«Questa frase dell’Allamano per me riassume tutta la sua dottrina. Quante crisi superarte con questo ideale e convinzione. Siamo troppo importanti nelle mani di Dio!
Egli ci chiede di costruire il suo grande progetto d’amore verso i vicini e i lontani, per chi sta bene e per gli ammalati, gli sfruttati, gli emarginati, i piccoli e i grandi». Parola di padre Tarcisio Foccoli.
Sono nato a Lodrino (Brescia) il 16 Dicembre 1938. Entrato in seminario a Rovereto il 24 Ottobre 1950, ho emesso la prima professione religiosa il 2 Ottobre 1960, la professione perpetua il 2 Ottobre 1963, e sono stato ordinato sacerdote nel mio paese natale il 23 Dicembre 1965.
Il mio primo impegno è stato quello di animatore missionario a Gambettola (Forlì Cesena) nel periodo 1966-1972, e a Marina Palmense (Ascoli Piceno) dal 1972. Il 31 Gennaio 1977 sono partito per il Sudafrica dove ho prestato il mio servizio a Piet Retief, poi a Evander (1978-1982), a Ermelo (1982-1991) e a Damesfontein (1991-92). Nell’Ottobre 1992, per motivi di salute e di sicurezza, sono ritornato in Italia, a Gambettola. Ripartito per il Sudafrica nel 1996, ho trascorso un anno in Pretoria e poi sino al 2011 nel Kwa-Zulu Natal, nella missione di Osizweni. Rimpatriato, mi sono fermato un anno a Galatina, e ora, da due anni, sono a Martina Franca (Taranto) come animatore vocazionale.
Perché hai deciso di diventare missionario e, soprattutto, perché della Consolata?
Ricordo che a 5 anni desideravo già fare il chierichetto e andare dai «negretti». Appena ricevuta la prima comunione, la mia richiesta fu: «Gesù, fa che io diventi un grande e gioioso missionario. Ma un po’ meno grande di San Paolo e Francesco Saverio». Nel frattempo, ogni tanto veniva in parrocchia padre Franco Farina, missionario della Consolata, che ci narrava avventure missionarie.
Terminata la quinta elementare, nell’Ottobre del 1950 andai al seminario di Rovereto. Così iniziai la mia avventura meravigliosa.
Mia madre era entrata, giovane ragazza, come postulante tra le Suore Comboniane, e fu poi incoraggiata a lasciare perché troppo gracile. In seguito, nel 1939, quando io non avevo ancora un anno, in paese scoppiò un’influenza che portò ben sette bambini alla morte. Tra i bimbi ammalati c’ero pure io: la mia mamma si recò in chiesa a pregare e accese una candela alla Madonna. Il giorno seguente il dottore tornò a visitarmi e mi dichiarò fuori pericolo. Dentro di me ho sempre avuto la certezza che in quel frangente la mia mamma mi abbia consacrato a Maria e alla missione, realizzando in me il suo grande sogno di essere missionaria. Questa certezza e fede mi incoraggia ancora oggi.
Due parole sul paese in cui ti trovi oggi?
A Martina Franca seguo con gioia i gruppi del nostro Centro, e dò una mano, come vicedirettore, al Centro missionario diocesano. I nostri giovani mi dicono: «Padre, questa è la nostra casa. Il beato Allamano è il nostro Padre Fondatore. La Madonna Consolata ci appartiene. La nostra vita è la missione».
La mia soddisfazione più grande è la dedizione con cui gli animatori si mettono al servizio degli altri. Per me poi aiutare i giovani è un’esperienza meravigliosa. La auguro a tutti gli animatori, specialmente ai missionari che hanno già fatto anni di missione, e che devono superare la tentazione di vivere in credito.
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
Era il 17 Agosto 1978. In missione ero solo. Andai a dormire presto, ma verso le 22 un bussare forte mi svegliò. Mi avvicinai alla porta e chiesi chi era. «Padre, abbiamo un bambino molto ammalato, per favore, ci aiuti a portarlo all’ospedale!». Allora aprii e mi trovai di fronte due uomini mascherati e armati di coltello e pistola: «Siamo venuti per ammazzarti, ma prima dacci tutti i soldi!». Risposi: «Purtroppo avete sbagliato casa. Voi cercate di notte quello che io non trovo di giorno!». D’improvviso vidi luccicare davanti a me il coltello che dall’alto mi voleva colpire. Istintivamente cercai di difendermi e fui ferito alle mani e al naso. Poi l’uomo che mi aveva colpito mi ordinò: «Girati, e tieni le mani in alto». Obbedii e subito sentii la lama del coltello nella schiena. In quel momento mi vidi morto per terra in una pozza di sangue, e vidi i miei famigliari piangermi. Nel medesimo tempo m’invase una gioia indescrivibile.
Quando mi resi conto che ero ancora vivo dissi: «Perché mi hai colpito? Se avete bisogno di aiuto venite di giorno». Lui non rispose, e i due scapparono via. A quel punto dissi: «Questa volta vi perdono! Ma se ritornate un’altra volta troverete un’accoglienza diversa!». Subito corsi a chiamare i vicini che mi portarono dalla polizia, e poi all’ospedale. Il dottore mi mise tre punti alla schiena e mi disse: «Padre sei fortunato. Il coltello ti ha ferito, ma non ha bucato il polmone». Pur essendo scioccato, dissi: «Grazie, Signore, che mi dai ancora tempo per lavorare nella tua vigna».
Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione del futuro? E come pensi di affrontarle nel tuo ambiente?
Devo inviare un grandioso grazie a Papa Francesco che con semplicità ci addita la grande sfida della “missione” di oggi: le periferie.
Quante «periferie» a Martina Franca, a Taranto e nei paesi circostanti!
Per affrontare la sfida delle periferie, cerco di non far mancare agli animatori la mia vicinanza, i consigli e l’arricchimento della Parola di Dio.
Credo fortemente nell’azione dello Spirito Santo che opera oltre le mie possibilità.
Che cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata?
Ricordo con gioia lo scorso anno vissuto con i gruppi del nostro Centro. È stato un anno ricco. Ho visto crescere la comunione negli animatori e in tutti i ragazzi e giovani che ci frequentano. È stato l’anno dell’Allamano’s way. Cosa offrire di meglio dell’Allamano che ci dice: «Ci vuol fuoco per essere missionario!», «non dire mai: non tocca a me!». I giovani del gruppo GeM hanno tradotto così: «Ci metto la faccia!».
Cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
Sentirci giovani tra i giovani. Vivere le esperienze dei giovani con loro.
Che frase, slogan, citazione proporresti ai giovani dei nostri centri missionari, e perché?
«Non dire mai: non tocca a me!». È uno slogan rivoluzionario. Io l’ho sperimentato in missione: ti mette al muro e annulla ogni alibi, ogni scusa. Ti apre una strada da percorrere e ti dona la forza del «ripartire e ritentare sempre!».
di Luca Lorusso
Luca Lorusso
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