Slow page dei Missionari della consolata

Strumenti di pace. Perdono e riconciliazione

La pace è strettamente legata alla riconciliazione, soprattutto quando la violenza imperversa.
Ecco, allora, un breve studio, nato sul campo (Colombia) e dall’esperienza concreta, che può aiutarci a capire meccanismi e risorse per intraprendere la strada (non facile) di costruire una società senza conflitti e capace di perdono.

La «Fondazione per la Riconciliazione» sviluppa i suoi progetti di intervento sociale ed investigazione in Colombia come un contributo agli sforzi che cittadini e cittadine realizzano per la venuta della pace nel mondo. Oggi, la Colombia condivide con il Brasile piani metodologici e linee di investigazione e avanza nella formazione di una rete latinoamericana di informazione e cooperazione per il perdono e riconciliazione interpersonale, comunitario e societario.
A Bogotá (Colombia), sta diffondendosi un’esperienza di perdono e riconciliazione denominata «Scuola di perdono e riconciliazione» (ES.PE.RE. in spagnolo) come un contributo importante per la pace nel paese. La violenza sociale, insieme a quella armata, hanno seminato rabbia e rancore nei colombiani: sentimenti che devono essere compresi e trattati da coloro che si occupano di formare possibili mondi basati su amicizia, solidarietà, giustizia e pace, mondi dove la quotidianità del vivere non faccia soffrire. La novità della Fondazione sta nell’introduzione di un modello di lavoro che rinforza poderosamente i disegni di mediazione, arbitraggio e conciliazione, lavorando in forma diretta sugli odi, rancori e desideri di vendetta che, quando non sono trattati, diventano semi di nuovi e più gravi conflitti.
Gli strumenti teorici e metodologici dell’ES.PE.RE provengono dai lavori di applicazione e investigazione delle scuole del Wisconsin e di Harvard, oltre al contributo di alcuni sviluppi in America Latina ed Europa. I corsi e i laboratori offerti sono orientati a fortificare le strategie di convivenza, sicurezza pubblica e cultura cittadina, generando un gruppo critico di investigatori di agenzie politiche, governative e non governative, nelle aree della famiglia, delle ditte, dell’educazione, nella comunità e nelle popolazioni più vulnerabili.
Si vuole così accompagnare lo sforzo giornaliero di uomini e donne, per costruire l’edificio della vita e della pace.

Guarire il cuore

Nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, Albert Einstein affermava: «Abbiamo guadagnato la guerra, ma non la pace». Sfortunatamente, sono stati necessari gli avvenimenti dell’11 settembre 2001 e la guerra in Iraq, per accordarci un’altra volta sull’espressione famosa dell’ex presidente Clinton: «Non possiamo continuare ad ignorare gli odi accumulati di milioni di persone, in molti paesi del mondo. Con la crescente corsa militarista e il costoso dispiegamento militare di tante nazioni (Stati Uniti in testa) andiamo a scatenare alcune guerre in più; ma, allo stesso tempo, perdiamo l’opportunità che ci dà la storia di guadagnare molta pace. La rabbia, gli odi e i desideri di vendetta si incrementeranno, insieme a violenze di ogni tipo.
Davanti a questo conflitto drammatico che si vive in molti paesi del mondo, dobbiamo scegliere tra una barbara opzione armata, o una saggia alternativa che favorisca la pace».
I conflitti e la violenza non si risolvono con altra violenza o con azioni militari. Possono essere soluzioni temporali, ma non le uniche.
Le guerre nascono nel cuore delle persone e dei popoli ed è lì che bisogna cercare le soluzioni. Nel secolo appena trascorso, più di 200 milioni di persone (la gran maggioranza di esse, cittadini indifesi) sono stati massacrati con le guerre, le rivoluzioni e i conflitti politici, religiosi ed etnici, senza menzionare le vittime della delinquenza comune, sempre più numerose. La violenza è diventata non soltanto un fatto comune sui campi di guerra, ma anche per le vie delle città e nelle case.
Nonostante i più impressionanti risultati della scienza e della tecnologia, l’umanità non ha potuto trovare ancora un rimedio effettivo contro la violenza, l’odio e la vendetta che ci avvolgono dovunque. Qual è la causa-radice di tale tragedia? Perché la violenza sembra aumentare in quantità e intensità?
«Non c’è futuro senza perdono e senza riconciliazione». Questa frase di Nelson Mandela, fatta celebre da Desmond Tutu, riassume bene il messaggio di questa riflessione. Non basta risolvere militarmente o con le trattative i conflitti. Perfino con le più efficaci azioni poliziesche o con i migliori accordi ufficiali, la pace rimane ancora fragile e vulnerabile.
La pace è molto più che il silenzio dei fucili, più di una trattativa di interessi. La pace è guarire il cuore delle persone e dei popoli; è riuscire a far sì che vittime e oppressori si perdonino; che possano riconciliarsi, in modo da poter recuperare i pilastri fondamentali dell’esistenza: il significato della vita, la sicurezza e la socializzazione.

Partendo dalla giustizia

Sfortunatamente, per tanti secoli, il perdono e la riconciliazione (P&R) sono stati temi relegati al mero spazio della religione, della teologia e dell’etica personale. Così, l’umanità si è privata di un poderoso strumento psicoterapeutico, sociale, politico e spirituale per creare una pace stabile e sostenibile. Negli ultimi anni, per fortuna, il P&R gradualmente ha continuato a guadagnare spazio nella politica, la diplomazia e anche negli scenari dove si costruiscono la democrazia, la sicurezza e la convivenza.
È importante notare che, pur parlando qui di perdono e riconciliazione come mezzi effettivi per la cura degli odi e desideri di vendetta, non si vuole in nessun modo dimenticare come la cultura della pace e la prevenzione della violenza esigono un altro ingrediente essenziale: la giustizia sociale. Anche se parlerò della giustizia restauratrice per gli oppressori, voglio affermare già fin d’ora che questa giustizia si riferisce anche all’urgenza di trovare opportunità di progresso per i poveri e i diseredati del mondo. La sicurezza, la convivenza e la pace non saranno possibili senza il progresso dei più poveri.
Tempo fa, sulla copertina della rivista The Economist c’era il seguente titolo: «Does inequality matter?» (Importa la disuguaglianza?). La distruzione delle Torri Gemelle, la crescente guerra interna in Iraq e l’onda di terrorismo in molti paesi del mondo danno una risposta poco desiderata: l’élite politica del mondo dovrà rispondere seriamente al problema della povertà endemica di molti paesi, se vuole risolvere il problema della globalizzazione della violenza e del terrorismo nel mondo. È vero che la mancanza di sviluppo ostacola il superamento della violenza, ma è anche vero che la violenza ostacola lo sviluppo. Per coloro che credono che il capitale sociale precede il capitale economico, la soluzione della violenza si deve trasformare in priorità e preferenza. È tanto grave la povertà quanto la rabbia di essere povero. E, mentre conosciamo la soluzione per la povertà, conosciamo poco la soluzione per la rabbia e i desideri di vendetta che essa genera.
Perciò questa riflessione mira a presentare alcuni argomenti, per convalidare e recuperare la pratica del perdono e la riconciliazione come elementi indispensabili nella costruzione dello sviluppo integrale dei popoli. Inizialmente mi riferirò a qualche elemento teorico del perdono e della riconciliazione e, dopo, presenterò brevemente alcuni principi pratici di un’esperienza che si sta portando avanti con successo in Colombia e Brasile: le Scuole di perdono e riconciliazione (ES.PE.RE), già ricordate prima.
Questa proposta di perdono e riconciliazione dà priorità alle vittime sugli oppressori. La ragione è semplice. Sono le vittime che conservano il diritto e il potere di perdonare. D’altra parte, mentre si è fortificata la tendenza a spendere enormi somme di denaro per eliminare violentemente gli oppressori, si ignorano il dramma e le necessità delle vittime. Le statistiche mostrano già con chiarezza che buona parte degli oppressori furono prima vittime che non sono riuscite ad elaborare la loro rabbia e i loro rancori.

Alle radici della violenza

Nel corso dei secoli, molti autori hanno scritto sulla guerra, la psicologia dell’aggressione, la violenza con le sue conseguenze psicologiche e sociali. Un buon numero di loro si è concentrato sul trauma prodotto dalla violenza. Pochi, tuttavia, si sono preoccupati di affrontare il tema del P&R come alternativa efficace per ottenere una pace durevole. Uno sguardo rapido ad alcuni pensatori può aiutare a identificare alcuni concetti basilari al riguardo.
Arma virumque cano (canto le armi e l’uomo…): sono le prime parole con le quali, due millenni fa, Virgilio cominciava la sua famosa opera, l’Eneide. La cultura di guerra, rafforzata dai paradigmi della cultura patriarcale, è prevalsa per alcuni secoli. Questa mentalità violenta è oggi espressa nei ruoli della mascolinità che la società ha creato: dirigenti d’affari, esecutivi politici e capi militari.
Freud, nella sua famosa opera «Oltre il principio del piacere» (1920), e Konrad Lorenz in «Sull’aggressione» (1961), affermano che la violenza è innata in tutti noi. Lorenz sosteneva che la violenza è causata da quegl’istinti innati programmati che Freud riassunse in «Eros e Tanathos», come le principali forze psicodinamiche sempre in lotta per il controllo dell’ego. Come mezzo per controllare la violenza, Lorenz propone la conoscenza dell’evoluzione, la creazione di amicizie genuine, il controllo della crescita della popolazione e la pratica di esercizi atletici. Freud, invece, sottolinea l’importanza della crescita individuale e della riflessione.
Darwin, d’altra parte, parlò della violenza come risultato della lotta delle specie e Marx, nella sua filosofia dialettica, predicò che la violenza era il risultato della lotta di classi, l’«ostetrica» della storia. Per Darwin, era necessario un accomodamento genetico nelle specie e, per Marx, la migliore soluzione era il governo del popolo. Altri, come Dollar e Skinner, sostennero che la violenza s’impara nella società e perciò suggerirono soluzioni come il controllo della violenza in TV, l’isolamento delle persone violente e il premio sociale degli eroi non violenti.
In direzione differente guardano Wrangham e Peterson, i quali, approfittando di una vasta esperienza con i primati in Africa, conclusero che la mentalità violenta dei maschi ha prevalso sulla tenerezza e l’attenzione delle femmine semplicemente perché, attraverso la selezione sessuale, i primati hanno sviluppato un’insaziabile ricerca di potere, riuscita solo attraverso l’aggressione. Stranamente, alcuni scimpanzé femmine riuscirono, secondo questi autori, a vincere sull’istinto del potere e svilupparono uno stile di vita molto più cooperativo e pacifico. Si potrebbe concludere allora che sarebbe sufficiente, per frenare la violenza e l’aggressione, potenziare i valori femminili. Per colpa di questi maschi diabolici, l’umanità è condannata a vivere tra conflitti e sofferenza.
Queste teorie deterministe hanno forti oppositori. Nel 1986, venti scienziati d’avanguardia pubblicarono il famoso documento di Siviglia sulla violenza, nel quale assicurano che non esistono istinti aggressivi o istinti di violenza. L’aggressione si apprende attraverso il sistema di premio punizione che applica la società attuale.
Una delle teorie più accettate sembra essere la teoria che combina costituzione con costruzione. Rousseau, per esempio, pensò che il suo pacifico nobile selvaggio fosse diventato violento a contatto con la civiltà. Per Young, May ed altri, la violenza avviene, ma è anche creata e controllata dalla cultura. La violenza accade quando la gente è mortificata da sentimenti di impotenza, poiché le necessità basilari di autostima, identità e riconoscimento le sono state negate. Normalmente, la violenza e l’aggressione si esprimono attraverso reazioni fisiche, quando l’espressione di altre forme di potere interno sono state negate (il potere di essere, il potere di auto affermazione).
Se il cuore dell’etica e della politica è la ricostruzione della dignità umana e delle sue relazioni, allora P&R è un mezzo effettivo verso tale fine. Un essere sociale è un essere che perdona,  insisteva Thomas Moore. «Raramente si sente dire che un pensatore politico importante consideri il perdono come un servizio fondamentale della giustizia o come un elemento indispensabile nella
formazione iniziale di associazioni politiche».
Spesso si dimentica che la pace è qualcosa che s’impara, che esige esercizio, disciplina e sforzo; non qualcosa che s’impone con la forza militare o poliziesca. Galtung sviluppò lo schema dei tre principali concetti di pace: peace-keeping (mantenere la pace), peace-making, (fare la pace) e peace-building (costruire la pace). Peace-keeping e peace-making sono strategie a breve termine che implicano quasi sempre l’intervento armato, mentre peace-building è una strategia a lungo termine, nella quale Galtung enfatizza il valore del P&R come metodo importante per poter risolvere la violenza.
Sfortunatamente, in quasi tutti i processi di pace, il P&R non è preso in considerazione e non è ancora una priorità. Se la pace è la democrazia nella sua forma più pura, allora la democrazia risulta dalla riuscita di patti che sono possibili e stabili se si basano sull’esercizio del perdono.

Perdono: virtù «politica»

Un’illustrazione significativa degli estremi ai quali può arrivare la violenza umana è l’antica trilogia drammatica L’Oresteia del drammaturgo greco Eschilo, dove dèi e cittadini si riuniscono per decidere se c’è un altro modo di rispondere al crimine che non sia con un altro crimine. Essi sono d’accordo sul fatto che la vendetta, benché essere soggetta alla legge, deve tenere presente anche l’umanità degli oppressori. Nell’Oresteia, i Furiei, i difensori della legge e dell’ordine, ironicamente
diventano Euminidi, cioè simpatizzanti della bontà. Per Eschilo, il perdono può essere abbinato alla retribuzione, a patto che non si trasformi nell’esercizio di una giustizia astratta, ma sia un mezzo per reinserire l’oppressore nella comunità. Da molti secoli si predica che la giustizia punitiva deve stare insieme alla giustizia restaurativa.
Qualcosa di simile avviene nella Storia della Guerra del Peloponneso, di Tucidide. Egli cerca di dimostrare l’irrazionalità della vendetta, insistendo che la violenza si alimenta della vendetta e la vendetta si alimenta della violenza. Per questo, consiglia che è necessario fermare la vendetta in tempo, soggiogando la memoria delle offese passate alla speranza delle benedizioni future. Recuperare questa saggezza diventa indispensabile per una nuova cultura di pace e per la prevenzione di future violenze.
Nella primitiva tradizione cristiana, P&R avevano un ruolo centrale. Tuttavia, con l’istituzionalizzazione della chiesa, il P&R rimase relegato a una pratica verticale con Dio, perdendo così tutta la dimensione orizzontale del peccato. Ci insegnarono, allora, a riconciliarci con Dio, ma ci fecero dimenticare come riconciliarci con gli altri.
Come sottolinea Kagan, il concetto di perdono deve liberarsi dalla cattività religiosa e deve inserirsi tra la schiera delle virtù politiche e della crescita umana normale. Perdono e riconciliazione attualmente sono due temi dell’ambito etico e politico. Nelle relazioni sociali non c’è niente di più naturale della vendetta; allo stesso tempo, niente è meno sociale e politicamente
inadeguato. Diventa necessario, recuperare questo capitale della società, cominciando dalle realtà delle nostre città.
Lo psicologo clinico Worthington fa un’analisi interessante di tutte le emozioni che si riferiscono
a ciò che egli chiama non perdonare: rabbia, paura, odio, collera, vendetta. Non perdonare è un’emozione complessa, che inizia con una paura condizionante e segue con la manipolazione conoscitiva del pensare sull’evento originale che riproduce la paura. Il ricordo continuo (il replay conoscitivo) ha risposte immediate nei muscoli facciali, muscoli dello scheletro, viscere, ormoni e nel flusso di sentimenti.
Sun Tzu, nel suo libro classico L’arte di guerra, sostiene che la collera non è mai un consigliere buono: «Un governo non deve mobilitare un esercito motivato dalla collera e i leader militari non devono provocare la guerra mossi dall’ira». Sun Tzu, come esperto di guerra, era molto cosciente degli effetti negativi della rabbia e l’odio.
Secondo lo psichiatra Fitzgibbons, la collera è associata ad un alto grado di tristezza, perché esprime il fallimento degli altri a soddisfare le necessità fondamentali di amore, stima e giustizia. Ci sono tre meccanismi basilari con cui le persone reagiscono alla rabbia: la negazione cosciente o incosciente, la manifestazione aggressiva e il perdono. Nell’infanzia precoce, noi ci abituiamo a negare la collera e, quindi, rimaniamo con un bagaglio di collera incosciente. Il risultato naturale della collera è il desiderio di vendetta. Questo desiderio non diminuisce, fino a quando quei sentimenti si accettano e si sciolgono. Senza una decisione cosciente di riconoscimento e abbandono, la collera rimane e si accumula per riemergere nel futuro.

Il cammino del perdono

Gli oppressori qualche volta nella loro vita sono stati vittime. In entrambi i casi (vittime e oppressi),
il processo di P&R funziona in modo molto simile. In questa proposta si riuniscono le vittime di violenza che in qualche modo, rimangono con traumi o ferite e che è necessario guarire, affinché non sanguinino e facciano infezione. Per potere realizzare questa cura, si propongono gli elementi operativi minimi della psichiatra Judith Herman: creare un ambiente sicuro, raccontare la loro storia, fare lutto e ricollegarsi.
La maggioranza degli esperti insistono nella complessità dell’esercizio del P&R precisamente perché dovrebbe includere elementi cognitivi, emozionali, spirituali e di condotta.
La definizione di P&R che si adotta condiziona il processo. Qui si adotta la definizione di perdono proposta da Enright, Freedman e Rique: «È la volontà di lasciare da parte il diritto al risentimento, al giudizio negativo e alla condotta indifferente verso uno stesso o verso l’altro che ci ha offeso ingiustamente e, invece, alimentare sentimenti di compassione e generosità verso l’aggressore». Come nota North, ciò che si annulla con il perdono non è il crimine, ma l’effetto che distorce la relazione con la vittima, in modo tale che ciò non continui a pregiudicargli la sua autostima.
Gli esperti concordano su alcune tappe minime necessarie per arrivare al perdono. North, Enright ed il suo gruppo di studio propongono quattro fasi, suddivise in 20 passi. Quelle fasi sono: catarsi, decisione, azione e risultati.
Nella fase preparatoria, si cerca di creare in primo luogo un ambiente di sicurezza o di simpatia, perché le vittime di violenze normalmente si sentono prigioniere della paura. La musica, gli esercizi di rilassamento, la danza, lo yoga e tutto quello che aiuta a controllare la fisioneurosi, sono aiuti importanti.
● Nella fase di catarsi si tratta di aiutare le vittime a recuperare l’autocontrollo e il rispetto di se stessi. A questo punto è importante che le vittime diventino consapevoli del replay cognitivo che costantemente ricorda l’offesa e ricicla il veleno causato. È significativo poter dare un nome all’offesa, poiché può essere un aiuto per recuperare il dominio sulle cose. Ugualmente è importante che la persona possa dare senso alla sua sofferenza, riprendendo così la struttura morale e, allo stesso tempo, dando un rinnovato senso di direzione nella vita.
Un passo fondamentale è quello di ricordare e raccontare la storia. È un momento privilegiato di catarsi. Non senza ragione, la cultura giudeocristiana è la cultura della memoria. Studiosi, come la psicoterapista Ruth Bersin, consigliano l’esercizio di «ricordare», perché aiuta la vittima a recuperare il controllo sulla propria vita.
● La fase di decisione implica di introdurre il concetto di giustizia restaurativa verso l’aggressore. Si crea per praticare il difficile esercizio della compassione.
● Nella fase dell’azione, la vittima è aiutata a rompere le catene e sciogliere la barca della vita per navigare con libertà e gioia. In questa tappa, la riconnessione intenzionale con la comunità e il gruppo è di particolare importanza. È come l’impegno di rinnovamento e vita nuova. La proiezione verso il futuro trionfa sulla schiavitù del passato. Gli esercizi di proiezione di vita possono essere molto utili, secondo l’ambiente culturale delle persone. Lo stesso uso di «mantra» (per esempio: «So che ho dominio su me stesso») può avere anche il suo effetto positivo. La sequenza e il tempo di queste fasi dipendono da ogni gruppo. La costante osservazione, la valutazione ed il buonsenso sono i migliori consiglieri.
Non c’è vero P&R senza i suoi due elementi costitutivi: giustizia e verità. L’esperienza del Sudafrica ha insegnato importanti lezioni. Prima di tutto, la conoscenza della verità è fondamentale affinché le vittime possano aprirsi alla riconciliazione. In secondo luogo, le vittime esigono che si faccia giustizia e siano retribuite materialmente o simbolicamente, come riparazione per il male causato. P&R non vuole dire impunità. Al contrario, la verità e la giustizia sono componenti strutturali del P&R, perché gli atti simbolici di riparazione servono per fare dolore-lutto e ritualizzare un fine simbolico. Attraverso la riparazione simbolica, le vittime recuperano un minimo di sicurezza, identità e senso di vita normale.
La riparazione è un formidabile mezzo per trasformare la memoria negativa dell’offesa e per guadagnare il controllo su di essa. Ciò che conta, infatti, è il rito con cui si fa e non tanto il valore della riparazione. A ragione, nella chiesa cattolica, il «rito di riparazione» dell’Eucaristia continua ad avere importanza singolare. Si tratta di avere memoria di un crimine, ma con uno sguardo differente.
La giustizia implica anche il concetto di solidarietà e compassione. Con buone ragioni, il simbolo della croce è il centro della fede cristiana. La croce è la saggezza della compassione. Questi sono concetti carichi di una certa irrazionalità. È per questo motivo che contro l’irrazionalità della violenza è necessario proporre l’irrazionalità del P&R.
Tanto nella Scrittura ebraica come cristiana, Dio è un Dio di compassione, lento alla collera e ricco di misericordia. La storia di Caino è un meraviglioso esempio di tutto ciò. Lo stesso si dica della storia di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli. Egli riesce a vincere il rancore del passato e non solo tratta bene i suoi fratelli, che vengono in Egitto a chiedergli aiuto, ma anche dà il nome di Manasse a suo figlio, cioè fatto per dimenticare. Nel vangelo di Luca, troviamo lo stesso messaggio: «Siate misericordiosi come il vostro Padre celeste è misericordioso».
Senza compassione non c’è verità e, per la stessa ragione, non c’è pace. L’azione evangelica di porgere l’altra guancia, rompe la logica della vendetta. Se le persone e le organizzazioni non passano attraverso un cambiamento psicologico e culturale per imparare a perdonare, allora il risentimento e la minaccia di guerra continueranno. Lo studioso Hannah Arendt l’ha sottolineato bene, dicendo che il perdono è liberarsi dall’irreversibilità del passato. Allora, si dovranno fare accordi per cancellare l’imprevedibilità del futuro. Così, questi due impostori dell’umanità rimangono vinti e si prepara la strada per un cambiamento radicale della cultura e della società.
Allo stesso modo, la giustizia non si riferisce solamente alla giustizia retributiva, ma anche a quella «ristabilizzatrice». Si tratta di recuperare la dignità dell’altra persona o, come lo definisce Dickey, ristabilire la totalità della società. L’accento non sta nel crimine stesso, bensì nell’effetto di distorsione che implica. Dickey insiste col dire che la società attuale si caratterizza di più dall’emozione che non dalla riflessione o la compassione.
Ebbene, questa società cerca le emozioni forti che le producono la criminalizzazione e lo sfogo degli istinti di vendetta e punizione. Invece, il nuovo paradigma della giustizia ristabilizzatrice mira a ristabilire le vittime. La saggezza antica dei salmi, specificatamente il salmo 85, riassume meravigliosamente questa teoria: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno».

Due strumenti di pace

L’apprendistato del P&R è un esercizio difficile. Potremmo avere la tentazione di avere bisogno di psicologi o specialisti molto competenti e ciò diventa proibitivo per molti, soprattutto per i più poveri. Persone di uno stesso gruppo umano, riunite e allenate per tale scopo, possono diventare validi aiuti per incrementarlo.
Le «Scuole di perdono e riconciliazione» (ES.PE.RE) sono costituite da piccoli gruppi di persone che, con la direzione di animatori specificamente allenati a tale fine, aiutano gli altri a risolvere la loro rabbia e odi per aprirsi, così, al P&R.
Normalmente, una delle prime necessità per risolvere la rabbia delle vittime della violenza è che ci sia un gruppo umano consapevole del dolore e dell’ingiustizia che subisce. I gruppi offrono gli elementi indispensabili per facilitare il processo di cura mediante il P&R: la sicurezza, un ambiente di appartenenza, un pubblico che riconosce l’ingiustizia e il dolore delle persone, relazioni alternative di potere, un nuovo senso della legge e dell’ordine e la leadership degli animatori locali. Inoltre, nei gruppi, i problemi sono posizionati e interpretati nel loro dovuto contesto.
Lo psicologo clinico Worthington sostiene che il trattamento basato sull’empatia può produrre più perdono che non quello basato semplicemente sul livello razionale. Allo stesso modo, il trattamento a livello di gruppo è molto più efficace che a livello individuale. Herman sostiene che la solidarietà di un gruppo provvede non solo alla protezione più forte che può immaginarsi contro il terrore e la disperazione, ma è anche l’antidoto contro le esperienze traumatiche. I gruppi incoraggiano gli individui a proiettarsi verso ideali più alti e a non rimanere chiusi nei propri problemi. Gli stessi gruppi aiutano le vittime a recuperare la fiducia nelle loro cosmogonie spirituali, nelle istituzioni e nelle persone.
Il perdono e la riconciliazione sono una teoria e una pratica ancora agli inizi, benché già riconosciute da un crescente numero di investigatori, esperti religiosi, clinici e attivisti politici. In gergo popolare sono considerate attività ingenue. A molti, sembrano attività impossibili. Alcuni accetterebbero il perdono collettivo, come il caso del Sudafrica, ma non il perdono individuale. Altri credono che si tratti solamente di un processo artificiale molto fragile, che rifletterebbe appena i desideri dei terapisti e di una tradizione cristiana. Il perdono e la riconciliazione sono visti come giustizia economica e spiritualità idealistica.
Tuttavia, un numero crescente di autori crede che il perdono e la riconciliazione sono potenti strumenti sociali per diminuire ciò che è sofferenza emozionale, mentale e fisica delle vittime.

Perdono e riconciliazione sono strumenti potenti per la costruzione della democrazia, della convivenza e della pace. La realtà della violenza passata e presente della Colombia e di molte parti del mondo, giustifica pienamente l’esercizio di questo nuovo paradigma della più raffinata politica. Non basta avere capitale fisico e capitale economico. Mai come ora c’è necessità di acquisire questo nuovo tipo di capitale sociale. Le persone e le comunità che praticano il perdono e la riconciliazione hanno comparativamente livelli di progresso e sviluppo molto più elevati di chi non li esercita.
Desmond Tutu afferma: «Il perdono è un’assoluta necessità per far continuare l’esistenza umana. Senza perdono e senza riconciliazione, l’umanità non ha futuro». Nei prossimi anni, quando possibilmente si firmeranno accordi di pace tra i gruppi in conflitto, la Colombia potrà offrire al paese la ricchezza di una pratica accumulata sul l’uso del perdono e della riconciliazione. Senza perdono e riconciliazione non c’è pace!
Il perdono e la riconciliazione sono, inoltre, un umile riconoscimento della limitazione umana e, allo stesso modo, della necessità che abbiamo gli uni degli altri. È grazie al perdono che capiamo la forza potente dell’amore.
Il sogno di Isaia un giorno si farà realtà: il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme… e il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi (cfr. Is 11, 6-8). Questa è forse l’immagine più completa di ciò che significano il perdono e la riconciliazione.

DA "AMICO" GENNAIO 2005

La rivoluzione del perdono
Armato Alessandro, Narvaez Gomez Leonel

Leonel Narvaez Gomez, IMC

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Leonel Narvaez Gomez

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