Slow page dei Missionari della consolata

Mongolia, la grande piccolezza

Una giovane missionaria italiana in Mongolia


Suor Francesca Allasia, torinese di 35 anni, è entrata nelle missionarie della Consolata nel 2013. Ha fatto la prima professione nel 2020, ed è partita per la Mongolia il 6 settembre 2022: una missione sotto il segno della piccolezza.

La Mongolia è un Paese lontano. Non solo geograficamente: clima, cultura, lingua, modo di percepire le cose e di vivere, sono totalmente altri rispetto a quelli che conoscevo.
Ed è per questo che, arrivata qui, è cominciato quel benedetto scombussolamento che capita nel cuore del missionario che si lascia toccare dalla nuova realtà in cui si trova: sentirsi sottosopra; dover ricominciare tutto da capo; essere circondati da persone che parlano una lingua sconosciuta della quale si fa fatica a riconoscere i suoni e che fa venire il mal di testa; attraversare un inverno nel quale a meno 30 o 40 gradi anche le ciglia e gli occhiali si ghiacciano quando si va fuori.

Senso di casa

Allo stesso tempo sento un profondo senso di casa, un sentimento di appartenenza che nasce e cresce nel cuore. Qui in Mongolia scopro di essere pellegrina, una «nomade di Dio» che ha lasciato il conosciuto per accogliere il nuovo che la missione offre, che attraversa il deserto geografico, ma anche quelli della vita, con la fatica di far parte di una comunità piccola, ma con la certezza che il Signore non fa mancare l’acqua della sua Parola e neanche preziosi compagni di cammino.

Diventare piccola

Il popolo mongolo è ricco di valori e di storia, un popolo nomade di persone forti che osservano con molta attenzione ciò che le circonda, e sanno cogliere se vuoi bene loro in modo sincero oppure no.
Per loro i gesti sono carichi di significato e di ritualità.
La vita qui mi sta insegnando il valore della piccolezza che si vive nella quotidianità, vero luogo della missione.
Essere piccola non è così facile: richiede una buona dose di pazienza, fiducia, energia, umiltà, semplicità; ci vogliono occhi curiosi, orecchie attente, cuore aperto e disponibile a lasciarsi trasformare.
Diventare piccola porta con sé anche quella dose di dolore che ogni svuotamento e abbassamento richiede: a 35 anni devo imparare nuovamente a leggere e scrivere; perfino a camminare, come mi suggeriscono alcune memorabili e stilose cadute nel mezzo della strada ghiacciata.
Giorno dopo giorno imparo come ci si avvicina alla gente, come si saluta, si ringrazia, come entrare in una gher, la tradizionale abitazione mongola, un luogo piccolo che però diventa spazio prezioso e segno di vita.

Imparare da una gher

Anche da una gher si può imparare la piccolezza. Papa Francesco, durante la sua visita in Mongolia del settembre scorso, l’ha descritta bene: «La gher costituisce uno spazio umano: al suo interno si svolge la vita della famiglia, è luogo di convivialità amicale, di incontro e di dialogo dove, anche quando si è in tanti, si sa fare spazio a qualcun altro. E poi è un punto di riferimento concreto, facilmente identificabile nelle immense distese del territorio mongolo; è motivo di speranza per chi ha smarrito la strada: se c’è una ger c’è vita. La si trova sempre aperta, pronta ad accogliere l’amico, ma anche il viandante e persino lo straniero. […] Ma, insieme allo spazio umano, la ger evoca l’essenziale apertura al divino. La dimensione spirituale di questa dimora è rappresentata dalla sua apertura verso l’alto, con un solo punto dal quale entra la luce, nella forma di un lucernario a spicchi. […] C’è un bell’insegnamento in questo: il senso del tempo che scorre giunge dall’alto, non dal mero fluire delle attività terrene. In certi momenti dell’anno, poi, il raggio che penetra dall’alto illumina l’altare domestico, richiamando il primato della vita spirituale».

Una piccola comunità

La piccolezza si impara anche a scuola, ogni giorno, sotto la guida degli insegnanti e nell’incontro con i miei compagni di classe, provenienti per lo più da diversi paesi dell’Asia. Con loro condivido la vita, la fatica e le conquiste dello studio del mongolo che, a volte, è l’unica lingua comune.
Altro luogo piccolo, ma essenziale per la vita missionaria, è la comunità: io e le mie consorelle viviamo in un appartamento al quarto piano di un edificio, siamo in quattro di tre nazionalità diverse; una delle camere della casa è la nostra cappella.
Quasi ogni giorno celebriamo messa con i nostri confratelli Imc qui in casa e mi sembra di rivivere l’esperienza dei primi cristiani.
La vita in comunità, con i suoi aspetti piccoli e ordinari, è molto importante: un gesto, una parola, la cura dell’ambiente, il sedersi insieme a condividere quanto si vive può scaldare e incoraggiare il cuore, così come i silenzi e le tensioni possono pesare come cento chili.
Ci riuniamo attorno a Colui che ci ha chiamate qui. Ci sentiamo quindi una comunità «abitata», e questo è un altro aspetto della piccolezza: affidarsi a Lui, tenerlo per mano nel cammino.

Ci vuole un fiore

Veniamo, infine, agli speciali maestri di piccolezza: i bambini.
Un giorno, nel nostro centro per bambini che si trova nel distretto di Cingheltei, nella capitale Ulaanbaatar, una bambina si avvicina tutta orgogliosa, mi presenta la sorellina che quel giorno è venuta con lei, e poi iniziano a giocare. Un po’ più tardi, la stessa ragazzina mi dice: «Sai? Noi ci conosciamo già! Durante la festa del Tsagaan sar (il nuovo anno mongolo) tu hai preparato un fiore con il tovagliolo e lo hai regalato alla mia sorellina. Ti ricordi?».
Sì mi ricordo: è stato diversi mesi fa, e adesso entrambe le bambine sono cresciute, ma quel fiore ha segnato la nostra alleanza ed è stato l’inizio di un’amicizia.
La missione qui è fatta di gesti piccoli, semplici che però hanno una risonanza nei cuori delle persone che non possiamo neanche immaginare.
C’è una famosa canzone italiana di Sergio Endrigo dal titolo Ci vuole un fiore che inizia così: «Le cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare ed ascoltare», e poi canta tutto il cammino che porta dal fiore alla costruzione di un tavolo. In esso ogni piccolo passo è prezioso, necessario e dà vita a quello che segue.
Penso che non ci siano parole migliori per descrivere ciò che sto scoprendo, giorno dopo giorno, in Mongolia, e per rivelare il tesoro e la profondità racchiuse nella piccolezza.
Questa missione richiede passione, coraggio, sacrificio, la volontà di guardare in se stessi con verità e di scendere in profondità, per vivere una vita piena e vera. Richiede la pazienza dei piccoli passi, la forza di rialzarsi dopo le cadute e la generosità del seminatore che non risparmia semi per la terra in cui si trova.
Questa missione richiede la capacità di amare il doppio e vigilare il doppio sul proprio cuore e, allo stesso tempo, dona moltissimo a chi si apre a essa.
Auguro a tutti questa esperienza trasformante e appassionante alla quale porta la «scuola della piccolezza».

di Francesca Allasia

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