Intervista a Rombaut Ngaba, fratello missionario della Consolata congolese. È stato referente del progetto «Amico atelier». Infermiere, ha lavorato nell’ospedale di Neisu, Congo R.D., e poi in Costa d’Avorio per dodici anni. Alcuni mesi fa ha iniziato una nuova missione: in Italia, nell’infermeria della Casa Madre dell’Imc.
Perché sei diventato missionario e, soprattutto, perché missionario della Consolata?
Ho conosciuto i missionari della Consolata per caso. Nella mia diocesi ci sono i trappisti, e ho fatto un percorso con loro per diventare monaco. Ma il mio parroco gesuita, che mi seguiva, mi ha detto che secondo lui ero fatto per una vita attiva. Così mi ha cercato delle congregazioni missionarie che mi hanno risposto positivamente. Alla fine sono andato a Kinshasa da una mia sorella e lì ho conosciuto i missionari della Consolata. Ho cominciato il cammino e dopo un anno mi hanno accettato.
Puoi raccontare la tua storia missionaria?
Ho iniziato gli studi in Congo, dove ero nato nel 1965, sono andato in Kenya per il noviziato nel 1990, poi in Italia dal 1991 al 1995, alla casa di formazione di Alpignano. Nel frattempo ho fatto la scuola per infermieri al Cottolengo, e infine sono stato destinato all’ospedale di Neisu, nel mio paese d’origine. Dopo quattro anni e mezzo lì, mi hanno chiesto di andare in Costa d’Avorio, dove sono rimasto dal primo gennaio 2000 al 9 settembre 2012. Ora sono a Torino, nell’infermeria di Casa Madre dove si trovano i miei confratelli ammalati.
Ho preso i voti nel 1991 con la prima professione a Sagana, in Kenya. L’11 agosto 1995 ho fatto la professione perpetua nella mia città, Kikwit.
In Costa d’Avorio ho vissuto 6 anni nel Sud, nella parrocchia di Grand Béréby dove abbiamo avviato un grande dispensario. È stato interessante fare i primi interventi sanitari nei villaggi. Poi sono andato nel Nord per iniziare un altro progetto di salute a Marandallah dove i cristiani sono pochi perché la zona è musulmana. Lì abbiamo iniziato il dispensario, la maternità, ma anche corsi di alfabetizzazione e di taglio e cucito per ragazze e donne.
Puoi dire due parole sulla Costa d’Avorio? Quali sono le sue sfide missionarie principali?
La Costa d’Avorio è un bel paese! Io vi sono arrivato in un momento difficile: una settimana dopo il primo colpo di stato del Natale 1999. Nel 2000 è cominciata la ribellione, e il paese è stato diviso in due. Anche noi missionari ci siamo trovati divisi: un gruppo a Marandallah e a Diarà nel Nord, un gruppo nel Sud. A quei tempi facevo viaggi pericolosi per portare cibo, soldi, medicine ai confratelli del Nord. Quando mi sono trasferito a Marandallah mi sono trovato nella zona della ribellione. Mancavano tutti i servizi: niente elettricità, acqua, telefono…
Nel Nord c’è la sfida del dialogo interreligioso che portiamo avanti con la semplice convivenza sincera: condividendo quello che abbiamo di bello. Non solo le cose materiali: Marandallah si è sviluppata nella salute, nell’istruzione, grazie alla parrocchia. Ma innanzitutto la vita. Sono gli atteggiamenti di apertura, di semplicità, di condivisione, che evangelizzano: sono il sorridere, il porre attenzione, l’aiutare, che parlano di Dio.
Puoi dire due parole sull’Italia?
Quando mi hanno detto di tornare in Italia ho pensato: «Io sono infermiere, l’Africa ha bisogno di me, mentre in Italia avete già tutto. Quanti infermieri, macchinari, dottori? Qui per un farmaco bastano due passi. A Marandallah devo fare 140 km»… Ma alla fine ho visto che anche qui è missione: sono venuto per un servizio missionario nella mia famiglia.
Anche in Italia mi pare che si debba innanzitutto essere umili, e ascoltare. Ad esempio oggi ci sono molti stranieri. Quando giro per la strada, vedo che le persone hanno paura di me. E io ho paura di loro. Mi sembra che anche qui la sfida missionaria sia quella della fraternità.
Quali sono la difficoltà e la soddisfazione più grandi della tua vita missionaria?
Gran parte della mia vita missionaria l’ho vissuta in Costa d’Avorio. Nel Nord la grande difficoltà era l’assenza di ogni cosa, degli strumenti per lavorare, per curare le persone, oltre alla cultura della gente, per me molto difficile. Bisognava «perdersi». Ho sofferto molto la solitudine. E soffrivo quando vedevo morire qualcuno per mancanza di medicinali che a 100 km di distanza si sarebbero trovati. Ho sofferto anche nel vedere che le persone a volte non capivano i nostri progetti, o che volevano qualcosa per sé, ma non per la comunità. Una soddisfazione è quella di aver visto crescere le persone. Anche ragazzi che ora sono all’università per studiare medicina, o qualche bambina che è diventata suora, o qualche bambino che studia per diventare prete, dei giovani che si sono sposati…
Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione del futuro?
Seguire le indicazioni dello Spirito. Essere una Chiesa non tradizionale, nonviolenta, aperta al cambiamento.
Cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata? Quali sono le ricchezze che possiamo condividere con gli altri?
Per me la prima cosa è la consolazione. Questa può esprimersi su diversi fronti: con i malati, nello sviluppo… prima di tutto della persona. La nostra composizione internazionale. La nostra disponibilità a rischiare, ad andare dove gli altri non vogliono. Queste cose le ho vissute io stesso nel Nord della Costa d’Avorio.
Cosa possiamo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
Io penso che dovremmo essere carismatici. Dobbiamo stimolare i giovani fin dal primo incontro. Se tu non hai quel fuoco che diceva il fondatore, non puoi bruciare.
Durante queste interviste chiediamo sempre di suggerirci uno slogan da proporre a tutti i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari. Cosa proporresti?
Brucia il mondo con la tua pace.
di Luca Lorusso
Luca Lorusso
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