Slow page dei Missionari della consolata

20 aprile 1958, dal Tanganyka p. Placucci

Fratel Valentino Quaggiotto, missionario della Consolata, ritratto in AMICO n.3 del 1958

In memoria del coadiutor Valentino Quaggiotto I.m.c.

Una Land Rover passa sferragliando come un direttissimo, nel breve spazio rimasto tra il mio autocarro ed il muricciolo della casa. Un istante dopo: un sibilante cigolar di freni, un raspante slittar di quattro ruote, un nuvolone di polvere. Dileguata questa, ci accostiamo alla macchina immobile in mezzo al cortile, dalla quale è già sceso un vecchiotto barbuto e solenne come un patriarca, lesto e forzuto come un atleta.

Siamo lieti di presentare ai nostri giovani l’edificante figura di questo confratello Missionario Coadiutore.
Il Padre Placucci, proveniente dal seminario di Rimini, da sei anni Missionario nella diocesi di Iringa (Tanganyika), descrive con pennellate d’artista l’esempio di virtù, di attaccamento all’Istituto, di apostolato semplice e tanto fecondo del compianto Confratello.

Alle ore otto del venti marzo, 1958, nell’ospedale di Dar es Salaam, assistito dai confratelli PP. Olivo e Barbanti, spirava santamente il carissimo coadiutore Valentino Quaggiotto, d’anni 64, con 30 di professione e 25 di missione.

Finalmente eccomi a Tosamaganga, dopo dodici ore di camion. Appena sceso, alcuni confratelli mi si fanno intorno. Mentre spiattello loro le recentissime dell’Ukinga, dal sottostante angolo della via ci giunge un sempre più cupo rumore di motore. «Attenzione, arriva il vecchio» grida uno; e tutti corrono al sicuro.
Io m’accorgo con terrore d’aver lasciato il camion quasi a metà della strada, e corro per spostarlo, ma è troppo tardi: una Land Rover passa sferragliando come un direttissimo, nel breve spazio rimasto tra il mio autocarro ed il muricciolo della casa. Un istante dopo: un sibilante cigolar di freni, un raspante slittar di quattro ruote, un nuvolone di polvere. Dileguata questa, ci accostiamo alla macchina immobile in mezzo al cortile, dalla quale è già sceso un vecchiotto barbuto e solenne come un patriarca, lesto e forzuto come un atleta.
«Ehi, Valentino, adagio perbacco» gli dicono molti.
«Ma sì, ma sì, c’è sempre tempo per andare adagio» brontola lui sorridendo argutamente tra i baffoni spioventi.
E dopo poche parole di saluto, da solo, sollevandole di peso, scarica dalla macchina pesanti casse e ceste di papai di banane e di verdura: il frutto dei suoi quotidiani sudori, con cui nutre ogni giorno la numerosa famiglia missionaria di Tosamaganga.

21.3.58: S. Benedetto, la rondine sotto il tetto.
Primo giorno di primavera; ma Tosamaganga non nota quest’anno la gaiezza connessa a questa data.
È mezzogiorno. Sullo stesso cortile sosta un gruppetto di Missionari. Dallo stesso angolo della via un tacito brontolio di motore. Ne sbuca un camioncino. «Arriva il nostro caro vecchio» commenta qualcuno, ma nessuno scappa allarmato. Anche stavolta la macchina si ferma in mezzo al cortile sottostante l’episcopio.
Ne scendono  i RR.PP. Olivo e Barbanti, che salutano mestamente i confratelli, ed aiutati da questi estraggono dal veicolo una lunga pesante cassa.
In quella cassa non più il frutto ma la sorgente dei sudori di Valentino: il suo volto placidamente assopito nel sonno dei giusti, le sue membra abbandonate all’immobilità della morte.
Come la rondine proverbiale, sei tornato, o Valentino, ancora una volta, per l’ultima volta, a riposare sotto il tetto dei tuoi 25 anni… africani.
Quest’ultima tua notte, i fratelli di vocazione che hai sempre amati, e che sempre hai costretti ad amarti, vogliono passarla accanto a te, in fraterno intimo colloquio, per offrirti la loro preghiera di suffragio, per ringraziarti della tua perenne bontà e dei tuoi incessanti buoni esempi, per dirti: «Addio, Valentino, arrivederci tra le braccia della Consolata».

Settembre 1957. A Msombwe si sta trebbiando.
Msombwe è un  villaggio a circa tre chilometri da Tosamaganga, ove si estende un appezzamento di terreno appartenente alla Missione, Coadiutor Valentino è il re di questa fattoria agli ordini diretti del Vescovo.

Giorno di trebbiatura, giorno di festa. Così è sempre stato per Valemtino e lo è anche questa volta, nonostante che proprio sul più bello del trambusto uno strano malessere, accompagnato da senso di vertigine e da annebbiamento della vista, lo obblighi a rincasare. Ma in un’oretta tutto è passato, e non resta che incolparne la solita cattiva digestione.
Il lavoro a Msombwe continua col suo ritmo normale (il che significa «a tutto vapore», e Cd. Valentino fino a Natale non tradisce che la sua fibra di lavoratore instancabile, quale fu sempre, è alquanto incrinata. Ma gli strani malesseri ritornano, i capogiri si ripetono, l’appetito scompare. Anche i confratelli lo notano e lo denunciano ai Superiori.
Il R. P. Sciolla, medico della casa, lo avvicina: «Fratel Valentino, sento dire che lei non sta bene: mi spieghi un po’…».
«Male lingue, Padre, male lingue, solo propaganda, non c’è niente» risponde lui disinvolto. Ciononostante accetta qualche cura, e sembra ne ottenga un  miglioramento. Un’illusione. Il miglioramento svanisce rapidamente, sul finir di gennaio gli eventi precipitano.
S. E. Mons. Vescovo si reca di persona a Msombwe, lo rintraccia sui campi amati, e paternamente lo obbliga a tornare subito a Tosamaganga, per farsi visitare, ubbidisce docilmente, come l’agnello descritto da Isaia, pur presagendo forse che qeusto è il distacco definitivo da quella campagna che fu pure la compagna dei suoi cinque lustri d’Africa, e che anche lui era solito chiamare «la mia Grande Amica».

14.2.58 S. Valentino martire.
Giorno onomastico e compleanno del nostro infermo. Due ricorrenze care, benché velate da una foschia di mestizia, ed un bel volo aereo ci sta proprio bene, tanto più che – commenta Valentino stesso – «proprio 50 anni or sono, per il mio onomastico, mio padre mi condusse a Venezia e lì vidi per la prima volta un aereo». Alle due pomeridiane, Valentino «vestito di nuovo», raccoglie tutte le forze rimastegli, e con passo marziale, da solo, si porta alla vettura con cui S. E. lo accompagna all’aeroporto d’Iringa. Alle cinque pomeridiane, quest’apostolo sessantaquatrenne spicca il suo primo ed ultimo volo, volo di nozze, di nozze eterne. Sì, ancora scalo a Dar es Salaam, ma per breve tempo, solo per darci l’ultima lezione di fede e di bontà, per lasciarci il sacro fardello delle sue ossa.
A Dar es Salaam si riprendono gli esami, che, purtroppo, danno gli stessi risultati di Tosamaganga, e l’ottimo Dott. Lane, per quanto nostro amico di famiglia non può non scandirci il drammatico verdetto: «carcinoma allo stomaco».
Si giudica conveniente un intervento chirurgico, il quale viene eseguito il 5 marzo, nell’ospedale governativo di Dar es Salaam, dal chirurgo primario del medesimo, il cattolicissimo Dott. Lane.
L’esito fa sperar molto bene.
Sono accanto all’infermo il Rev. Coad. Guerrino Simeon e due Missionarie della Consolata. Due giorni dopo l’intervento operatorio, anche S. Ecc. Mons. Vescovo si reca a Dar es Salaam con Cd. Angelo Carretta, per visitare l’ammalato, che è sempre di buon umore ed edificantemente abbandonato alla volontà di Dio, rivelantesi tramite i Superiori ed i medici.
«Salvo complicazioni – dice il chirurgo a S. E. – tra quindici giorni questo fratello lo rimanderà a Tosamaganga guarito».

Per oltre una settimana tutto procede bene. Il temporale sembra ormai passato, il sereno prossimo a splendere. Fulmineo invece ed implacabile il ciclone piomba e schianta quella vittima.
Alle cinque pomeridiane del 14 marzo gli vengono tolti i punti dell’operazione, e poco dopo, in seguito a lieve colpo di tosse, le ferite (esterna ed interna) si riaprono. È il colpo di grazia per l’agnello immolato.
Immediatamente è riportato in sala operatoria, ricevuto prima il conforto dell’Estrema Unzione e Benedizione Papale in a.m. – vengono tentati tutti i mezzi che la scienza medica e chirurgica hanno a disposizione in tali circostanze. Ma i tessuti sono restii a suturarsi, causa il sangue depauperato dall’insaziabile carcinoma. La situazione è gravissima. S. E. Mons. Maranta, che era sempre stato vicino e paternamente premuroso per il nostro fratello, telefona d’urgenza a Tosamaganga. Sono le ore ventidue del 14 marzo. Il Rev.do p. Olivo, su macchina pilotata dal Rev.do P. Barbanti, parte immediatamente per Dar es Salaam. Una volata pazza nella notte.
Alle sette del mattino successivo eccoli accanto a Valentino, conscio dello stato in cui versa, eppure sereno, anzi allegro, confortato dalla loro presenza. Per qualche giorno è un alternarsi di timori e di speranze. Ma il giorno 19 il Dott. Lane dice a P. Olivo: «Tranne un miracolo, nessuna speranza». Ed il Padre non può non informare l’interessato: «Caro fratel Valentino, il medico dice che tranne un miracolo non c’è più alcuna speranza».
«Come vuole il Padrone» risponde lui in veneto schietto, quasi accettasse un invito atteso da tempo. «Come vuole il Padrone»: questa la dominante della sua vita, l’espressione genuina della sua fede, la battuta che gli usciva spontanea dal labbro, quando le nubi beffarde e sterili passeggiavano invano sui suoi campi arsi dalla siccità, quando i raccolti non erano proporzionati alle fatiche, o quando quella sciagurata Land Rover, solo ricca d’acciacchi, lo piantava in asso.
Da quel momento i confratelli e le consorelle presenti non lo abbandonano più. Desidera e riceve ancora, devotamente, il Sacramento della Confessione. Il mattino successivo (20 marzo) il Rev. P. Barbanti gli amministra il Santo Viatico, ricevuto con grande gioia e profonda fede, in piena lucidità mentale: è l’ultimo vivido guizzo d’una lampada che sta esaurendo il suo olio, il bagliore d’addio d’un sole che tramonta.
Intorno a quel letto è un continuo mormorio di preghiere ufficiali e private, mentre la fiamma non cessa d’affievolirsi.
Alle ore otto, senza strepito, senza sussulto alcuno, quasi furtivo Valentino decolla definitivamente per l’aldilà.
Su quel volto sereno per scritto: «Ecce quomodo moritur justus».

22.3.58. Fin dall’alba le cataratte del cielo sono spalancate su Tosamaganga. Ciononostante alle ore Sette il solito cortile rigurgita di preti e di fedeli. Il Rev. P. Borra, Sup. Deleg. procede a prelevare il cadavere, e poi giù di corsa fino in Cattedrale, sotto quel diluvio.
S. E. Mons. Vescovo pontifica «in nigris» e dopo le esequie, illustra con commozione la figura dello scomparso, alla folla che gremisce la chiesa. Poi, ancor sotto le intemperie, ancora di corsa, giù fino in cimitero, mentre la bara, quasi galleggiando su quella marea di teste, passa da spalle a spalle, piamente contesa tra i Fratelli Coadiutori ed i fedeli, che gli uni e gli altri ambiscono tanto onore.

Bravo Valentino,
sei stato coerente a te stesso fino in fondo, fin in fondo, fin nel profondo della tua fossa, nella quale pure sei sceso lestamente. Andavi di corsa quando, bastone alla mano, a suon di tacchi, conducevi le carovane della tua prima vita africana. Eri un bolide, giù per i colli di Tosamaganga, quando ti fu dato d’inforcare una bicicletta.
Azzeccato fu l’appellativo di «supersonico» che ti appiopparono, quando la Provvidenza ti pose al volante di quella sgraziata Land Rover, che sintetizzava in sé la povertà di Francesco d’Assisi e l’ardore apostolico di Francesco Saverio.

Ed ora sotto  l’enorme chioma dell’itamba annoso, accanto a Mons. Cagliero, i Fratelli Benedettini, ed alle Missionarie della Consolata che ti hanno preceduto, riposa finalmente in pace.
Raccomandazione inutile. Oh, no, neppure nella tomba tu non saprai riposare. Reduce dalla prima Grande Guerra, tu amavi tornare ogni anno, in bicicletta, a rivedere il Carso ed i colli sui quali avevi combattuto per la Patria, nelle trincee inzuppate di sangue, ebbene, torna ancora, o Valentino, non ogni anno ma ogni giorno, sui colli di Tosamaganga, in mezzo alla tua famiglia missionaria, sulle zolle inzuppate del tuo sudore. Torna in mezzo ai tuoi fratelli Coadiutori, ed alle tue sorelle Missionarie, ad istillare loro coraggio nell’improbe fatiche quotidiane del loro apostolato. Torna accanto all’altare dei tuoi fratelli Sacerdoti, chierichetto edificante maestoso come il Mosè di Michelangelo, ma pieno di fede come un Cherubino. Torna fra i nostri cristiani, specie fra quelli di Msombwe, per i quali sei sempre stato il Giuseppe ebreo degli anni di magra.
Lo sai? La lunga serie delle vecchiette, più o meno sciancate, per le quali avevi sempre qualche chicco di granturco, di fagioli o di piselli, si trascinano ora fin sulla tua tomba, per restituirti tutto con altrettanti grani di rosario. Non solo, ma entro la prima settimana della tua scomparsa, hanno portato a P. Olivo 25 offerte di Ss. Messe, da celebrarsi per te (Oggi 1.5.58 le Messe lette sono 52 le cantate 7). E continuano. Perfino dei pagani stan facendo collette, per farti celebrare delle Ss. Messe.
La pioggia che ha inondata d’acqua la tua bara, sarà emulata da quella di suffragi che sommergerà la tua anima.

Da un capitello del chiostro di Tosamaganga, penzola ancora il tamburo di freno d’automobile, che tu, campanaro-cronometro, per 22 anni, ogni mattina, hai fatto squillare per svegliarci. Ma che rigore, perbacco… su oltre settemila tue scampanate, nessun ricorda d’aver goduto un sol minuto di sonno oltre il prescritto. Il primo tocco del pendolo ti coglieva col braccio alzato ed il battaglio in pugno, ma il secondo non aveva tempo a risuonare, perché tu lo affogavi collo strillio concitato della tua campana … a martello.
E questo è l’unico tuo torto di cui ci ricordiamo, ma che siam pronti a perdonarti.
Ma tu torna ancora a battere la diana della nostra pacifica battaglia, a ridestare ogni giorno il nostro zelo, fino a quando ci sarà dato – speriamo – di morire da giusti, come te, e, come te, dormire l’ultimo sonno sotto le zolle del riarso suolo africano, assetato d’apostoli buoni come te.

Tra  pochi cimeli trovati in fondo al tuo baule, abbiamo scoperta una «Croce» al merito, con questa semplice, ma oggettiva motivazione: «25 anni di ardente apostolato missionario».
Sì, d’apostolato missionario, anche se tu non hai mai celebrato una santa Messa, mai assolto un peccatore, mai amministrato un Sacramento, eccetto qualche battesimo. Tu sei stato ugualmente apostolo, perché quando coll’aratro dissodavi i tuoi campi e, sbracciandoti solennemente, spargevi nel solco il seme prezioso, non ti prefiggevi scopi da coloniale né capitalistici, ma solo intendevi sostenere i tuoi fratelli sacerdoti e fornire loro i mezzi onde potessero dissodare il campo del paganesimo o dell’eresia, e spargere nei cuori brecciati il seme del Vangelo.
Grande fu pure il tuo contributo all’erezione delle belle ed ampie chiese, fiorite in questi tempi nella nostra diocesi.
In queste chiese, su nessuna lapide il tuo nome figura tra i benemerenti. Eppure lo fosti. Ma a te, certo questa omissione non rincresce, perché sai che non la ignora Colui che il 20 marzo t’ha detto: «euge, serve bone et fidelis, intra gaudium domini tui».

Matamba, 20-4-58
P. Alberto Placucci I.M.C.

Da A.MI.CO. N.3 – 1958

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