Slow page dei Missionari della consolata

E poi, soltanto un uomo

Nel centro della stanza c’era un tavolo con un mucchio di libri, fogli sparsi, appunti… Avrei dovuto riorganizzare l’archivio parrocchiale.
Dietro una tenda c’era il gabinetto: un water fissato con cemento al suolo, nell’angolo una piccola conca con dell’acqua e una zucca tagliata per la metà, utile per rovesciarmi l’acqua e fare la doccia.

[…] Avevo aperto la porta che dava sulla strada per avere un po’ di luce e per fare entrare un po’ di aria.
Mi stava prendendo la delusione. Mi fermerò per davvero alcuni anni?
Si affacciò alla porta un bambino, si guardò intorno, mi vide, mi salutò appena. Esplorò la stanza, tirò la tenda, esaminò il water, la piccola vaschetta con l’acqua e poi venne verso di me con la faccia compiaciuta.
– Che bello, qui – mi disse.
Mi vergognai di me stesso. Ringrazierò per sempre quel bambino. Mi ha insegnato a vedere.
(dalla quarta di copertina)

autore: Testa Gianfranco
editore: Araba Fenice
pagine 256
pubblicazione 2011
€ 15,00

L’autore padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata, è nato a Bra (Cn) nel 1942. È stato ordinato sacerdote nel 1967. Dopo alcuni anni trascorsi nel seminario di Biadene-Montebelluna è partito, come missionario, per l’Argentina. Al suo ritorno in patria nel 1978, si è dedicato all’animazione missionaria per poi ripartire per il Nicaragua e, finalmente, per la Colombia. Ritornato in Italia nel 20009, da allora si sta dedicando alla pastorale e all’animazione soprattutto nell’aspetto del Perdono e della Roconciliazione.

PREFAZIONE DI DON LUIGI CIOTTI
E poi, soltanto un uomo, titola il libro di padre Gianfranco Testa, laddove quel «soltanto» non indica parzialità o diminuzione ma, all’opposto, sottolinea la centralità del sostantivo. Una storia vera, di fede, lotta e speranza, aggiunge il sottotitolo, rafforzando a sua volta quella parola: uomo. Perché caratteristica fondamentale dell’umano è anche quella di provare fede, vale a dire di credere e di avere fiducia, di nutrire speranze e aspettative nel futuro. E poi – non sembri strano, per di più parlando di un sacerdote, associare questa dimensione alle virtù teologali – quella di lottare, ovvero di impegnarsi a fondo, con passione, sacrificio e dedizione, affinché la fede riesca a incidere sulla realtà delle cose, contribuisca a migliorarla e, nello stesso tempo, sia capace di cambiare l’uomo stesso, perché la vita e l’essere vivente si nutrono vicendevolmente e crescono assieme.
Una storia vera: non appare superflua la specificazione sulla veridicità delle vicende che padre Testa qui ci racconta. Sono talmente fuori dall’ordinario che qui siamo abituati a vivere, talmente avventurose, che potrebbero parere frutto di invenzione letteraria. Specie a un lettore giovane, che non ha memoria diretta di che cos’è stato il mondo del secolo scorso e di quanto intere aree del pianeta – per prime, guarda caso, quelle in cui Gianfranco ha svolto la sua trentennale missione – fossero segnate dal sottosviluppo, dalla miseria, dall’ingiustizia e anche dalla violenza delle dittature militari e da una conseguente e faticosa resistenza, prima dei singoli e poi dei popoli.
Una dimensione estremamente dura e difficile, nella quale non deve essere stato per nulla facile abituarsi per quel giovane prete partito da Bra, in provincia di Cuneo. Ed è appunto qui che la fede dimostra la sua essenzialità: essa non è solo dialogo con l’eterno, relazione con Dio. È anche verità che consente di vedere e di affidarsi, di comprendere e di farsi capaci.
Gianfranco arriva in Argentina, nella provincia del Chaco, nel 1972. Quell’anno, ci racconta, il 15 di agosto un gruppo di prigionieri politici tenta la fuga dal carcere di Rawson. Per sei di loro l’evasione ha successo. Gli altri 19 si arrendono, vengono condotti in una caserma e il mattino seguente fucilati, solo tre sopravvivranno. Padre Testa riferisce che, secondo analisti e commentatori, questo è da considerarsi il primo atto di un "terrorismo di stato". Una pratica costante di violenza istituzionale, di lesione sistematica dei diritti umani, di assenza di tutele giuridiche che per decenni ha insanguinato molti Paesi del Sud e del Centro America, provocando anche opposizione e guerriglie armate, e che Gianfranco da allora ha conosciuto da molto vicino. Scegliendo di "sporcarsi le mani" con la realtà, in mezzo al popolo e insieme alla gente, ai movimenti delle Leghe agrarie, talvolta anche in dissidio con le autorità ecclesiastiche. Decidendo di portare Cristo per le strade, anziché limitarsi a pregarlo nel chiuso delle chiese (anche se le cappelle dove si celebrava la Messa, in verità, erano «un tavolino come altare, qualche tronco d’albero come sedile, l’immagine del santo patrono»). Accettando il rischio e pagando i prezzi della coerenza. Coerenza non con astratte idee politiche, ma col messaggio del Vangelo.
Inevitabilmente, la scelta di Gianfranco lo porta rapidamente a non essere ben visto dalle autorità del luogo. Come ci racconta già nelle prime pagine: «Rimasi una volta, per solidarietà con i contadini trattenuti per accertamenti, nel posto di polizia di Machagai. Per me era un semplice modo per stare vicino a chi era perseguitato; servì, invece, per accentuare i sospetti sul mio operare».
Tacciato di sovversivismo, padre Testa dimostrava solamente di essere fedele alla parola di Dio, al senso di giustizia e alla semplicità di cui ci dice il Vangelo di Matteo con il Discorso della Montagna e le Beatitudini. Il posto di un cristiano è là dove vi sono perseguitati a causa della giustizia, i suoi compagni di strada non possono che essere coloro che di giustizia hanno fame e sete. L’elogio della mitezza non si traduce in invito alla rassegnazione. All’opposto, Gianfranco sa che la passività è un regalo a chi dell’ingiustizia ha fatto un sistema di oppressione e che dunque talvolta occorre anche lottare per affermare i diritti negati e per opporsi alla sopraffazione, pur senza smarrire mai il senso dell’umano, stimolando consapevolezza e significato dell’essere insieme: «Era necessario prendere coscienza dei propri peccati e di quelli della società. I primi si vincono con la conversione, l’educazione, con l’impegno per lasciare da parte la pigrizia riguardo ai difetti; i secondi si vincono con la formazione di una coscienza della comunità, che non può accettare ciò che avviene, come se fosse una calamità». Ai poveri è promesso il Regno dei cieli ed è accordata la preferenza del Signore, ma questo non significa tollerare che essi siano umiliati e violentati sulla terra.
Qui Gianfranco rileva l’importanza della cultura e dell’educazione, il contrasto dell’analfabetismo – a quei tempi e in quei luoghi predominante -, seguendo la pedagogia di Paulo Freire. I processi educativi orizzontali, il possesso delle parole sono l’inizio della liberazione: «L’educazione ci ha aperto una porta, che non si chiude più». Ma ha anche cognizione del fatto che la libertà è una conquista impegnativa e un percorso faticoso, giacché «la nostalgia per la schiavitù è una tentazione continua» e stante che talvolta libertà e tirannia si confondono, specialmente se la libertà cala dall’alto: «Un pericolo grande è, inoltre, quello di mettere la fiducia in qualcuno, che ci possa liberare: un politico, un presidente, un leader… La libertà si trova invece nel cuore del popolo, della gente».
Un’avvertenza di cui, forse, dovremmo tenere adeguato conto anche noi, anche oggi, anche qui. In questa Italia dove la delega a una politica sempre più separata dalle necessità della gente, a una politica mediatizzata e populistica, si impasta ormai a un sentimento diffuso di antipolitica che, per quanto motivato, produce una miscela pericolosa per la democrazia. E, paradossalmente, nuova delega anziché partecipazione e consapevolezza.
Il racconto di Gianfranco ci richiama, pagina dopo pagina, alla radicalità di ciò che è vero, ed è vero perché trae la sua linfa dal basso, dalla terra, dalle cose semplici, dalla vita degli umili, dalla genuinità dei sentimenti. Radicalità, verità ed essenzialità si nutrono infatti vicendevolmente.
Ciò che noi diamo per scontato, come la democrazia (rischiando così di avvilirla e corromperne i fondamenti), nell’esperienza di padre Testa e per la gente con cui ha scelto di condividere il cammino è conquista quotidiana. Che talvolta illude e delude, com’è stato in quegli anni in Argentina, con il prevalere dell’anima populista e reazionaria del peronismo. Nel giugno del 1973, poco prima che il golpe in Cile spodestasse sanguinosamente il legittimo presidente Salvador Allende, Perón tornò in Argentina e, racconta Gianfranco, «abbracciò la via più sicura, quella della destra fascista e della mano dura con la sinistra». Le speranze del popolo vennero frustrate, mentre «la tentazione delle armi c’era in molti, soprattutto nei giovani, che si sentivano traditi».
«È un momento drammatico per chi ama la libertà e la giustizia per i più poveri», conclude padre Testa, che ci dice della drammaticità di ciò che venne dopo e che denuncia silenzi e connivenze, con parole dure ma di verità: «Eppure a molti gerarchi ecclesiastici piaceva quel secondo termine, così aperto ed evidente, racchiuso nello slogan delle tre A: Alleanza Anticomunista Argentina».
Un’alleanza voluta dal consigliere più ascoltato di Perón, López Rega, che poi ritroveremo nelle liste della Loggia P2 di Licio Gelli, a dimostrazione di quanto è piccolo il mondo e di quanto stretti sono i rapporti tra chi fa della politica un semplice strumento di potere e di arricchimento, anche al prezzo di immani tragedie: «Attraverso bande e organizzazioni paramilitari al servizio del potere politico realizzò omicidi e sequestri degli oppositori al regime di turno, fino a creare le condizioni per la guerra sporca dei generali, il cui frutto più noto sarà quello dei 30.000 desaparecidos in sette anni». A lungo Perón e, dopo la sua morte, la moglie Isabelita e poi i generali terranno l’Argentina sotto il sanguinoso tallone di ferro della dittatura militare.
Anche in quella difficile e pericolosa situazione, Gianfranco sa da che parte deve stare, per non smarrire la sua umanità, il suo senso della giustizia e anche la sua fede: dalla parte delle vittime, contro il potere. Accettando il rischio, che in quel caso è una certezza. E infatti finisce arrestato e torturato.
Il giovane prete di Cuneo in poco tempo si trova a essere testimone di immani violenze e ingiustizie, protagonista della ribellione, tanto da essere considerato anch’egli un «sovversivo», e vittima egli stesso. Come nuovo abito talare si ritrova a indossare, con dignità e orgoglio, la tenuta da prigioniero. «Il giorno dopo il colpo di stato, arrivò il vescovo di Resistencia monsignor José Agustin Marozzi. Si preparò per la Messa, volle che il padre Joaquín e io celebrassimo al suo fianco. Lui aveva gli abiti liturgici, noi i vestiti dei carcerati, ma partecipammo in tutta la funzione».
Ma per un vescovo che assisteva i carcerati, seguendo il senso di umanità e le esortazioni evangeliche, riferisce Gianfranco, ve ne erano altri che non avevano difficoltà nell’appoggiare la Giunta militare e la sanguinosa repressione. Come «monsignor Tortolo, presidente della Conferenza Episcopale, che diceva: "Dios está redimiendo, mediante el Ejército, a la nación argentina"; "El país se encuentra en una guerra santa en defensa de Dios y en contra de los enemigos de la patria"» (Dio sta redimendo, grazie all’Esercito, la nazione argentina; il paese si trova in una guerra santa in difesa di Dio e contro i nemici della patria).
Annota padre Testa: «Non ho mai compreso, né allora e neppure adesso, come si possa fare un uso così criminale della parola di Dio, senza che nessuno intervenga. Appena un teologo mette in discussione qualche espressione dogmatica, subito le autorità scattano per difendere la pienezza della fede. Qui non era compromessa solo la fede, ma la vita di migliaia di persone». Non c’è polemica o astio nelle sue parole, semmai stupore per come la fede e la parola di Dio possano essere pervertite e messe al servizio di un potere disumano.
La fede è, infatti, sempre rimasta al centro dell’esperienza di Gianfranco, sostegno e faro anche nei momenti più difficili. Come quando, lui in cella, gli comunicano la morte del padre. O come quando, incappucciato, lo portano su uno dei famigerati "voli della morte", con i quali i militari uccidevano prigionieri e oppositori, scaraventandoli dall’alto nell’oceano. Nel suo caso, ciò, all’ultimo istante, non è avvenuto; forse intendevano solo terrorizzarlo, forse è intervenuto all’estremo un contrordine. Riflette Gianfranco, citando l’episodio: «Ancora una volta si diventa piccoli, essenziali, ci si prepara all’incontro con il nucleo più profondo e vero della propria vita. Chi ha fede lo chiama Dio, gli altri gli daranno un loro nome, ma c’è una radice di spiritualità, che fa dare un senso al vivere e al morire». Certamente, il Dio che assiste e accompagna Gianfranco in quegli anni di calvario e sofferenza non è lo stesso cui si rivolge il capo dei torturatori, il generale Videla, di cui si diceva facesse la comunione tutti i giorni.
Padre Testa non fu l’unico sacerdote a vivere quella via crucis. Nel suo peregrinare carcerario, in una delle prigioni si ritroverà con una dozzina di altri preti detenuti. Con loro trascorrerà l’ultimo periodo prima di una scarcerazione che rimarrà incerta sino all’ultimo, con la paura che anche a lui potesse toccare quello che succedeva a molti: scarcerati, venivano rapiti appena fuori dal carcere, uccisi e fatti scomparire.
Infine, dopo quattro anni e otto mesi, nel 1978, Gianfranco viene condotto fuori di cella per tornare in Italia. Per lui è intervenuto il presidente Sandro Pertini: «Pertini, vecchio lottatore per la libertà, fu l’unico personaggio istituzionale italiano a denunciare gli orrori dei militari». Ma anche la sua gente non si è dimenticata di lui: «Padre Mario mi racconta di più di 20 mila firme raccolte alla porta delle chiese, delle discoteche, delle scuole, dappertutto nel cuneese».
Arrivato alla scaletta dell’aereo, sotto la scorta dei poliziotti, infine Gianfranco varca l’invisibile confine che lo riporta all’Italia, e alla vita: «Salii. Non guardai indietro. Non lo faccio mai». E forse questo rivolgere lo sguardo sempre avanti costituisce il nutrimento della speranza, il carburante del cammino, la propensione al cambiamento.
Tornato in Italia, a Torino con il cardinale Ballestrero e il vicario monsignor Peradotto, con le Missioni della Consolata, Gianfranco traduce la sua esperienza in testimonianza nelle scuole, tra i giovani e i parrocchiani, in attività educativa, in percorsi di solidarietà internazionale. Ma, in realtà, non dimentica l’Argentina. Ci torna vent’anni dopo, nel 1998, da direttore di una rivista missionaria. Rivede sacerdoti e amici, possiamo immaginare con quale impasto di sentimenti e di sofferenze che riaffiorano. Ma, ancora una volta, capisce che è al futuro che bisogna guardare: «Mi sono sentito come un Jurassic. Io ero fuori dal tempo, mentre la storia era andata avanti. Bene o male era andata avanti, anche se non con tutte le ferite chiuse o i problemi risolti. Forse ho fatto male ad andare fin là. Almeno a me ha fatto male. È meglio non girarsi indietro, mai».
Nel frattempo, la «fede, lotta e speranza» che ha sempre guidato la sua vita e i suoi passi aveva conosciuto un’altra lunga tappa, dal 1984 al 1992: il Nicaragua. A pochi anni dalla cacciata del dittatore Somoza e della vittoria del movimento sandinista, è un paese in ricerca e in costruzione «dove tra cristianesimo e rivoluzione non c’è contraddizione». Qui vivrà la sua missione per otto anni, in un territorio e tra popolazioni poverissime, di nuovo in mezzo ai rischi, con la controrivoluzione sempre all’opera e in agguato, con morti e sparatorie, con le difficoltà del governo sandinista impegnato a costruire un «socialismo dal volto umano» ma quotidianamente sabotato e aggredito dalle forze reazionarie sostenute dagli Stati Uniti.
«La guerra di aggressione fu costosissima in termini di vite umane, 57 mila fra morti e feriti e distruzioni materiali. Ma soprattutto il governo sandinista non poté governare con una certa serenità», riassume padre Testa. Peraltro, anche la Chiesa «manteneva un atteggiamento non proprio cordiale verso la Giunta di Governo», nonostante che sacerdoti e comunità cristiane di base avessero stretti rapporti e collaborazione con le autorità sandiniste e fossero spesso contaminati dalla passione rivoluzionaria che stava tentando di cambiare il paese, cancellando antiche ingiustizie. Simpatie e speranze che anche Gianfranco condivise: «Del sandinismo ho sempre apprezzato alcune affermazioni come: "cercare il bene della maggioranza povera della popolazione" o "vogliamo progredire in povertà, non ci interessa il modello economico dei paesi ricchi". Queste poche affermazioni e lo sforzo per realizzarle, per me, giustificano quell’esperienza». Gli errori del sandinismo, tuttavia, non gli sfuggono, portandolo talvolta ad assumere uno sguardo critico. Ma i tanti poveri assassinati, le stragi che continuano a opera dei contras non gli lasciano dubbi su dove è Gesù Cristo, su qual è la parte giusta in quella dolorosa guerra dove c’era comunque una libertà ottenuta con sangue e fatica da difendere: «In Argentina, il libro della Bibbia che aveva accompagnato e guidato il lavoro pastorale era quello dell’Esodo, il libro della liberazione. Qui, in Nicaragua, non serviva più. Ormai il faraone se ne era andato, anzi era stato ucciso in Paraguay. È vero che c’erano altri nuovi oppressori, che attaccavano da fuori, ma qui c’era una libertà conquistata e mantenuta a caro prezzo».
Nel suo stare con gli oppressi e con i poveri, Gianfranco non fa però confusione su quali siano i suoi riferimenti. Una volta, dopo essere stato in Guatemala per trovare gli amici torinesi don Piero, don Francesco e don Marino, viene fermato da militari alla frontiera honduregna. Gli chiedono chi è, cosa faccia lì. Lui risponde: sono un prete. «Ah. Un prete sandinista. Lei è di quelli che stanno con la rivoluzione», ironizzano le guardie. E lui, sereno e fermo: «Io sto con il mio vescovo».

Dal Nicaragua Gianfranco svolgerà anche missioni riservate in Salvador, dove invece l’oppressione permane, per aiutare le realtà ecclesiali di base, in un quadro di solidarietà; lì conosce monsignor Rivera y Damas, l’arcivescovo, successore di Oscar Romero, il vescovo assassinato dalla dittatura mentre celebrava la Messa nella sua chiesa. È quella la Chiesa che Gianfranco sente e riconosce profondamente, quella che rischia il martirio per restare fedele al Vangelo. Quella che non abbandona i poveri né per paura né per le lusinghe dei potenti. Quella che non stringe la mano a chi opprime sanguinosamente il popolo. La Chiesa cui Gianfranco ha dedicato la sua vita in Argentina, in Nicaragua e poi in Colombia, così come nei paesi piemontesi e nelle periferie torinesi.
Una Chiesa che promette salvezza e redenzione e che difende dignità e giustizia, che promuove e realizza liberazione. Liberazione: è questa, forse più di altre, la parola chiave, il valore supremo, il riferimento etico prima ancora che sociale e politico, il faro luminoso grazie al quale Gianfranco ha seguito, passo dopo passo, il suo percorso.

Ciò che queste pagine ci raccontano, con la semplicità della sincerità e il coinvolgimento della vita vera e intensa, non è materia polverosa da libri di storia. È purtroppo ancora materia attuale e drammatica, come ci riferiscono le cronache anche dei giorni recenti.
La Colombia è il paese dove padre Testa ha compiuto la terza tappa del suo lungo viaggio, dal 1992 al 2009. Alle prese con problemi assai diversi, con la realtà del narcotraffico e della guerriglia, impegnato con i Bambini di guerra, con l’educazione dei giovani e con l’assistenza ai malati di AIDS, sui temi del perdono e della riconciliazione. Ma anche lì con la presenza quotidiana e minacciosa della violenza e della morte. Una presenza terribile e invasiva che non risparmia nessuno, neppure oggi.
Il primo settembre 2011 è stato infatti assassinato in Colombia il giovane sacerdote Reynel Restrepo. Era impegnato contro i progetti di una multinazionale di estrazione aurifera che prevedono lo sconvolgimento di pezzi di territorio, con lo sfollamento forzato di interi paesi e la conseguente distruzione dell’habitat in cui vivono popolazioni locali.
Pochi giorni dopo, in un’altra zona della Colombia, anche padre Gualberto Oviedo Arrieta è stato ucciso. Con lui sono già sei i sacerdoti assassinati nel corso del 2011 in quel martoriato paese, oppresso dalle bande paramilitari e dalla criminalità.
Contro quella violenza e quell’affarismo cinico e assassino, protetto da governi e dall’indifferenza di molte istituzioni mondiali, padre Testa ha speso la sua vita. O, meglio, l’ha guadagnata, avendola investita in difesa degli ultimi. Gianfranco ha sofferto molto, ha lottato sempre e sempre ha avuto fede. Ricevendone in premio la consapevolezza e una vita da uomo. Pagando sino in fondo, con serenità, coraggio e consapevolezza, il conto: «Ho conosciuto il meglio del popolo, gli intellettuali più puri, la gente più impegnata, quelli che, dicendo: "Nunca más" sanno che il cammino per la democrazia non è mai finito, che l’anelito per la libertà ha sempre un prezzo».
Questo libro è preziosa testimonianza per quei giovani che la democrazia l’hanno ricevuta in dono dalle mani e dall’amore di chi ha combattuto e si è sacrificato per contribuire a costruirla. Ma è anche un monito per il presente. Perché ora tocca a quei giovani, tocca a noi tutti, difendere quel regalo prezioso, affinché non venga mai meno, non sia mai svilito, non venga svuotato. Perché la democrazia non è un bell’involucro, non può essere una scatola vuota: è una materia viva che richiede manutenzione accurata e quotidiana. Che ci spinge a non sentirsi mai tranquilli e mai arrivati. Che necessita di spirito di comunità e anche di utopie concrete. Come scrive, in conclusione, Gianfranco: «I sogni sono necessari per vivere. Sognando insieme diventano realtà».
d. Luigi Ciotti
 
 
 

di arabafenicelibri.it

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