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Inni cristologici /2

La ricchezza divina sull'umanità

Particolare di un’icona russa di fine 800. Gesù nell’orto del Getsemani.

L’inno di Paolo nella Lettera ai Filippesi. Pur essendo Gesù di natura divina, si fece uomo per restaurare il cosmo, per riversare la ricchezza divina sull’umanità.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù: il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, e diventando simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).
L’inno cristologico della lettera ai Filippesi di Paolo viene spesso citato a partire dal versetto sei fino al versetto undici. Tuttavia, per capire la sua dinamica interna noi preferiamo iniziare dal versetto 5: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù».
Paolo desidera che nella sua comunità regni concordia e armonia. Sembra che ci sia stata una divisione tra i collaboratori di Paolo (vedi 4,2-3). Questo era probabilmente causato da orgoglio e mancanza di umiltà. I membri della comunità mettevano in primo piano i loro interessi personali. Paolo esorta a prendere Cristo come modello, ad avere i suoi stessi sentimenti. In altri termini, li esorta ad assumere la stessa mentalità di Cristo, il suo modo di pensare.
Paolo offre l’esempio luminoso del Cristo al fine di eliminare i dissidi interni della comunità. Esorta i fedeli a conformarsi in modo decisivo a Lui in quanto unico modello da seguire. Il credente mentre lo segue ne esalta la dignità e la gloria.

Chi è costui?

A questo punto ci si deve porre una domanda: «Chi è, dunque, costui al quale il credente deve conformarsi?». L’inno di Paolo risponde descrivendo nella sua prima parte (vv. 6-8) la preesistenza del Cristo e la sua volontaria oblazione: «Egli pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio».
La stessa realtà si ritroverà poi nel Prologo giovanneo: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1).
Egli, dunque, prima di iniziare la sua discesa verso l’umanità, esisteva «nella forma divina». Il termine «forma», se applicato a Dio, si riferisce al suo essere più profondo, a ciò che è in sé, a ciò che non può essere raggiunto dalla conoscenza umana per il fatto che Dio è invisibile.
Dunque il termine rappresenta la natura e il carattere essenziale di Dio. Quando, però, lo stesso termine «forma» è applicato a Cristo, esso descrive il fatto che egli, al di fuori della sua natura umana, non aveva altro modo di esistere se non quello di essere nella forma di Dio. In altre parole, egli possedeva la natura divina. Già le prime comunità giudeo cristiane credevano nella divinità di Cristo.
L’inno subito puntualizza che questa speciale condizione di Cristo non è da lui considerata un privilegio. La sua uguaglianza con Dio non è usata da lui a proprio vantaggio e per un personale interesse.
Nella realtà dei fatti, Gesù, in forza della sua obbedienza al Padre (2,8), svuotò se stesso, evitando una polarizzazione personale. Egli usò la sua uguaglianza con Dio per arricchire gli altri, si fece povero per arricchire molti (cfr. 2Cor 8,9; Ef 1,23; 4,10). Egli riversò sull’umanità la pienezza della sua ricchezza incalcolabile.

Vero Dio e vero uomo

L’atto di «spogliare se stesso» da parte di Dio è specificato in modo chiaro dalle tre frasi al gerundio che seguono: «assumendo la condizione di servo», «diventando simile agli uomini» e «apparendo in forma umana».
In questo processo di avvicinamento all’umanità e di identificazione con essa, Cristo non abbandona la sua condizione divina. Per il momento, per così dire, la cela.
Il primo gerundio, «assumendo la condizione di servo», descrive come Gesù, nella sua esistenza terrena, non si distingueva in niente con l’umile e bistrattata condizione dei servi, che svolgevano i lavori più umili, al servizio incondizionato dei loro padroni. Si può qui asserire che Gesù, nell’entrare nella vita umana, non vi entra come Kyrios (Signore), ma come schiavo, senza vantaggi, senza diritti e privilegi, come servo di tutti (cfr. Mc 10,45).
Il secondo gerundio, «diventando simile agli uomini», segna nell’azione di Cristo un movimento, un divenire. Tuttavia, va notato che il suo divenire simile agli uomini non lo priva della sua forma divina. La parola greca homonomia significa somiglianza, identità. Quindi, Gesù era diventato in tutto e per tutto un essere umano in carne e ossa, visibile, palpabile e udibile.
La veridicità della sua natura umana viene anche ribadita dalla prima Lettera di Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1,1). I docetisti, quelli cioè che ritenevano che la forma umana di Cristo fosse solo un’apparenza, sono avvisati: la comunità giovannea ne fa una esperienza tattile come prova inconfutabile della sua vera natura umana.
Il terzo gerundio, «apparendo in forma umana», rafforza la reale identità umana di Gesù. Nella sua incarnazione, il Cristo si è identificato con l’umanità, è divenuto un vero uomo non solo nella sua apparenza esteriore, ma anche nel pensiero e nel sentimento.

Inondare l’umanità della ricchezza di Dio

I lessemi «forma», «somiglianza» e «aspetto» indicano che Gesù ha condiviso pienamente la nostra esistenza umana.
In forza della sua obbedienza al Padre, ha scelto il luogo dove non si combatte per l’onore, il diritto e il merito. L’abbandono, l’abnegazione e il sacrificio di sé sono gli elementi che qualificano la sua uguaglianza con la realtà umana. Il fine di tutto questo è di inondare l’umanità della sua ricchezza divina.
Qui va anche notato che Paolo vede la morte di Gesù come un suo atto supremo di obbedienza alla volontà del Padre. Egli obbedisce al Padre «fino alla morte e alla morte di croce». Questa totale e incondizionata obbedienza descrive il grande abbandono del Cristo alla volontà del Padre, soprattutto se si tiene in conto che la crocifissione era considerata un’orribile pena capitale, riservata ai ribelli e agli schiavi, ed era inoltre la massima espressione di disonore.
Per questo motivo ci fu, all’inizio del cristianesimo, una scarsa adesione di patrizi e persone di una certa importanza. La croce ha segnato il punto più basso della degradazione e della umiliazione di Cristo. Da lì, da quell’abisso di sofferenza, si è elevata la sua voce al Padre per una restaurazione cosmica.
L’espressione «fino alla morte e morte di croce», dunque, dà la misura dell’amore immenso di Cristo per l’umanità. La risposta di Cristo al piano del Padre non si esaurisce nell’espressione «sono venuto per fare la tua volontà» (Eb 10,7), ma anche «sono venuto per cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), e ancora «per servire e dare la vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Per realizzare una tale salvezza, Gesù si è posto al servizio della persona umana per ridarle la dignità perduta con il peccato e per infonderle coraggio per una definitiva riconciliazione con il Padre.

Domande per noi

  1. Nella mia vita spirituale provo a sentire gli stessi sentimenti di Gesù?
  2. Provo a conformarmi a Lui nel mio agire?
  3. Credo alla preesistenza del Cristo, alla sua natura divina?
  4. Cristo ha svuotato sé stesso per arricchire gli altri: gli altri che posto hanno nel mio impegno?
  5. Mi sono mai vergognato di essere un seguace di un Maestro morto in croce?

di Antonio Magnante

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