Chiedendoci: chi è dunque costui?
In occasione dell’anno della fede, indetto dal papa Benedetto XVI, proponiamo il primo articolo di una serie di tre, per riflettere sulla prima delle tre virtù teologali.
Gesù è allo stesso tempo un problema e una soluzione. È un problema perché la sua vera identità è celata dietro la cortina fumogena della sua umanità, ma è anche una soluzione perché ha indicato il sentiero per arrivare al Padre qualunque ostacolo o problema si incontri nell’arco della vita.
Una mattina afosa di luglio del 1987, mentre ero a Roma per completare gli studi di Sacra Scrittura, fui chiamato dalla portinaia perché c’era un giovane che parlava solo inglese. Mi trovai davanti un giovanotto sulla trentina. Come si usa nel mondo anglosassone, mi presentai dicendo il mio nome, e, con mia grande sorpresa, il giovane non pronunciò il suo. Subito ne chiesi il motivo. E lui per tutta risposta mi disse che non poteva rivelare il suo nome perché, secondo lui, io gli avevo riso in faccia. Gli assicurai con una specie di giuramento che non gli avevo riso in faccia e che per nulla al mondo l’avrei mai fatto. A quel punto lui, con un fare solenne, disse: «Io sono Gesù Cristo». Con un sforzo non indifferente riuscii a trattenermi.
CHI È DUNQUE COSTUI?
Fu allora che, come d’incanto, capii la reazione dei compaesani di Gesù, quando nella Sinagoga di Nazareth egli aveva detto: «Oggi questa scrittura si è realizzata alle vostre orecchie» (Lc 4,21). Gesù aveva affermato di essere l’inviato di Dio secondo la profezia isaiana che aveva appena letto. I presenti subito avevano commentato: «Non è questi il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22). Mi vennero in mente anche tutte le domande che nel Vangelo di Marco la gente si faceva circa la vera identità dell’uomo di Nazareth. Dopo la guarigione di un indemoniato, la gente si era chiesta: «Che è mai questo? Una dottrina insegnata con autorità» (Mc 1,27). Dopo il miracolo della tempesta sedata i discepoli si erano chiesti l’un l’altro: «Chi è, dunque, costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?» (Mc 4,41). Alla fama crescente di Gesù la gente reagiva differentemente. Per alcuni egli era Giovanni Battista, per altri Elia o uno dei profeti. Per lo stesso re Erode Gesù era solo il Battista redivivo. Con la sua attività Gesù sconcertava le folle, la natura e il potere politico. Per tutti era un problema. Egli stesso si mostrava preoccupato di quel fenomeno crescente tra la gente. Avvertiva che esisteva una certa confusione circa la sua identità e per questo, lungo la strada che lo portava a Cesarea di Filippi, aveva chiesto ai suoi: «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27). La risposta aveva riproposto la stessa sequenza di prima: Giovanni Battista, Elia o uno dei profeti. Nessuno sembrava capace di leggere la sua vera identità dietro la sua umanità. Nelle sue azioni e nelle sue parole si manifestava qualcosa di straordinario, una sapienza e autorità straordinarie (cfr. Mc 6,2). Di lì le domande: «Chi è costui? Donde viene a lui la sapienza? Non è egli forse il figlio del carpentiere, il figlio di Maria?» (cfr. Mc 6,3). La gente si meravigliava, si stupiva, ma non arrivava alla fede in lui, e anzi si scandalizzava. Invece di trovare in Gesù la soluzione dei loro problemi vi trovava un inciampo quasi insormontabile.
DAI MIRACOLI ALLA CROCE
Nel suo Vangelo, come accade anche negli altri, Marco narra una serie di miracoli che avevano avviato il processo della fede, senza condurre alla fede piena e genuina. Per compiere miracoli Gesù richiedeva la fede. Alla donna che soffriva di perdite di sangue Gesù aveva detto: «Figlia, la tua fede ti ha salvato» (Mc 5:34); al padre della bambina morta: «Non temere, soltanto credi» (Mc 3,36); al cieco di Gerico: «Va, la tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52). In quei casi Gesù agiva sulla base della fiducia previa delle persone nel suo potere. Tuttavia a ben leggere il Vangelo di Marco, si vede che i miracoli non bastavano per identificare la vera identità dell’uomo di Nazareth. Le folle si entusiasmavano alla vista dei numerosi atti di potenza, ma non vedevano in lui il Messia; i discepoli scorgevano in lui il Messia (Mc 8,27), ma non l’uomo della croce.
Una fede basata solo sui miracoli non è sufficiente. È significativo seguire il cammino di fede di Pietro. Se a Cesarea di Filippi, Pietro era riuscito, per effetto di una rivelazione del Padre, a proclamare che Gesù era il Cristo, al primo annuncio che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, essere riprovato e infine ucciso (cfr. Mc 8,31-33), aveva reagito malamente ed era arrivato perfino a rimproverare Gesù. Le azioni di potenza di Gesù sparivano gradualmente man mano che lo spettro della croce si avvicinava. La potenza dei miracoli si infrangeva nell’impotenza della crocifissione. I miracoli mostrano solo un aspetto della identità di Gesù, ma non sono una via sufficiente per una fede solida. Lo stesso Gesù aveva imposto il silenzio ai demoni e ai discepoli che avevano intuito qualcosa del mistero che lo circondava. Nella prima parte del Vangelo di Marco, Cristo appare come il taumaturgo e maestro, mentre nella seconda parte egli appare come il Servo Sofferente, pronto a dare «la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Ma la croce fa paura. Sulla croce egli aveva sperimentato la totale e profonda solitudine e aveva esclamato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). La voce che aveva sentito nel Battesimo e nella Trasfigurazione ora taceva. Egli si era ritrovato solo mentre esprimeva la totale obbedienza al Padre e donava la sua vita per l’umanità. La croce è il vero scoglio per la fede, il vero problema esistenziale per tutti gli uomini di buona volontà. Per questo Paolo affermava con determinazione: «E mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo un Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza dei pagani» (1Cor 1,22-23). La vera fede, dunque, deve superare lo scoglio della croce. Paradossalmente la croce è il luogo dove l’immensità del suo amore diventa visibile. Agli Efesini Paolo scriveva che «questo amore sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3,19). Tale amore è fuori della nostra portata conoscitiva perché abbraccia le quattro dimensioni cosmiche: ampiezza, lunghezza, altezza e profondità (cf. Ef 3,19). L’universo intero riverbera come una eco perenne dell’immenso amore di Cristo. Tale amore è l’oggetto della nostra fede, che diventa performativa solamente quando potremo dire con Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» (Rom 8,35).
di Antonio Magnante
Antonio Magnante
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