Il racconto di quattro giovani di ritorno da un’esperienza missionaria in Tanzania.
«Quando arrivi, capisci che c’è qualcosa di sbagliato, se non tutto». A dirlo è Betta: membro del quartetto del Gem (gruppo Giovani e Missione, ndr) che nell’agosto 2012 ha vissuto un’esperienza di conoscenza e lavoro a Morogoro, in Tanzania. L’arrivo di cui parla è quello in Italia: il rientro, la ripresa di una quotidianità vissuta con sguardo rinnovato…
Uno dei grandi meriti dell’anno di formazione al Cam di Torino sta nell’averci alleggerito da pregiudizi, sovrastrutture, parametri europei, per incontrare il Tanzania con la disponibilità a scoprire e assorbire, almeno un poco, la grandezza e ricchezza dell’Africa. Eh sì, perché l’impatto è straniante: tutto appare immenso; le differenze rispetto alla nostra società sono nette, le basi del vivere e del sognare sono altre, benché l’umanità che ci unisce sia più forte. È strano anche essere percepiti dai tanzaniani come diversi, a volte straordinari, a volte anormali.
Ci ha colpito un episodio dei primi giorni: padre Erasto, che ci ha ospitati, nel presentarci ai bambini all’asilo di Kasanga, ha chiesto loro se sapevano chi fossimo. La risposta è stato un coro di «wazungu!», ovvero «europei». A quel punto Erasto ha domandato se anche padre Nicholas, kenyano, che ci accompagnava, fosse «mzungu». Dopo un attimo di esitazione, un bambino ha detto: «È un bin Adam», un figlio dell’uomo, un essere umano. La distinzione ci ha fatto ridere e riflettere: noi chi siamo? E che funzione abbiamo qui, in questa terra? La nostra presenza lì non ha certo cambiato la qualità della vita della gente; il cambiamento è avvenuto in noi.
Per due settimane abbiamo partecipato alla vita dell’asilo di Kasanga con alcuni momenti di conoscenza reciproca in classe – imparavamo più noi che i bambini, ma lo scambio piaceva anche a loro –, e con l’animazione di giochi e canti. La frequentazione quotidiana ci ha permesso di essere apprezzati per le attività proposte, non solo per l’eccezionalità dell’aspetto esteriore, e di essere chiamati per nome invece che semplicemente wazungu.
Anche i rapporti con gli adulti sono stati arricchenti, grazie alla straordinaria mediazione di padre Erasto. Si sono create occasioni di dialogo: con i commercianti del mercato, alcuni Masai, le maestre dei villaggi, un seminarista, alcuni artigiani, ecc. Abbiamo potuto esprimere le nostre domande su condizioni di vita, tradizioni culturali, desideri e progetti; e ce ne siamo sentite rivolgere di tutti i tipi, anche spiazzanti: «Sapreste costruire una macchina? Qui, ora?»; «Perché in Europa vivete di più e meglio di qui?»; «Che lavoro fate? Vi sta piacendo il Tanzania?».
Forse i wazungu fanno tanti chilometri proprio per affermare che siamo tutti uguali, che incontrarsi e conoscersi è un grande dono reciproco.
Alla partenza per il Tanzania temevamo che il nostro breve passaggio lì potesse rivelarsi un fragile palloncino colorato o una folata di vento in un fuoco di foglie: temevamo di provocare nei bambini entusiasmo seguito da senso di abbandono e delusione. Grazie all’accompagnamento di Erasto e Nicholas, però, abbiamo compreso che in loro la nostra visita poteva alimentare la voglia di crescere, conoscere, imparare e incontrare. I watoto non hanno dubbi: se i wazungu sono arrivati in Tanzania, anche loro – una volta cresciuti – potranno viaggiare in Europa. Non si tratta di un’illusione, bensì di una spinta a migliorare la propria vita e il mondo. Perché, come si dice in Tanzania, i bambini sono la speranza della Chiesa («watoto tumaini la kanisa»), la speranza dell’umanità.
di Elisabetta, Luca, Giorgio e Francesco (Cam Torino)
Giovani IMC
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