L’anno 2020 è stato l’anno della pandemia da coronavirus e di tutte le sue conseguenze. Molte funeste, molte ancora da scoprire e analizzare.
Anche l’animazione missionaria, nel suo piccolo, ha avuto le sue difficoltà, e si è dovuta adeguare, rinunciando, ad esempio, per la prima volta in decenni, alle esperienze estive in missione.
Comunque non ci si è dati per vinti, e molti hanno affrontato la nuova realtà adattandosi e scoprendo anche modalità nuove per comunicare il
Vangelo a chi ne ha bisogno, lì dove si trova.
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Tempo di realismo, ascolto e fiducia
In un viaggio in missione compiuto qualche anno fa in Mozambico, io e il gruppo che accompagnavo, abbiamo incontrato un popolo «festaiolo» per il quale ogni occasione era buona per mangiare bene, bere, stare insieme.
L’occhio critico di uno dei giovani che erano con me, gli ha fatto osservare che le feste costano, e che quelle persone erano povere, in alcuni casi, fino all’estremo.
Un padre missionario di lunga data in quel paese allora ci ha offerto una lettura interessante: il popolo mozambicano ha vissuto una guerra di venti anni e, durante il conflitto, nessuno poteva prevedere quando i soldati sarebbero arrivati a massacrare e saccheggiare. Non era possibile pensare di mettere da parte niente: i soldati del governo, oppure i ribelli, a seconda dei casi, avrebbero portato via tutto. Qualsiasi momento, quindi, era buono per festeggiare, appena si racimolava qualcosina.
Questa mentalità era rimasta.
Non è tempo di dare colpe
Penso che l’esperienza incontrata in Mozambico, in qualche modo assomigli a quello che stiamo vivendo tutti noi oggi, e sopratutto i giovani: essi, infatti, assistono all’evolversi della situazione della pandemia pensando al loro futuro, alle loro relazioni, alla loro vita. Sembrano spavaldi e vengono addossate loro le colpe della ripresa della diffusione del coronavirus perché sono andati in giro e hanno fatto movida. Hanno anche, come sempre, disertato la chiesa!
Penso però che non sia il momento di dare colpe.
È un tempo complesso, questo, per i giovani, le famiglie, la chiesa, la pastorale giovanile.
Animazione azzoppata
Noi missionari ci siamo trovati privati della possibilità di fare con i giovani le nostre tipiche esperienze estive in missione, i raduni annuali, i momenti di formazione e programmazione.
Abbiamo potuto fare solo incontri online, e l’incertezza del momento rende praticamente impossibile programmare qualsiasi cosa. Si vive alla giornata.
Questo periodo ci fa vivere con l’ansia, pensando anche, con una certa nostalgia, ai tempi passati (solo qualche mese fa!), nei quali, comunque, non mancavano i problemi e le eterne litanie di lamentele sulle cose che non andavano nella pastorale giovanile.
Convocare con amore
Una grossa domanda ci interpella: cosa sarà della pastorale giovanile quest’anno? Sarà un tempo di riflessione? Dovremo tentare di riprendere quello che abbiamo sempre fatto? Aspettiamo e stiamo nell’inerzia?
La prima cosa che gli animatori missionari penso possano fare, è di rimanere presenti nella vita dei giovani. Presenti nella quotidianità della loro vita.
Se non possiamo radunarli per momenti di festa, di attività, per esperienze, possiamo però convocarli con il nostro amore, con una presenza qualificata.
I giovani soffrono più di altri la solitudine, hanno domande aperte sulla fede, sulla vita, sul futuro. Possono trovare in noi, non le risposte, ma stimoli per percorrere il loro cammino.
Se non abbiamo avuto tempo nel passato per un accompagnamento personale, adesso, con molta più calma, possiamo farlo.
Nell’ascolto a tu per tu con il giovane, impareremo a entrare nel suo linguaggio, nei suoi veri interessi, nella sua vita.
Questo è un aspetto nel quale fatichiamo tanto, quello di capire i linguaggi dei giovani attraverso i quali siamo chiamati a trasmettere il Vangelo. Ci farebbe bene dunque.
Scrutare i territori
Le povertà più diverse continuano a dilagare. I giovani, nella loro freschezza e nel loro entusiasmo possono entrare in contatto con queste povertà, che spesso sono una scuola di vita.
Se quest’anno non potremo fare delle grandi esperienze di massa, possiamo però proporre piccole esperienze significative, per la promozione umana dei poveri nei nostri territori, insieme ai nostri giovani.
Noi missionari siamo chiamati ad avere uno sguardo particolare alle persone e ai territori. Ecco perché ci teniamo alle esperienze in missione, per toccare con mano il vissuto della gente.
Se non possiamo andare in Africa o Sud America o Asia, possiamo però scrutare i nostri territori: le povertà, anche nel nostro Occidente, sono tante, ed esigono una nostra presenza per portarvi l’amore di Dio.
I giovani possono essere protagonisti in questo.
Trasmettere fiducia
Un ultimo appunto riguarda noi animatori missionari, consacrati e laici. Tutti, come ci dice il papa, siamo nella stessa barca, e quindi siamo chiamati a confrontarci con la realtà, anche con quella della paura del contagio e dell’ansia del vivere. Noi stessi sentiamo questa paura e ansia. Questo ci può aiutare a entrare in contatto con molti giovani che si sentono disperati, che hanno tendenze depressive, soprattutto in un periodo stressante e di grande preoccupazione come questo.
Dobbiamo essere uomini e donne di grande fiducia, perché i giovani hanno bisogno di vederci gioiosi, anche in mezzo ai problemi. È tempo di trasmettere fiducia, grande fiducia, nel Signore, nella vita, nella missione.
di Nicholas Mutoka
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A tu per tu
Nella parrocchia torinese di Maria speranza nostra, nel quartiere multietnico di Barriera di Milano, la pandemia ha inasprito le difficoltà, già grandi, di molte famiglie e giovani.
L’oratorio ha tentato di porre una «toppa» grazie alle attività estive, proposte in forma ridotta, ma con l’entusiasmo di sempre.
I giovani più colpiti dall’esperienza della pandemia sono quelli più fragili, quelli che magari, dietro a loro, non hanno delle famiglie che li sostengano, quelli «di strada», che vivevano in modo precario già prima, e che adesso si trovano nella miseria: si tratta di giovani di varie provenienze e che hanno alle spalle un arduo percorso di vita.
Giovani in difficoltà
Questa categoria di giovani ha occupato buona parte delle nostre energie in questi ultimi mesi segnati dalla pandemia.
Occupano i pensieri e le risorse, occupano il tempo e la riflessione.
Un’attività quotidiana, quindi, fatta di accoglienza, di ascolto, di aiuto concreto, di impegno per assicurare i loro diritti e assistenza da parte delle istituzioni.
Ci sono pure i giovani con famiglie difficili che hanno avuto un’esperienza traumatica durante il periodo del lockdown: litigi, silenzi, e fughe dalle famiglie stesse.
Questa esperienza della pandemia, ci ha fatto vivere, e sopratutto ci ha insegnato, che la pastorale giovanile non è fatta solo di attività programmate, esperienze forti e impegnative, e di momenti di condivisione, ma anche, e in certi momenti, soprattutto, di cura delle persone, del loro vissuto, di accompagnamento.
Piccoli numeri, grande attenzione
Certo, anche alcune delle attività un po’ più «ordinarie», le abbiamo fatte: tra esse l’estate ragazzi.
Le preoccupazioni, anche in questo caso, non sono mancate, soprattutto a livello organizzativo per la quantità di lavoro burocratico e le attenzioni che bisognava prestare, ma il Signore è stato con noi e, nonostante tutto, la gioia sul volto dei bambini, dei giovani e delle famiglie, è stata il segno visibile della grazia.
Il centro estivo quest’anno ci ha fatto vivere un altro aspetto importante della pastorale giovanile e dei fanciulli, quello dell’attenzione alla persona. I numeri limitati per gli spazi e anche per le regole precise dateci dalle istituzioni, ci hanno dato l’occasione di conoscere e seguire più da vicino i bambini e i giovani, cosa che di solito, a causa dei numeri elevati, è più scarsa, nonostante le buone intenzioni. Il fatto stesso di avere, per così dire, osato fare l’estate ragazzi, è stato apprezzato dalle famiglie come una forma di vicinanza e attenzione al loro vissuto, sopratutto subito dopo il periodo della chiusura forzata.
È stata, per i bambini, le famiglie e i giovani una bella boccata d’aria.
Anche questa è stata un’opportunità e un insegnamento da custodire.
di Nicholas Mutoka
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Nati per volare
Durante l’estate del Covid, anche a Martina Franca (Ta) gli animatori hanno provato a offrire momenti di condivisione ai giovani e ragazzi del Centro di animazione della Consolata.
Ecco l’esperienza del gruppo Acro1, quindici ragazzi dai 10 ai 14 anni con il desiderio di «prendere il volo».
«Nati per volare» è lo slogan che ha accompagnato il gruppo Arcobaleno 1 del Centro di animazione missionaria di Martina Franca (Ta) per una settimana, dal 18 al 25 luglio 2020, presso «L’oasi dei trulli» dei padri carmelitani, un posto immerso nella natura a Martina Franca.
Quest’anno è stato un campo scuola diverso dagli altri a causa dell’emergenza Covid che ha comportato diverse difficoltà e cambiamenti.
Abbiamo dovuto rinunciare a trascorrere le notti insieme: niente convivenza, e nemmeno siamo potuti stare insieme a tavola. Il campo infatti si è tenuto nei pomeriggi, dalle ore 15 alle 22, sette ore piene e ben condensate con 15 splendidi «arcobalenini» di età comprese tra i 10 e i 14 anni.
Nonostante le limitazioni, l’entusiasmo però era grande, e abbiamo respirato, anche se con le mascherine, un clima piacevole e famigliare, all’insegna dello stare insieme, della condivisione, del confronto, della preghiera e del gioco.
Ragazzi e animatori ogni giorno fremevano perché arrivassero presto le 15, per vivere un altro meraviglioso pomeriggio.
Puntare in alto
«Nati per volare» è stato il titolo del nostro campo, ispirato alla storia del Gabbiano Jonathan Livingston, un gabbiano «diverso» dagli altri, che ha ben chiaro il suo obiettivo: imparare a volare in modo perfetto!
Punta in alto Jonathan, nonostante le innumerevoli battute d’arresto e i pochi stimoli da parte degli altri, compagni di stormo che credono poco in lui e nelle sue capacità. Gabbiani che, diversamente da Jonathan, vivono come galline, scelgono di accontentarsi, per paura di fallire, o semplicemente perché preferiscono intraprendere la strada più semplice.
Quante volte queste galline siamo noi.
Perciò è bene e utile riflettere su questo, con gli altri. Che cosa scegliamo di essere, come decidiamo di sfruttare il tempo che ci viene donato: accontentandoci, spesso anche della «spazzatura» (quella mangiata dagli amici gabbiani di Jonathan), facendo il minimo indispensabile, o, al contrario, credendo in noi stessi, nei talenti che il Signore ci dona, sfruttandoli per fare qualcosa di bello, sognando e puntando in alto?
Questi temi hanno fatto da sfondo durante il «campo», abbiamo avuto modo di approfondirli in diverse attività e sotto vari punti di vista.
Alla fine della settimana tutti hanno fatto propria la frase che Jonathan dice: «Non siamo nati per stare a terra, ma siamo nati per volare!».
di Annalisa Abbracciavento
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Giovani IMC
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