Slow page dei Missionari della consolata

Tutto inizia da una domanda

«Sei felice?». La prima volta che qualcuno me l’ha fatta ho esitato: «In che senso felice?».

«Sei felice?», è una domanda che ci si pone. Consciamente o inconsciamente. La prima volta che qualcuno me l’ha fatta in modo diretto ho esitato: «In che senso felice?». Non l’allegria o il divertimento fugace, ma la gioia piena. Quella che deriva dal sentirsi bene nella propria vita con la consapevolezza di quale sia la propria vocazione… ecco la parola: vocazione. Oggi si ha quasi paura di pronunciarla. «È roba da bigotti! Non voglio mica farmi suora, o prete!». Chiariamolo subito: la vocazione è per tutti. Non è solo quella alla vita consacrata. È la ricerca del proprio posto nel mondo, di quello che si può fare e si vuol essere, è fare della propria vita un progetto e impegnarsi per realizzarlo. È scoprire che il nostro progetto coinvolge anche gli altri che diventano non solo amici ma compagni di cammino.
Tutto inizia con una domanda sulla nostra vita. Con un’inquietudine che non ci spieghiamo e che ci spinge a cercare finché non troviamo ciò che per noi è «casa», ciò che ci cambia trasformando la nostra inquietudine in pienezza. La vocazione è una questione di amore. È sentirsi così infinitamente e teneramente amati da voler donare tutto. E allora le domande svaniscono e ci si scopre già nel coinvolgimento del «sì». Vocazione è venire chiamati e lasciarci lentamente possedere e abitare da quel Signore che quando entra non esce più. Incontriamo le persone giuste al momento giusto che attirano, sfidano, e guidano e, fra esitazioni, resistenze, tentennamenti lo scatto comunque accade e finalmente ci accorgiamo di non poter scegliere altro, di essere come «posseduti», di essere abitati da Lui in un modo misterioso!
Uno allora si appassiona della missione, della vita in comune, degli altri. Comincia a sognare, a vivere intensamente. È l’esperienza dell’ultima cena, momento fondante del sacerdozio ministeriale e di ogni consacrazione, quella in cui Gesù dona il suo corpo e il suo sangue ai suoi discepoli. Nel momento in cui dice: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», Gesù fa la stessa identica esperienza, ma al contrario. Egli sente fortemente che non appartiene a se stesso. E non solo il suo spirito, i suoi insegnamenti, la sua missione, ma anche il suo stesso corpo non è più suo. O meglio, diventa più suo quando diventa dei suoi discepoli. Gesù sente in sé che ormai appartiene a loro. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Questo sono io!». Lui vivrà in loro per sempre e loro apparteranno a lui, anche fisicamente. È per questo che l’eucarestia è sorgente di vocazioni: perché è lì, nel cenacolo, che il Signore condivide con quelli che ha scelto l’esperienza di appartenenza.
La promessa vocazionale è grande. Si ha la consapevolezza che le sorprese del Signore non mancheranno e che la vita, la missione, può portare lontano. È così che il Signore riempie la solitudine del chiamato, la quale diventa una beata solitudine. È per questo che chi viene chiamato comincia a cercare i propri spazi di preghiera. La vita frenetica di prima non gli va più e non lo riempie. Il chiamato è generoso, attivo e creativo, ma la donazione agli altri non è cercata per se stesso, e non è il fattore che riempie i suoi giorni. A riempire la vita è quella beatitudine, quella pace interiore che trabocca dal silenzio della preghiera e dell’ascolto della Parola.

di Francesca Alassia e Nicholas Muthoka

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Francesca Allasia

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