratti; divenne il nostro segreto, un posto in cui sotterrare il superfluo per alleviare l’anima ed entrare in contatto con l’essenza. Quel cortile presto diventò la nostra panacea e ad ogni momento libero, come risucchiati da un vortice, finivamo immancabilmente davanti al cancello aspettando che qualcuno ci aprisse.
La macchina fotografica è stata il mio occhio interno. Filtro di sensazioni troppo intense per il mio debole cuore avvezzo all’apatia, ha appiattito sapientemente la tridimensionalità e affievolito i colori. D’altro canto, galeotta di relazioni umane, ha edificato uno stabile pontile tra il mio bisogno di contatto e il loro di sentirsi per una volta importanti, esclusivi, al centro della mia fotografia.
Ho vissuto sulla mia pelle la giocosa curiosità con cui si mettevano in posa e ridevano alla vista di sé e dei loro amici intrappolati in quella misteriosa scatoletta telematica; ho immortalato la dolcezza materna con cui le bambine si prendevano cura dei loro orsetti di pezza, quasi a voler riscattare la propria condizione familiare.
Il loro bisogno di attenzioni era disperato. Una mattina, ricercando un mezzo di comunicazione che trascendesse quello verbale, presi un foglio e dei pennarelli; nel giro di pochi minuti mi ritrovai sommersa da una fiumana di bambini che mi supplicavano di dare a ognuno di loro – sebbene coloro che avevano il reale desiderio di disegnare fossero pochi – un pezzetto di carta con un pennarello. Si generò una gran confusione e diedero il peggio di sé, specialmente quando, come era chiaro che sarebbe successo, i pennarelli terminarono. In tutto quel subbuglio, notai splendere un’aura di silenzio. Era lei, la perla rara. Una bambina dall’animo nobile che, una volta ottenuto il suo foglietto con il suo pennarello, si isolò a disegnare, imperturbabile a qualsiasi mia parola, a qualsiasi strattone ricevuto dai curiosi dietro di lei. Disegnava e basta, rintanata nel suo mondo di automobili e pulcini; così pensai di approcciarmi a lei per quella via. Tracciammo dei visi, degli occhi, lei una macchina, le nuvole, il sole; poi lo spazio sul foglio finì e ci concentrammo sulle mani, abbozzai delle stelle, dei cuori, scrisse il mio nome. Sebbene seria e riflessiva nel suo lavoro, qualche volta accennava un timido sorriso di apprezzamento. Quando un coetaneo piagnucolava perché voleva il suo colore, lei gli concedeva uno scambio senza dire una parola, educata e generosa. Poi la vidi filare via, nella semplicità della sua età, e mettersi rispettosamente in fila per le caramelle.
Abbiamo incontrato diversi soggetti illuminati sul nostro cammino, come quella suora dell’orfanotrofio di Iringa che insegnava alle sue ragazze ad applicarsi nello studio per poter diventare un giorno presidenti della Repubblica. O come quella maestra d’asilo che da sola riusciva a tenere testa a settanta bambini. Quando arrivammo – dopo esserci presentati – nonostante l’ingente numero, li fece alzare con orgoglio uno ad uno – coi piedi nelle logore scarpette l’una diversa dall’altra – e fece dire loro il proprio nome. La perfetta simmetria della scena – ovvero la condizione di parità che si venne a creare tra noi e loro – mi sembrò impartire un’importante lezione: “Siate fieri di ciò che siete e del nome che portate”.

Tornare a una vita quotidiana trasfigurata

Sono tornata in Italia e ho attraversato in poco tempo panorami emozionali che non pensavo di avere ancora. Dal candore di occhi puerili che vedono la poesia di una città che c’è sempre stata eppure sembra ancora tutta da scoprire, al riso sincero del ricordo, alla commozione catartica, all’entusiastica voglia di mettersi in gioco e impegnarsi, al lacerante senso di vuoto. Ho imparato a conoscere la voragine della solitudine solo dopo che ho sperimentato il senso di appartenenza, perché niente più di questo ti insegna l’Africa, se non ad essere consapevole del fatto di essere Uomo – inteso come aristotelico “animale sociale” – e quindi per natura inadatto all’isolamento indotto dalla nostra quotidianità. Sappiamo tutto degli altri e ci sentiamo soli, non troviamo il tempo di fermarci ad ammirare gli abiti di uno sconosciuto, a salutarlo, ad ascoltare ciò che può insegnarci, a vederne la bellezza dei segni del tempo sul suo viso, a cercare di superare la barriera linguistica; a provare sostanzialmente ad immergerci nel suo mondo.

L’altro come motivo di forza

La sicurezza con cui si percorre senza genitori la via di casa dopo l’asilo è indice della fiducia incontaminata verso chi è intorno a loro, causata della grande energia messa in gioco dalla vita comunitaria. Ciò non significa che io abbia riscontrato un’inopportuna e confidenziale espansività, quanto più un pudore, specialmente negli adulti, che si scioglieva in un sorriso pulito e cortese non appena li salutavamo educatamente per strada.
L’altro è visto come importante motivo di forza e arricchimento e non di quella diffidenza che ci fa rinserrare in casa con quattro giri di chiave. Mi domando quanto la smisurata paura del nuovo e del diverso – in una certa misura insita in ognuno di noi per atavico istinto di sopravvivenza – derivi ragionevolmente da un Occidente in effetti più violento, e quanto sia invece originata da un indottrinamento mediatico che risponde alla perversa fame di disfattismo che storicamente ci appartiene e che ci tiene incollati ai telegiornali ogni giorno per ascoltare morbosamente le disgrazie che accadono.
Ma il mondo non è solo questo, basta uscire dai propri schemi abituali per accorgersene. Dall’anziana che si ferma per strada per accarezzare il tuo cane e magari fare due parole, all’addestratore incontrato per caso che dispensa gratuitamente importanti consigli su come insegnare il richiamo, alla cameriera un po’ impacciata che ti mette buon umore; il tutto contornato da una Torino architettonicamente incredibile che ad ogni passo ti parla di storia.

Un modo per ritrovare ciò che si era perduto

Non abbiamo costruito edifici, non abbiamo insegnato nelle scuole, non abbiamo assistito il personale degli ospedali; da un certo punto di vista potrebbe sembrare un’esperienza unilaterale in cui si è solo ricevuto e non si è donato, un’egoistica ricerca di sé, della propria spiritualità, della propria religiosità, un modo per ritrovare ciò che si era perduto da tempo. In effetti è stato così.
Si sa che non si può agire se non si conosce, e in tre settimane si conosce poco; ma qualcosa di buono l’abbiamo fatto. Ci siamo posti delle domande, abbiamo accettato di metterci in discussione sulla nostra scala di valori, sulle nostre convinzioni – il che all’umanità non può che far bene. Abbiamo in sintesi intrapreso il tortuoso cammino verso la consapevolezza di quanto sia distorta la vita che conduciamo.
Sono qui ora; mi accorgo di quanto sia buffo un mondo in cui l’argomento più interessante dei dibattiti sembra essere il burkini, o di quanto sia influenzabile la gente che ritiene riprovevole una religione solo perché qualche scellerato individuo ne abusa politicamente, o di quanto sia triste creare un rapporto così intenso con il proprio animale solo perché non si ha il coraggio di darsi genuinamente ad un altro essere umano. Osservo la piaga dell’inerzia mentale, dell’avulso ammaestramento scolastico, dell’ignoranza, dell’accidia di approfondire e informarsi, proprio in una società in cui con un click sembra di avere l’universo in tasca. La croce della paura del giudizio, del narcisismo e della ricerca di apprezzamento grava sulla nostra schiena, non consentendoci di respirare con agio.

L’Africa ti entra nelle viscere

Rivivo l’eco di quei canti. Le voci tuonanti del coro, le canzoni di benvenuto dei bambini, le danze di arrivederci dei Masai riempivano il corpo; riuscivo a sentire lo sterno vibrare per risonanza.
L’Africa ti entra nelle viscere. Brucia lo stomaco, pompa più sangue al cuore, risana i polmoni di aria speziata, allenta le tensioni cervicali, lucida la mente, la rinfresca. Ma la stessa ingannevole, seducente, rassicurante mano che ti viene tesa per salvarti è in grado di afferrarti il cuore in una morsa crudele appena l’aereo del ritorno decolla. Dall’Africa non torni mai indietro, rimani lì, marcio come sei partito, e arrivi rinato.

di Diana Pellegrini

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Diana Pellegrini

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