Slow page dei Missionari della consolata

Vivere vale la pena

Intervistiamo P. Giuseppe (José) Auletta: 35 anni di Argentina, di cui gli ultimi 8 ad Oran, nel Nord del paese. Con la passione missionaria per gli indios.

Perché hai deciso di diventare missionario e, soprattutto, perché missionario della Consolata?
È stata veramente una vocazione! Dio ha voluto che avessi come assistente nel seminario diocesano di Potenza una persona amica di un missionario della Consolata. Quando sono entrato in contatto con lui, è cominciato il feeling, l’amore per la missione.
Poi, in occasione di un raduno nazionale dei circoli missionari che una volta erano presenti nei seminari diocesani, ho fatto un altro incontro significativo: padre Jesus Navarro, un missionario della Consolata spagnolo.

Puoi raccontare brevemente la tua storia missionaria? Dove hai studiato? Quando sei stato ordinato? Dove hai lavorato?
Sono entrato nell’Istituto in occasione del noviziato che ho fatto a Bedizzole negli anni 67-68. Era un noviziato internazionale, e lì c’è stata una prima sfida missionaria: l’internazionalità, l’interculturalità.
Dopo il noviziato ho fatto un anno di filosofia a Rosignano Monferrato, spostandomi poi a Torino, dove ho completato la mia formazione con la teologia. Ho lavorato tre anni nella rivista Missioni Consolata, e in quel periodo mi sono occupato anche di AMICO.
Infine ho ricevuto la prima destinazione: l’Argentina, la missione che svolgo da 35 anni.

Puoi dire due parole sul paese in cui ti trovi oggi? Quali sono le sfide missionarie principali di questo paese?
Sono arrivato in Argentina qualche mese dopo l’inizio della dittatura militare: un professore del Collegio nel quale ho lavorato per due anni a San Francisco di Cordoba in quel periodo è stato costretto a lasciare l’insegnamento e anche l’Argentina. Grazie a Dio non è stato fatto sparire come i trentamila desaparecidos di quegli anni, ma ha dovuto emigrare in Mozambico.
Da allora l’Argentina ha vissuto molti cambiamenti e passi avanti, tra di essi anche quelli che riguardano lo spirito missionario: oggi ci sono diversi preti diocesani argentini che prestano servizio in altri paesi del mondo, ci sono scambi tra diocesi povere dell’Argentina e diocesi povere di altri paesi in Africa o Asia.
Un ambito missionario importante in Argentina è il mondo indigeno, che è quello con cui ho lavorato di più, ed è il mio primo, forte, amore missionario.
Dopo i primi due anni nel Collegio a San Francisco, a cui sono seguiti 5 anni nella rivista e nell’animazione missionaria a Buenos Aires, è arrivata la missione sul campo. Tutte le esperienze fatte prima sono state una preparazione a quel momento: sono partito per il Chaco, dove sono stato per 17 anni. Sono stato parroco a Machagai, e poi ho convissuto per 10 anni con gli indios Tobas nella colonia aborigen Chaco. Con loro ho condiviso molte cose (progetti di infrastrutture, strade interne, centri comunitari, case costruite con l’aiuto vicendevole e l’autocostruzione), tra cui anche la lotta per la terra, conclusasi con il titolo comunitario della terra nel 1996.
Pochi mesi fa sono stato nuovamente in quei luoghi: è stato un impatto emotivamente forte rivedere il mio primo amore che mi ha segnato per sempre.

Che lavoro stai svolgendo oggi? Qual è la difficoltà più grande che incontri? Qual è la soddisfazione più grande?
Dopo i 17 anni nel Chaco, sono stato due anni nel Gran Buenos Aires, a cui sono seguiti gli ultimi otto anni e mezzo a San Ramon de la Nueva Oran. Lì le difficoltà non sono mancate certamente, difficoltà che hanno a che vedere con la realtà sociale complicata frutto di un impoverimento che viene affrontato dai politici in modo populista. C’è una certa insicurezza, giovani che rimangono coinvolti nel giro della droga fin da piccoli… forse la difficoltà, e la pena che mi porto dietro da Oran è di non aver potuto lavorare a fondo con i giovani, nonostante non sia mancato il lavoro con loro: risale a poco tempo fa la costituzione della JMC, Gioventù Missionaria della Consolata, un seme che può far nascere delle domande nel resto della gioventù di Oran.
La soddisfazione più grande è certamente il fatto di aver potuto nuovamente lavorare con gli indigeni attraverso la pastorale sociale della diocesi: mi sono ritrovato con il mio primo amore.

Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
Ciò che di significativo ho fatto è stato imparare. Tanti progetti li ho portati avanti con una mentalità che ho imparato dalle persone incontrate negli anni di missione. L’episodio riguarda il primo periodo di lavoro con gli aborigeni: un giorno, mentre spiegavo loro che ero disposto a salariarli per un certo progetto, uno di loro mi ringraziò e mi disse che il loro contributo sarebbe stato quello di rinunciare alla metà del salario. Da quell’episodio ho imparato che i progetti, perché siano degni delle persone, devono essere pensati non in modo assistenzialista, ma con il coinvolgimento e la diretta partecipazione degli stessi bisognosi.

Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione del futuro?
Penso che una sfida grande della missione del futuro sia quella di riuscire a mettersi alla pari! L’interculturalità, il bisogno di complementarsi a vicenda.
Una volta il missionario credeva di essere colui che faceva tutto. Oggi deve essere uno che si mette alla pari e impara insieme alla gente la missione, che è soprattutto dialogo, ascolto e sentirsi chiamati da un Cristo incarnato nelle diverse culture.

Che cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata? Quali sono le nostre ricchezze che possiamo condividere con gli altri?
Come Missionari della Consolata possiamo offrire al mondo proprio questo: consolare, cioè stare insieme per arricchirci a vicenda, con la caratteristica che il fondatore ci ha instillato: fare il bene senza rumore.

A partire dal tuo contesto, che cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
Saper stare insieme, ascoltare. Uno dei problemi forti dei giovani di Oran è di non avere una famiglia che li supporti, che li aiuti, che li accompagni.
Ricordo un volta in cui, aprendo la porta della chiesa al mattino presto, sentii delle voci senza capire da dove provenissero. Alzando gli occhi vidi due giovani sul campanile: avevano trascorso la notte lì. Chiamai la polizia chiedendo loro di non maltrattare i giovani, e mentre i giovani venivano caricati sulla macchina io chiesi ad uno di loro: “Perché avete trascorso la notte sul campanile invece che a casa?”. E lui mi rispose: “Perché stare in casa dove vedo continuamente i miei genitori discutere?”.

Durante queste interviste chiediamo sempre di suggerirci uno slogan da proporre a tutti i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari. Che frase, slogan, citazione proporresti, e perché?
Credere ancora alla vita: vivere vale la pena. Scoprire che vivere, non solo per sé, ma anche per gli altri, vale la pena, che “donare la vita” ha un ritorno molto più grande.

Di Luca Lorusso

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