Non mi sono mai sentita così persa come dopo questo ritorno.
Forse è proprio vero che il viaggio comincia alla sua conclusione, quando si riprendono la solita vita e le solite abitudini.
Sono partita il 6 Agosto da Torino Caselle, insieme ad altri 10 ragazzi intorno ai vent’anni come me, una mamma un po’ più grande di noi e Fabrice, il nostro accompagnatore del CAM (centro di animazione missionaria).
Destinazione Tanzania, per la precisione Tosamaganga, un piccolo villaggio nell’entroterra vicino alla cittadina di Iringa. La missione che ci ha accolto è a pochi passi dal festeggiare i cent’ anni dalla fondazione, per cui è una delle più grandi e più antiche della Tanzania, e ci ha subito stupito per l’immensità delle sue strutture e delle sue persone. Sono presenti due scuole primarie, maschile e femminile, una scuola secondaria, un orfanotrofio, diversi laboratori di falegnameria, officine di meccanica e una centrale idroelettrica.
Le suore della missione sono circa seicento, i Padri meno di dieci. Ci hanno accolto in una casetta posta di fianco alla Chiesa principale, con un’ ospitalità e una gentilezza che rare volte mi è capitato di sperimentare: in particolare Padre Jona, che è stato la nostra guida e il nostro punto di riferimento per l’ intera permanenza, si è subito mostrato un esempio di disponibilità e pazienza.
Stordita, come in estasi
Mentre sto scrivendo è il 10 settembre: sono tornata ormai da due settimane, ma solo con il corpo. Spesso i miei pensieri mi riportano in mezzo alla savana, magari su qualche jeep o sul pick-up, che permettendoti di viaggiare in piedi all’aria aperta, ti da la possibilità di volare. Oppure mi riportano in mezzo a tutti quei bambini agitati e felici, che spesso ci facevano da ombra. Mi sembra di sentire il suono dei tamburi, le urla di gioia delle donne, i canti del coro che ti lasciano sena fiato.
Forse nel metabolizzare le mie emozioni non mi sono resa conto di quanto fossi stordita laggiù, come in estasi.
Detto così, sembra che tutto quello che ho vissuto sia stato meraviglioso. In realtà non è proprio così. O meglio, può esserlo oppure no, in base agli occhi con cui lo guardi.
Se penso alla prima mattina in orfanotrofio, a dir la verità, non ero così felice. In quella stanza, piena di bambini sporchi e urlanti, sporca anche io della loro pipì e del loro moccio, non ero affatto allegra. Faceva caldo e mi sentivo soffocare, e non sapevo dove muovermi e cosa fare. Avevo mal di testa e tutti i bambini urlavano, un po’ per la gioia della nostra presenza, un po’ per i loro pianti striduli, tipici di quell’età.
Eravamo tutti seduti per terra o sui lettini e li facevamo saltellare, pulivamo loro la bava, mentre chi doveva prendersi cura di loro era sparito. Devo ammettere che ad un certo punto mi sono agitata, un po’ alterata: mi chiedevo cosa potessimo fare noi per loro, perché fossero tutti sporchi e piangenti. Quando ho scoperto che l’orfanotrofio, che ospita circa cento bambini, è gestito da due suore e un paio di ragazze, mi è sembrato tutto più chiaro, e allo stesso tempo saliva l’amarezza.
Perché il mondo è così ingiusto? Perché io ho sempre vissuto negli agi, nei vizi, perché ho sempre ricevuto amore, così tanto che in certi momenti non lo sopportavo più e mi stava stretto, e questi bambini sono qui a farsi imboccare e cambiare da una perfetta sconosciuta, che oggi c’è, e domani probabilmente sarà sparita, come un’apparizione?
Tutti hanno il diritto di ricordare qualcuno
Lo so che loro non si ricorderanno di me, che io sono stata una delle tante a passare di lì, dar loro due carezze, il barlume di un ipotetico affetto materno, e andare via. Sarò allontanata dalla loro mente come una foglia al vento.
Tutti hanno il diritto di ricordare qualcuno. Di ricevere le attenzioni che solo chi ti sta accanto ogni giorno ti sa dare e ti può dare.
Ho pensato a quanto sia insulso e ipocrita il mio mondo: il mondo delle apparenze, di chi giudica per cattiveria, oppure solo per noia. Ho pensato a quanti momenti di noia e vuoto sono passati nella mia vita, e a quanto siano stati prezioso tempo sprecato, arrotolato e gettato via.
Lì il tempo non basta: il tempo di un bambino non è quello di cento. Bisognerebbe moltiplicare ogni giornata per cento per poter arrivare ad un tiepido benessere.
Ma sembra che loro non se ne accorgano, del tempo. Non è così temuto, non si cerca di fermarlo né di rincorrerlo. L’Africa é l’accettazione delle cose, e quindi anche del tempo. Non si rimane bambini tutta la vita, né vecchi per sempre. Si vive ogni giornata come il regalo più bello del mondo. Si ringrazia per il nuovo giorno che ci è stato donato, si ringrazia prima e dopo mangiato. Si ringrazia per esserci, aldilà del tempo per cui ci saremo. E quante cose per me così scontate, leggevo negli occhi di quei bambini, in realtà non lo sono.
Credo che l’unica cosa a non mancare, quando tu non sei più nulla, siano gli altri
E anche nella stretta di mano di quel vecchio senza braccia, in quella capanna di fango buia, con il tetto di paglia, ho letto la superficialità e la stoltezza del mio mondo. Siamo stati con lui non più di tre minuti, ma mai mi era capitato di vedere tanta povertà e tanta ricchezza tutte insieme.
La povertà della sua dimora, spoglia di qualsiasi cosa, oppure quella delle sue braccia senza mani. La ricchezza del suo sorriso, che mi ha sbattuto in faccia la felicità di un incontro. Come si fa ad essere così felici in quelle condizioni io non lo so. Non so nemmeno se la mia mente sia abilitata a comprenderlo. Ci chiedevamo: chissà se quel vecchio conosce la parola povertà, quanto si sia mai spinto aldilà della sua capanna e di quelle vicine, se nella sua mente sia mai sorto il pensiero che si possa stare meglio di così. Dal suo sorriso certamente non sembrava.
Cosa ti rimane, quando ti spogli di tutto? Quando sei privo dei tuoi vestiti, della tua reputazione, dei tuoi libri, delle tue convinzioni? Credo che l’unica cosa a non mancare, quando tu non sei più nulla, siano gli altri. Le persone che ti circondano. E allora forse mi sono spiegata l’entusiasmo di quei tre minuti, e quanto vorrei provarlo anch’io. Desidero davvero che il tempo non cancelli la sensazione di pienezza che mi ha dato la povertà di quei giorni, ma ho paura che succederà. Temo che gli strati che l’Africa mi ha tolto si riformino piano piano, come una mensola che accumula la polvere negli anni. Ed è così grande lo sforzo da fare per evitare che succeda. Ma almeno questo penso di averlo capito, che si sia radicato in me: la bellezza delle piccole cose, credo di averla compresa.
Le fortune che ho, ora sono più lampanti che mai. L’unica cosa che sento di dire è un grazie a piena voce: al mio gruppo, che mi ha permesso di vivere quest’esperienza con undici paia di occhi in più, alle persone magnifiche e a quella terra rossa, in cui certamente tornerò.
Di Rachele De Cianni
Rachele De Cianni
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