Slow page dei Missionari della consolata

Il «nostro don», contro voglia

Missione Speranza a Torino

Niente chilometri e chilometri per andare a visitare i villaggi, come si sognava la missione quando si entrava in seminario. Niente foreste e animali attorno (abbiamo 6 alberi nel cortile della nostra parrochia torinese). Niente deserti, se non l’asfalto. Niente traduzione di catechismi o costruzione di grandi strutture e opere – ospedali, scuole, orfanotrofi.
Niente pozzi, se non un battistero che vogliamo mettere a posto. Niente tre messe domenicali, ciascuna di 2 ore con balli e «ululati». Nessun morti per fame, ma qualche disperato. Niente bambini con «kwashiorkor» (una forma di malnutrizione, ndr), ma tanti ragazzi che rischiano di perdere la strada per il consumo di droghe leggere e pesanti. Nessun suono di arma da fuoco, ma parecchi anziani che muoiono soli, parecchie divisioni, liti famigliari e guerre nelle aule giudiziarie. Niente stregone, ma parecchi spacciatori a ogni angolo della strada.
Poco di quello che si pensa quando si sogna la missione ad gentes, ma missione a pieno regime.

I media locali e nazionali, diversi mesi fa, hanno preso d’assalto la nostra guasta linea telefonica cercando e intervistando i poveri padre Godfrey e p. Benjamin, «i primi parroci venuti dall’Africa», come diversi giornali hanno intitolato i loro articoli. La novità e la sfida hanno creato euforia anche nei loro confratelli. Ma la luna di miele è durata poco. Cosa significa veramente essere parroco, o vice parroco, arrivato dall’Africa in una parrocchia grande, in un quartiere popolare di una città europea come Torino? I più grandi ci chiamano padri. Per i più piccoli il titolo «padre» è troppo lungo, mentre «don» è corto: «il nostro don» dicono, e offrono parecchi abbracci, troppi per un Kamba come me! Dunque, per loro, se sei don o padre fa poca differenza: ciò che vogliono vedere è se li fai giocare, se dici loro cose sensate e che possono capire su Dio e sulla vita, sui loro piccoli o grandi problemi, se possono venire a raccontarti di strani personaggi di cartoni animati e di giochi della «play», che tu non hai mai visto e non vedrai, perché non sono il tuo genere di cose, o non hai il tempo.
Essere vice parroco o parroco vuol dire uscire nel cortile pieno di gente e immergersi nell’umanità con tutte le sue domande: chi piange perché non ha più il lavoro, e allora apri un ufficio lavoro per cercare di dargli una mano, pressato dalle difficoltà e dalle attese, e dallo scontro duro con la realtà. È passare e salutare le donne musulmane sedute silenziosamente sulle panche del cortile che guardano i loro figli o nipoti giocare. È passare e salutare, e magari assistere, alla distribuzione dei pacchi alimentali e alla variegata assistenza della Caritas parrocchiale. È accogliere chi piange disperatamente perché si è lasciato con il proprio partner, è stare affianco ai giovanissimi nei loro primi momenti di innamoramento, è indirizzare i giovani nelle diverse faccende e aspetti della loro vita, o semplicemente prendere un rum con loro.
Essere vice parroco o parroco vuol dire una marea di incontri che devi fare per l’organizzazione della parrocchia o la formazione e accompagnamento di tutti i gruppi e attività e saramenti. Vuol dire rimanere chiuso in ufficio per ore perché ti devi preparare, devi aggiornarti, devi leggere. Vuol dire uscire e andare a trovare le signore e signori anziani che non si muovono più, e pregare un po’ con loro, ascoltarli pazientemente senza battere ciglia quando ti vogliono riassumere per l’ennesima volta il loro trascorso di vita. Vuol dire andare accanto al letto dei malati terminali e non avere parole, solo la preghiera. Vuol dire presiedere ai funerali di persone della parrocchia, conosciute, apprezzate, e accompagnale alle porte del paradiso, ma anche di persone che da una vita, dopo la cresima, o magari dopo il matrimonio, non venivano in chiesa e i cui parenti non sanno fare il segno della croce.
Essere «il nostro don» vuol dire anche stare in silenzio, davanti al santissimo e raccontargli tutto questo e altro. Vuol dire fare un buon pranzo con i confratelli e ridere e scherzare. Vuol dire sedersi e scambiarsi idee, discutere e prendere decisioni anche difficili e complicate insieme. Vuol dire pregare le lodi insieme al mattino e sesta a mezzogiorno. Vuol dire tacere, vuol dire presiedere alla messa domenicale con una chiesa piena e una liturgia ben fatta, preparare e celebrare i sacramenti. Vuol dire preoccuparsi di come pagare le bollette piccanti della struttura parrocchiale facendo i conti con i centesimi che riempiono i cestini.
Vuol dire essere il primo a sapere quando qualcuno aspetta un bambino, o si sposa. Vuol dire sapere in anteprima gli amori nascenti, ma anche i primissimi virgulti di una vocazione religiosa. Vuol dire esprimere delle riserve e dei no difficili. Vuol dire qualche volta andare a letto «un po’ così» per le macchinazioni del diavolo in atto nel popolo di Dio, o in te stesso.

Essere missionario a Torino, vuol dire avere una vita piena in Cristo, vuol dire essere discepolo tra fatiche e gioie, tra virtù e vizi, vuol dire obbedire, vuol dire la realizzazione di una vita, una vita sacerdotale missionaria. Vuol dire essere figlio dell’Allamano, figlio della Consolata, e offrire quella consolazione a tutti i disperati e afflitti per vari motivi. Vuol dire evangelizzare, far risuonare la bella notizia attraverso l’accoglienza, l’aiuto, l’ascolto, la direzione spirituale, la confessione, la predica. Vuol dire essere collaboratori dei misteri della salvezza, della verità, di Gesù Cristo.

p. Nicholas

di Nicholas Muthoka

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