Esiste un fenomeno sociale ed economico, che condiziona fortemente le nuove generazioni nel mondo globalizzato e post-moderno attuale; è dovuto alla crisi economica, che ha colpito da alcuni anni l’intero pianeta e che si focalizza e si ripercuote, incidendo in modo marcatamente negativo nel lavoro, nella ricerca di un impiego, della sicurezza di un posto, di un’occupazione, di un ruolo nella società: si tratta del precariato, un modo di concepire e gestire e vivere il lavoro che non ha e non offre in sé alcuna certezza, alcun diritto, alcun vantaggio. A esso sono «condannati» tantissimi giovani, succubi e vittime di un sistema capitalista ingiusto e degradante, che preclude per loro ogni prospettiva rosea di futuro.
Servizi e tecnologia
Sullo sfondo di questa crisi economica, di questo instabile sistema occupazionale basato sul precariato, si situa la transizione da una società industriale a una post-industriale, ossia da un’economia fondata essenzialmente sulla produzione di beni a un’altra che punta tutto sulla fornitura di servizi, e che, per quanto riguarda la dimensione produttiva, fa più leva sulle conoscenze e sulla creatività che sulla potenza dei macchinari. I rapidi e costanti progressi della tecnologia stanno rendendo le macchine obsolete in tempi brevi e ne relativizzano il ruolo. Tra hardware e software è quest’ultimo che prende il sopravvento e risulta dominante, determinante, fondamentale.
Riduzione del personale
Questo stato di cose ha provocato degli effetti, fisiologici o meno, nell’ambito del lavoro, e i giovani che si affacciano a esso ne subiscono le conseguenze. Un primo risultato per nulla esaltante è stato la riduzione dei posti di lavoro. Già all’epoca della prima rivoluzione industriale si era verificata una cosa analoga: l’avvento delle macchine aveva bruscamente diminuito la domanda di forza-lavoro umana. Oggi, in un contesto in cui le apparecchiature meccaniche sono governate dai computer, si rende superflua buona parte del personale che le gestiva.
Lavoro flessibile
Nello stesso tempo è cambiata la concezione del lavoro: si registra infatti la scomposizione, la frammentazione e l’individualizzazione dei rapporti tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Il lavoro sarebbe diventato flessibile, accezione eufemistica che maschera l’altro termine più realistico e nel contempo stonato: precario. Il lavoro dunque è modulato secondo ritmi che non sono più quelli rigidi e uniformi dell’impiego tradizionale, ma si rimodella su nuove esigenze che emergono da momento a momento. Sconvolgendo un po’ tutto l’insieme. Rendendo estremamente labili e volubili e fragili le condizioni dei progetti produttivi. Vanificando le aspettative legittime nell’assunzione di nuovo personale.
Effetti devastanti
L’idea del tradizionale posto di lavoro stabile, a tempo indeterminato, con una retribuzione adeguata, con la certezza della pensione e dei diritti di tutela connessi, è stata fatta saltare per aria, demolita, annullata. Su un tale mutamento drastico e irreversibile delle condizioni del lavoro è piombata, aggravando la situazione già compromessa, la crisi finanziaria. Con effetti devastanti. La diminuzione dei posti di lavoro non è più solo dovuta alla nuova dinamica del sistema produttivo, ma in particolar modo alla destabilizzante sua contrazione e delocalizzazione in aree geografiche dove il costo della mano d’opera è minore. Si è così verificato un terremoto negli umori, nelle attese, negli atteggiamenti del mondo giovanile che si appresta a cercarsi un lavoro. Lavoro che è definito e conosciuto, da come stanno andando le cose, come: precario.
Il «posto»
Il fenomeno del precariato, nella sua concezione più ottimistica, ossia di flessibilità, ha mutato la sensibilità che molti giovani avevano circa l’aspirazione al «posto», che in qualche modo modificava in negativo la nozione e la filosofia del «lavoro». A ben riflettere il «posto» e il lavoro non coincidono. Tanti giovani aspiravano a un posto fisso che assicurasse uno stipendio e la pensione, ammettendo francamente che la stabilità insita in questa aspirazione al «posto» costituisse una garanzia di essere retribuiti, anche senza far nulla. Questa logica un po’ sfacciata del «posto» adesso come adesso non avrebbe più ragione di esistere: ora, data la crisi, nessuno più s’illude di vivere di rendita sulla base di un’assunzione definitiva. La nuova nozione del lavoro precario, vale a dire la flessibilità, avrebbe fatto riscoprire il senso autentico del lavoro, del posto di lavoro, ma ne ha minato in altri modi le basi. Il precariato infatti ha sminuito qualitativamente e quantitativamente alcune caratteristiche incisive del posto di lavoro, strappando a esso quel senso di sicurezza anche psicologica, non solo materiale, che dava con la stabilità e la tutela dei propri diritti, ormai alla deriva e persi per strada con buona pace di tanti lavoratori solerti e la perversa e perfida soddisfazione degli organi dirigenti degli meccanismi produttivi.
«Tempi moderni»
Nella civiltà industriale, prima, il lavoro umano veniva messo sullo stesso piano del lavoro delle macchine. Consistendo nell’azionare e controllare il funzionamento dei macchinari, i veri protagonisti del lavoro umano diventavano questi ultimi, mentre l’uomo doveva sottostare ai loro tempi e ritmi. Il notissimo film «Tempi moderni» di Charlie Chaplin esemplifica e illustra ciò in modo nettissimo: la catena di montaggio ha determinato una nuova condizione esistenziale e anche una nuova struttura antropologica. Tale concezione del lavoro ha dominato in Occidente con il fordismo e il taylorismo e anche in Unione Sovietica con Stakhanov, l’instancabile minatore, il cui esempio ha dato vita al cosiddetto stakanovismo.
Aggiornamento tecnologico
Nella società post-industriale, in cui domina il precariato, le cose sono cambiate. Lo sviluppo inarrestabile delle nuove tecnologie ha sconvolto il rapporto uomo-macchina. Il software di un computer oggi come oggi diventa obsoleto dopo pochissimo tempo e l’azienda deve rinnovarsi e adeguarsi, l’uomo che lo utilizza e gestisce sarà “rottamato” insieme all’hardware, se non si aggiorna. Fa dunque fortuna oggi una categoria di lavoratori definiti tagliatori di teste, pronti a “decapitare” appunto gli impiegati di una ditta che non si sono messi al passo con i tempi circa l’aggiornamento tecnologico. Da ciò le conseguenze spiacevoli sul piano umano e dei sindacati sono inevitabili. La crisi economica, a questo punto, facendo crollare il numero e la sicurezza del posto di lavoro dell’uomo, mentre si potenziavano i software dei pc, ha comunque fatto esaltare il primato dell’uomo, non giustamente considerato però dallo stesso sistema produttivo, che consiste nell’inventiva, nell’intraprendenza, nella creatività, nell’originalità, nella progettualità di un modello di lavoratore, che sa affrontare con successo la gestione delle tecnologie avanzate.
Costi umani
I costi umani nell’attuale congiuntura sono pesantissimi. I giovani ormai sono a tal punto demotivati e sfiduciati, che hanno persino smesso di cercare lavoro. La disoccupazione è all’ordine del giorno, con la chiusura di molte imprese e la drastica riduzione del personale. L’emarginazione in cui sono precipitati tanti disoccupati e tanti giovani fuori dal mercato costringe le nuove generazioni a vivere sulle spalle di genitori e nonni e a ricorrere, nel peggiore dei casi, a espedienti a limite della legalità. In una tale atmosfera di scoraggiamento e incertezza, che rappresenta il clima in cui sovrasta la precarietà, non si creano più famiglie e non si fanno più figli.
La favola degli anni Novanta del secolo scorso
Ma alla fin fine che cosa sono questi precari? All’inizio, economisti e politici parlavano di flessibilità. La favola che negli anni Novanta del secolo scorso si raccontava, era che con la flessibilità la vita lavorativa sarebbe divenuta più dinamica, e le persone avrebbero imparato a cambiare repentinamente posto di lavoro e avrebbero nel contempo guadagnato sempre di più, perché di contratto in contratto i datori di lavoro avrebbero loro riconosciuto l’esperienza accumulata e i miglioramenti professionali. Ma non è andata proprio così. I precari sono i lavoratori più penalizzati. Non si hanno più certezze e non si guadagna nemmeno per sopravvivere o concedersi una vita dignitosa, perciò una casa, una famiglia e dei figli sono diventati per tutti i precari un miraggio, un sogno improponibile, impossibile.
Ammortizzatori sociali
Nel 2012 un rapporto dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori ha confermato che il salario medio dei lavoratori precari è molto al di sotto dei mille euro. La situazione, secondo questo ente di ricerca, è peggiorata. I precari non hanno alcuna tutela, poi non hanno diritto agli scatti di anzianità, a emolumenti extra come straordinari o l’orario notturno. Le soluzioni che si intravedono sono riconducibili all’ammortizzazione sociale: una sorta di tutela universale per tutti i disoccupati. Il costo però sarebbe molto elevato: 15 miliardi di euro l’anno. Per quanto riguarda il reddito, fra le proposte in discussione, quella di «SanPrecario»: uniformare l’Italia al resto d’Europa, dove quasi ovunque è prevista una soglia minima di retribuzione. In Belgio e in Francia questa soglia supera anche i mille euro.
Rischio povertà
I giovani nel mondo globalizzato fra i 15 e i 25 anni sono oltre un miliardo. Si sentono frustrati, perché una volta usciti dalla scuola o dall’università, si affacciano a un’esistenza dettata dall’incertezza che può durare molti anni, resa ancora più difficile dal confronto con la situazione vissuta dai propri genitori, la cui vita appariva garantita da un lavoro stabile. L’accesso al lavoro per i giovani che vi si inseriscono per la prima volta comporta da sempre l’occupazione di posti temporanei, precari, occasionali, per mantenere i quali sono previsti periodi di prova in cui dovrebbero avere l’occasione di imparare un mestiere. Ma se in tempi più felici il lavoro temporaneo rappresentava solo gli esordi dell’attività lavorativa di un giovane, adesso la precarietà è diventata una costante, e la mancanza di tutela e di benefici e di diritti espone i giovani al rischio povertà.
La precarizzazione
Il fenomeno del precariato ha dato luogo alla cosiddetta precarizzazione. Questa sgradevole espressione indica i lavoratori soggetti a situazioni e pressioni tali da condurre a un’esistenza precaria, incentrata solo sulla dimensione del presente. Privati di una solida identità che normalmente avrebbero ricavato da un lavoro e da un coerente stile di vita. La precarizzazione induce poi a una mobilità lavorativa fittizia, in cui il futuro non è contemplato se non intravedendo pessimisticamente degradazione, frustrazione, alienazione, emarginazione e povertà.
Un precariato felice?
Se il lavoro è quella molla che fa sentire una persona realizzata, che ne definisce autenticamente l’identità e la riempie di soddisfazioni, questi esiti radiosi sono preclusi al lavoratore precario. Essi sanno che non possono ambire a un sistema di vita stabile e soddisfacente, perché allora i sistemi economici e politici continuano a prenderli in giro?
Il nocciolo duro
I giovani rappresentano, loro malgrado, il nocciolo duro del precariato, e toccherà a loro per primi costruire un futuro accettabile. La loro forza consiste nel favorire il cambiamento, molti sociologi ed economisti si augurano che tanti di essi possano rimediare all’errore o al danno madornale provocato dal capitalismo.
Ma una condizione esistenziale determinata da incarichi sottopagati, alternati a periodi di disoccupazione e ozio forzato, rende i giovani ancor più rassegnati, insoddisfatti e arrabbiati.
Una nuova classe sociale
In molti paesi almeno un quarto della popolazione vive oggi in condizioni di precarietà. Dovuta a lavori instabili, scarsamente retribuiti e per nulla tutelati. Di fronte a un futuro spogliato di ogni sicurezza, giovani e adulti potrebbero cercare rifugio nel populismo. E tanti indizi ne danno conferma in Europa, negli Usa e in altre parti del mondo. I precari stanno per diventare una nuova classe sociale. Emergente, ma esplosiva. I suoi membri potrebbero dare ascolto a proposte politiche perniciose. È bene che i governi del pianeta, di fronte a questo fenomeno della globalizzazione e di una pessima interpretazione del capitalismo, cerchino delle soluzioni che restituiscano fiducia, entusiasmo e speranza.
Giovani precari… Un fattore responsabile
I giovani oggi si ritrovano dunque isolati, impotenti, precarizzati. Ma a che cosa è dovuto ciò? A chi o a che cosa occorre risalire obiettivamente per scoperchiare le cause del fenomeno del precariato, che distorce le esistenze delle nuove generazioni? Nella nostra società tecnologicamente avanzata il potere è nelle mani di agenti anonimi, che si potrebbero identificare in più di duecento compagnie multinazionali, le vere responsabili della crisi globale economico-finanziaria, politico-sociale che ha determinato a livello globale anche il triste fenomeno del precariato o della precarizzazione. Esse decidono i grandi investimenti, trasformano, trivellano, disboscano, cambiano la faccia della terra. Ma di chi sono queste multinazionali, chi le controlla? Gran parte di esse sono nordamericane. Gli Usa stanno pagando il prezzo della loro posizione egemonica su scala mondiale. Ma declino o non declino, impero o non impero, la loro moneta continua a essere l’unità di conto con cui si calcolano e pagano le materie prime fondamentali, dal petrolio alla soia, dal rame al frumento. Il Chief Executive Office è l’homo novus di questo ordine economico finanziario mondiale, colui che decide, colui che si può ritenere e identificare come il depositario degli arcana del potere economico e finanziario, della tecnologia progredita, colui che dirige gli investimenti strategici e sceglie paesi e continenti verso cui convogliare risorse tecniche e flussi finanziari. Tutti i governi e i sistemi politici sottostanno ai suoi progetti, esistono relativamente in funzione di esso. I potentati economici, governati discrezionalmente dal Chief Executive Office, sono economicamente dominanti, finanziariamente decisivi, politicamente irresponsabili. E questa irresponsabilità politica coinvolge la vita degli individui, giovani e adulti, la cui identità lavorativa è stata ridimensionata e svilita nell’ambito del famigerato precariato, una realtà sociale problematica, che se non sarà alleviata o liberata dall’impasse in cui si trova, potrebbe sfociare in qualcosa di esplosivo nel contesto economico globale, e chissà allora che, prima che capiti il peggio, non si trovi una soluzione adeguata, grazie alla quale il giovane lavoratore precario non torni a sorridere.
[Queste ultime riflessioni sono tratte in sintesi dal saggio di Franco Ferrarotti, La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione, Armando Editore, 2011].
di Nicola Di Mauro
Nicola Di Mauro
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