Padre Fabio Malesa nasce nel 1972 a Olbia, Sassari. Mentre studia medicina, capisce che la missione lo chiama. Si forma a Roma, Torino e in Messico. Poi parte per il Mozambico, dove lavora 12 anni. Oggi la sua missione è a Torino, in Casa Madre. Qui progetta con due confratelli il futuro «Polo culturale missionario».
«Durante l’adolescenza a Olbia, quando sognavo di fare il medico, facevo parte di un gruppo guidato dai padri della Consolata. Ricordo padre Silvio Lorenzini, che parlava con entusiasmo dei suoi anni in Tanzania, e l’allegria di padre Luigi Accossato.
Trasferitomi a Sassari nel ‘91 per studiare medicina, ho portato con me i racconti che avevano nutrito la mia immaginazione ed emozionato il cuore a Olbia.
Un giorno, il mio coinquilino Gianfranco mi disse: “Cosa facciamo noi due per gli altri? Che vuol dire essere cristiani?”.
Da quel giorno iniziai a pormi molte domande, e a ipotizzare di andare in un ospedale di frontiera dei missionari della Consolata. Cominciai a sognare l’Africa.
Nell’estate del ‘92 ero a Dublino per imparare l’inglese quando incontrai dei seminaristi messicani. Mi colpì la loro allegria, il senso di famiglia, il loro desiderio di abbracciare il mondo.
Insieme a loro iniziai a pregare e leggere il Vangelo in modo più profondo, e quel terreno interiore che era stato preparato da anni diede i primi germogli.
Nel silenzio della preghiera rividi la mia vita passarmi davanti, e mi resi conto che in quel Gesù che stavo conoscendo, Dio si era fatto vicino alle ferite del corpo e dello spirito di tutte le persone, specie di quelle oppresse.
Pieno di paura, ma fiducioso, decisi di diventare missionario: il Vangelo che aveva consolato me, sarebbe stato medicina di consolazione anche per altri».
Padre Fabio, puoi raccontare la tua storia missionaria?
«È incominciata con i miei genitori Nerina e Pasqualino, parenti e amici. Sono figlio unico e, quando ho detto ai miei che avrei abbandonato medicina per diventare missionario, si sono sentiti spiazzati. Colleghi e amici non capivano la mia scelta e come facessi a essere allo stesso tempo così scellerato e sereno.
Ora, quando torno tra loro, è sempre una festa.
Dal 1992 al 1998 sono stato a Roma per studiare filosofia e teologia e ho frequentato un master per economia di comunità.
Durante la formazione, nel ‘94-‘95, per un anno ho vissuto a El Tigre, in Messico, un villaggio di persone semplici: agricoltori, allevatori e gestori di trattorie affacciate sulla strada principale.
Anche noi lavoravamo con la terra e il bestiame, e andavamo a visitare i villaggi per celebrare la Parola, visitare i malati e le famiglie, guidare i gruppi di giovani.
Lì la fede dava un sapore speciale alle giornate e apriva sempre nuovi cammini. Capitava di passare in breve tempo dalle lacrime al riso: capivamo che la vita è fatta di estremi che si toccano, che ciò che non si può cambiare si deve accettare e che nella fede anche quello che sembra assurdo può avere una sua ragione invisibile da celebrare.
Finita teologia nel 1998 a Roma, ho fatto l’anno di noviziato a Rivoli (To) e, dopo la professione, sono stato inviato in Mozambico dove ho vissuto 12 anni interrotti da altri tre anni in Italia (2002-2005) per la licenza in teologia fondamentale e due anni di insegnamento. In Mozambico sono stato in quattro missioni diverse: Cuamba dal 2000 al 2002, Vilanculos e Mapinhane dal 2005 al 2011, Maputo dal 2011 al 2015.
Cuamba è una città al Nord del paese. La nostra équipe missionaria gestiva una popolosa parrocchia con varie cappelle rurali, aveva costruito e amministrava una scuola secondaria, si prendeva cura anche di un orfanotrofio, un centro per assistere le madri e i bambini malnutriti, scuole di taglio e cucito, una di falegnameria, un centro giovanile con biblioteca e aule d’informatica.
Vilanculos, bellissima cittadina sull’Oceano indiano, e Mapinhane, in zona rurale, distanti tra loro 50 km e con 70 comunità sparse in un territorio molto esteso, sono state la mia seconda tappa. Oltre alle attività parrocchiali e alle visite alle comunità, insieme a due équipe di suore, ci siamo dedicati alla gestione di una scuola secondaria e una decina di materne, all’animazione di gruppi giovanili e di oratori con biblioteche, aule d’informatica, di taglio e cucito, di arti visuali e musicali.
A Maputo, la capitale, il nostro gruppo di padri, suore e laici prestava servizio a due parrocchie di periferia (Liqueleva e Liberdade) con attività pastorali e formative rivolte a tutti. Il lavoro d’équipe ha reso le due comunità autonome anche da un punto di vista economico, e la parrocchia di Liqueleva è stata restituita alla responsabilità della diocesi.
Nel 2015 sono tornato in Italia: due anni di studio a Roma e, infine, dal 2017, a Torino, per l’ufficio legale dell’Istituto e per seguire i benefattori.
Dal 2021 faccio parte di una nuova équipe con padre John Nkinga e padre Piero Demaria per coordinare le attività del nascente Polo culturale con sede nella nostra Casa Madre.
Ci mettiamo in gioco per creare un atelier missionario di dialogo tra culture che abbia un respiro universale. A Dio piacendo entrerà in funzione a breve».
Dove e quando hai emesso i voti e sei stato ordinato?
«I primi voti a Rivoli nel 1999. I perpetui a Roma nel 2002. Sono stato ordinato a Olbia nel 2007».
Quali sono le sfide missionarie in Italia?
«Due grosse sfide sono la presa di coscienza di un cambio di paradigma missionario e la necessità di nuove metodologie di lavoro. L’Italia è, a tutti gli effetti, una terra di missione che ha un urgente bisogno di riscoprire il proprio patrimonio cristiano e la forza liberante che da esso può essere generata.
La chiesa dall’altra parte deve diventare un laboratorio permanente dell’immaginario, capace di accendere/riaccendere il desiderio di Dio».
Qual è la difficoltà più grande che incontri?
«Se da un lato in Italia sono cambiati molti di quei valori di riferimento che sostenevano le generazioni passate e si assiste a un certo disorientamento generale, dall’altro le nuove generazioni si trovano a fare i conti con una società invecchiata che resiste al cambiamento e che a volte fa fatica a lasciare spazio ai giovani».
La soddisfazione più grande?
«Vedere qualcuno che, dopo un dialogo, esce da casa nostra sollevato, consolato perché si è sentito accolto e amato.
Poi sapere che molti, nonostante le differenze, riescono a costruire ponti all’interno di questa società multiculturale».
Ci racconti un episodio della tua vita missionaria?
«Ciò che mi ha sempre commosso sono le partenze dalle missioni: una volta create amicizie, legami profondi, preparare la valigia per andare da altri, è difficile. Ma è anche bellissimo, perché ti fa toccare con mano la vicinanza e l’affetto delle persone che hai servito e ti fa sentire di aver ricevuto molto più di quello che hai dato. Quando, salutandoti con riconoscenza, ti chiamano “papà”, senti che è valsa la pena di aver speso energie a favore della tua “famiglia”».
Che cosa possiamo offrire al mondo come missionari della Consolata?
«Noi stessi con la nostra ricchezza e diversità culturale ed esperienziale. Siamo originari di diverse nazioni e, fin dal seminario, siamo ospiti di realtà culturali diverse da quelle di origine. Possiamo aiutare la gente ad aprirsi all’incontro e a costruire relazioni sociali più giuste e fraterne».
Suggerimenti per lavorare con il mondo giovanile?
«Penso che ai giovani faccia piacere vedere delle comunità in cui si sta insieme, si lavora con gioia e autenticità, si lascia spazio alle idee di tutti. Se trovano uno spazio del genere, la fede può far breccia ed essere tradotta in una cultura che oggi appare molto distante dal discorso religioso».
Uno slogan per i giovani dei nostri centri missionari?
«Se ci provi, certo puoi sbagliarti, ma se nemmeno ci provi, ti togli qualsiasi possibilità di riuscita.
La fede cristiana è una grande officina di vita, ci aiuta a capire che, nonostante le nostre debolezze, prima o poi riusciamo a fare centro, e che ci realizziamo come persone quando ci spendiamo a favore degli altri. Costa, ma ripaga ampiamente».
di Luca Lorusso
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Luca Lorusso
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