Slow page dei Missionari della consolata

Andate, senza paura, per servire

Intervista a padre Giacomo Mazzotti, direttore di «Amico» negli anni ‘90 e fino al 2005.

«A differenza di alcuni miei confratelli, diventati missionari dopo un’esperienza “nel mondo”, e quindi entrati nell’Imc non più tanto giovani, noi siamo della vecchia generazione: infatti, terminata la quinta elementare, a soli 11 anni, varcavo la soglia del seminario di Bevera (Lc) come “apostolino”, insieme a una bella truppa di coetanei. Ma anche se piccolo, ero già convinto che sarei stato missionario. In più, l’ambiente di allora era molto bello, vivace e anche sereno: una grande famiglia che mi fece superare molto presto la nostalgia di mamma…».

Puoi raccontare brevemente la tua storia missionaria?
«Ho avuto la fortuna di essere dello stesso paese di padre Angelo Bellani, primo missionario della Consolata “non piemontese” (dunque il primo “straniero”, un bergamasco!), accolto nell’Istituto dallo stesso Fondatore. Padre Angelo era già anziano quando lo conobbi, ed io, allora piccolo chierichetto, andavo a servirgli messa, che celebrava nella sua camera, sull’altarino da campo da lui usato nei lunghi anni di missione, in Kenya.
Padre Bellani era per noi un mito: burbero, con una lunga barba bianca e il bastone (a causa di un incidente avuto nella fattoria di Nyeri), incarnava la classica immagine del missionario. Ne ero affascinato e fu lui che mi portò a Bevera, dove allora c’era il piccolo seminario dei missionari della Consolata. Era il 1963: ero solo un bambino, ma già deciso a diventare missionario come lui, in Africa.
Ho seguito la trafila ordinaria di formazione (a Varallo Sesia, Certosa di Pesio e Roma), per diventare prete nel 1978. L’ordinazione fu preparata, al mio paesello, da missionari “calibro 90” come padre Salvatore Mura e padre Silvano Sabatini (“l’indio”). Mi ricordo che fu un “evento di popolo” e che mi toccò profondamente. Sui manifesti attaccati per il paese, campeggiava una grande scritta: “Vai, Giacomo!”. Per cui, due anni dopo, terminati gli studi, partivo per lo Zaire, assieme a padre Antonello Rossi, anche lui missionario “di fuoco” e amico carissimo».

Sei tornato di recente dalla missione in Congo RD. Puoi dire quali sono le sfide missionarie principali di questo paese?

«Congo-ex Zaire… Quando ci arrivai eravamo ancora al tempo della dittatura di Mobutu: il paese era lanciato nella sfida dell’”autenticità”, un ideale molto bello, ma portato avanti in modo polemico e non sempre intelligente. Anche la chiesa soffrì non poco, ma approfittò dell’occasione per rinnovarsi e inculturare bene il messaggio del vangelo, perché Cristo “nascesse nero”, come ebbe a dire il cardinale Malula, arcivescovo di Kinshasa.
Poi il caos del dopo-Mobutu, le interminabili e complesse guerre civili, le lunghe sofferenze della gente, fino a oggi, dove continua è la tentazione di ritornare al potere forte di un tempo, scavalcando democrazia e partecipazione.
Le grandi sfide sono quelle della pace (quante piccole “guerre” locali, ancora!), della gestione corretta del potere (no alla corruzione e sì alla competenza) e dell’impegno a condividere tra tutti i congolesi ricchezze e potenzialità di questo straordinario paese.
La mia esperienza missionaria in Zaire-Congo ha avuto due momenti, separati da una lunga… pausa italiana, in cui sono stato redattore della nostra rivista Missioni Consolata e… Amico!
Il primo periodo (1980-1990) è stato per me indimenticabile, innanzitutto per il lavoro missionario (dapprima come broussard, cioè l’incaricato dei villaggi della foresta, e poi come direttore del Centro Catechistico della diocesi di Wamba), ma soprattutto per i compagni d’avventura con cui ho potutto realizzare quella “unità d’intenti” tanto cara al nostro fondatore Giuseppe Allamano. Tra questi compagni, ci fu anche padre Stefano, attuale superiore generale.
Il secondo periodo (2006-2015) è stato un po’ diverso: inizialmente infatti mi sono trovato a essere curé (parroco) in una parrocchia alla periferia di Kinshasa, capitale del Congo, poi, nuovamente missionario itinerante, ma stavolta nell’immensa foresta di Neisu, parrocchia fondata da padre Antonello e resa famosa dall’ospedale di padre Oscar Goapper, missionario-medico argentino».

Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«Di questi miei pezzi di vita africana non ho avvenimenti importanti da segnalare; credo di essere stato un missionario del tutto ordinario e, spesso, anche molto limitato. Mi piace ricordare, però, la risposta di una vecchietta protestante, che aveva voluto diventare cattolica, a cui avevo chiesto il perché di questa sua scelta; mi aveva risposto testualmente: “Perché voi missionari non fate distinzioni e volete bene ai poveri”. Quelle parole mi avevano colpito molto…».

Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione del futuro? E cosa possiamo offrire al mondo come missionari della Consolata?

«Le sfide che ci aspettano sono tante e anche conosciute: sono quelle che la chiesa (e non solo la missione) deve oggi affrontare. Le riassumerei in due parole tanto care a papa Francesco: le periferie e… l’odore delle pecore.
Guardando poi noi, missionari della Consolata, una sfida (ma è più una… ferita dolorosa) è il tramonto dell’ideale missionario nella nostra Europa: ragazzi e ragazze che non sognano più di dare la vita per la missione “alle genti e tra le genti”.
Oltre che “raccontare” la nostra esperienza e farla conoscere, quello che possiamo offrire come missionari della Consolata è soprattutto la nostra gioia e il nostro entusiasmo; il volto di uomini e donne che sono felici di aver “buttato via” la loro vita per seguire Gesù e farlo conoscere a tutti».

Cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
«Ai giovani rivolgerei l’invito: “Vieni e vedi!”. Offrire esperienze forti o vacanze alternative, per dare loro l’occasione di “toccare con mano” la missione, vissuta concretamente dai missionari/e in Africa, Asia e America… perché si rendano conto che “un altro mondo è possibile”».

Durante queste interviste chiediamo sempre di suggerirci uno slogan da proporre a tutti i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari. Che frase, slogan, citazione proporresti?
«Più che uno slogan, mi piace ricordare le tre parole che papa Francesco ha lanciato ai giovani, nella messa conclusiva della Gmg, a Rio: “Andate – senza paura – per servire”. Una proposta, ma anche uno stile per essere ancora missionari, oggi».

Luca Lorusso

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