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Co esistere «di vero cuore»

Terza e ultima puntata sul Multiculturalismo secondo Paolo di Tarso.

«I Giudei rimangono Giudei, e i Gentili rimangono Gentili, pur essendo tutti membra dello stesso corpo di Cristo, quindi chiamati in qualche modo a co-esistere».

Paolo è alla ricerca di una soluzione che permetta alle differenti culture e tradizioni delle sue comunità, sparse nell’Asia Minore, di sentirsi unite. A tale scopo egli usa la locuzione «corpo di Cristo». Per Paolo è chiaro che Giudei e Greci hanno uguale accesso alla salvezza e usa la metafora del corpo in riferimento all’Eucarestia: «Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo? Siccome vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane» (1Cor 10,16-17).
membra di Cristo
A proposito della lettera ai Corinti appena citata, bisogna fare due annotazioni. Tutti i doni speciali che i Corinti avevano ricevuto dovevano essere usati «per il bene comune» (1Cor 12,7). In secondo luogo i discepoli dovevano eliminare le fazioni createsi all’interno della comunità (cf. 1Cor 1,12) allo scopo di sentirsi tutti membra dello stesso corpo. Per Paolo l’unità era una decisiva e nuova realtà che richiedeva l’abdicazione della propria origine, cultura e tradizione. Parlando del corpo di Cristo, egli non si riferisce semplicemente ai membri di una società governata da un comune obiettivo, ma alle membra dello stesso Cristo.
La metafora della comunità cristiana come «corpo» si ritrova anche in Romani 12. Nei capitoli 9-11 Paolo affronta il problema della fedeltà di Dio alle promesse fatte ai Patriarchi: egli cerca di dimostrare come Dio sia rimasto fedele. Tuttavia al capitolo 12 Paolo passa dalla categoria «Israele» a quella di «corpo di Cristo». Per le comunità cristiane provenienti dal paganesimo infatti era difficile identificarsi con Israele. Quella del corpo, e precisamente del corpo di Cristo, per essi era un’immagine più efficace.
Paolo è partito dal domandarsi: come possono gli abitanti di Misia, Bitinia, Cappadocia, Cilicia, Ponto e Galazia sentirsi uno in Cristo pur avendo lingue, culture e tradizioni diverse? Il problema è attuale ed emerge continuamente non solo in terra di missione.
Ma le differenze
rimangono
Come soluzione al problema, alcuni hanno fantasticato su una specie d’identità transnazionale che abbracci tutti, altri su un’identità ibrida che risulta dall’unione con Cristo.
Il problema è: come si può pensare che differenze di lingua, cultura e tradizioni evaporino solo perché «si è in Cristo»? Bisogna riconoscere che la co-esistenza di persone di diverse culture, nonostante siano  membra del corpo di Cristo, è una tremenda sfida. Soprattutto nell’odierno mondo globalizzato. È una sfida anche per tutte quelle congregazioni religiose di composizione internazionale che si dilettano a parlare di «unità nella diversità», credendo che tale situazione sia un’opportunità per un reciproco arricchimento. Abbiamo la sensazione che costoro si stiano illudendo.
Con onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che Paolo non risolve il problema, perché a più riprese afferma che le differenze tra le culture e tradizioni rimangono, anche dopo la «trasformazione in Cristo»: i Giudei rimangono Giudei, e i Gentili rimangono Gentili. Chiamati in qualche modo a co-esistere.
Spirito santo e cuore
A nostro modesto avviso sembra comunque che Paolo offra le linee di soluzione del problema. Il primo suggerimento è di riempirsi dello Spirito Santo quale forza energizzante che può realizzare una genuina unità in Cristo. Quanto Paolo suggerisce circa lo Spirito Santo non riguarda un’entità (come una Congregazione), ma una esperienza personale dello Spirito. Secondo l’Apostolo quello che tiene uniti i credenti non è la mera appartenenza a una congregazione, ma la comune, genuina, autentica esperienza dello stesso Spirito. Solo tale comune esperienza garantisce una reciproca comprensione e accettazione. In assenza di tale esperienza non si potrà mai avere la stessa mente di Cristo e lo stesso suo amore (Filippesi 2, 2).
Il secondo suggerimento si può desumere dalle sezioni parenetiche della lettera ai Romani e della prima ai Corinti. Nelle sue lettere Paolo non produce proposte ideali, egli non è un sognatore, ma è, anzi, cosciente delle difficoltà di convivenza di diverse culture e tradizioni. Per questo motivo nella lettera ai Romani la sua visione dei cristiani come corpo di Cristo è subito seguita da una esortazione riguardante l’amore: «La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rom 12,9-10). Nel capitolo tredicesimo della stessa lettera, egli presenta il grande principio dell’amore come sintesi della legge: «Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge… e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso… pieno compimento della legge è l’amore» (Rom 13,8-10). E nel capitolo quattordicesimo esorta i Romani ad avere carità verso coloro che sono deboli nella fede e verso coloro che nella comunità la pensano diversamente.
Ritroviamo la stessa enfasi sull’amore nella prima lettera ai Corinti: dopo aver discusso ampiamente la metafora del corpo di Cristo al capitolo 12, al capitolo 13 Paolo offre il suo stupendo inno sulla carità. L’Apostolo non parla di atti di carità, ma di un’attitudine interiore. Infatti, egli afferma: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (13,3). Paolo non identifica l’amore con gli atti di carità: per capire cosa intende per «carità» dobbiamo rifarci a quanto lui stesso dice in Rom 12,9: «La carità non abbia finzioni». L’espressione «non abbia finzioni» traduce il greco anypokritos, che significa «senza ipocrisia». La stessa espressione ricorre anche in 1Pt 1,22: «Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente (anypokritos) come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri». La lettera di Pietro ci aiuta a capire cosa sia l’amore di cui parla Paolo. Si tratta di un amore che proviene dal cuore.
nel santuario
del cuore dell’altro
Si può, quindi, concludere che non interessa l’etnia a cui si appartiene, neppure importa di quale cultura e tradizione si sia: un’autentica unità diventa effettiva e produttiva solo se si è accolti nel santuario del cuore dell’altro. Non si accoglie dunque la cultura o la tradizione, ma si accoglie la persona come tale. A questo livello due persone, due interiorità, si svelano l’una all’altra al fine di una reciprocità di amore. Secondo il pensiero di Paolo, solo con una comune e genuina esperienza dello Spirito e una carità proveniente dal cuore, diverse culture e tradizioni potranno co-esistere.

di Antonio Magnante

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