La seconda parte della nostra breve storia della missione:
– Il cristianesimo fuori d’Europa
– La missione a partire dall’età moderna
– Propaganda Fide
– La missione nel Nuovo Mondo
– Missione in Asia
– Slancio missionario
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Il cristianesimo fuori d’Europa
L’estensione del cristianesimo in Asia fu determinata dall’invasione europea dei mongoli nel XIII secolo che arrivarono a conquistare Kiev e a sconfiggere a Legnica l’esercito germanico-polacco. Papa Innocenzo IV decise di inviare alla corte del Gran Khan nell’Asia centrale come ambasciatori di pace e missionari un gruppo di francescani. In altre terre dell’Asia e anche in Africa la diffusione dell’islam provocò invece un letterale annientamento dell’originaria presenza cristiana, che per rifondare la propria identità attuò anche strategie militari, oltre a iniziative missionarie ireniche. Con la cultura e religione islamica i missionari cristiani dovettero poi confrontarsi sul piano intellettuale, data la significativa superiorità scientifica dimostrata dai saggi islamici.
In varie parti del continente asiatico la diffusione del cristianesimo avvenne anche a opera della Chiesa d’Oriente. Armeni, giacobiti monofisiti, melchiti, cattolici calcedonesi stabilirono nuove comunità cristiane grazie all’iniziativa di mercanti e viaggiatori (un esempio eclatante sono le testimonianze lasciate da Marco Polo). Si distinse inoltre la Chiesa assira d’Oriente che fece molti proseliti grazie a un’intensa attività missionaria in Persia. E furono raggiunte in seguito anche l’India e la Cina attraverso la via della seta, percorsa da sacerdoti sposati e da monaci celibatari.
Nell’India meridionale, precisamente nella regione del Kerala, le comunità cristiane erano già presenti a partire dal I secolo, in virtù di un’antica tradizione che rimandava all’apostolo martire Tommaso, la cui tomba si venerava a Madras. Nel XIV secolo la regione del Kerala divenne un centro missionario importante, dove operavano, per volontà del papato romano, gli ordini mendicanti (francescani e domenicani), che disputarono pacificamente proficui dialoghi culturalmente ricchi con buddisti e musulmani.
In Cina la fede cristiana, tollerata, era conosciuta come la «religione luminosa». Con l’avvento della dinastia Ming, il cristianesimo fu considerato ostile e perse gradatamente sempre più influenza.
Nel regno dei Mongoli, durante il XIII secolo, i missionari appartenenti agli ordini mendicanti, inviati da papa Innocenzo IV, entrarono in contatto anche con i cristiani nestoriani (di cui trassero impressioni negative), ma le loro iniziative, più che missionarie, erano diplomatiche presso la corte del Gran Khan.
In Africa la presenza cristiana risultò divisa fra copti e melchiti, ma il successivo dominio islamico ne ridusse l’importanza e l’influenza. Fu Francesco d’Assisi che tentò un dialogo pacifico con gli islamici in terra araba. Il suo metodo missionario, che si contrapponeva a quello violento delle crociate, comportò il martirio di molti francescani. I domenicani decisero allora d’incontrare gli islamici, dopo aver conosciuto meglio la loro lingua e la loro cultura, in modo da dissertare con loro alla pari, disputando su argomenti filosofici e razionali. Si distinse il missionario catalano Raimondo Lullo, il quale si fece promotore di un metodo irenico della diffusione del messaggio cristiano basato essenzialmente sul dialogo e il contributo intellettuale, pur non rifiutando a priori la prassi militare delle crociate. In Nubia, ossia in Sudan, il cristianesimo portato dai bizantini, resistette all’invasione islamica, con la quale convisse fino alla sua repressione da parte degli arabi dominatori. In Etiopia, il cristianesimo sopravvisse al tentativo di repressione islamica grazie al fatto che sostò in quelle terre nel XVI secolo un esercito portoghese. Missionari portoghesi poi portarono la fede cristiana in Congo e in Angola.
La Missione a partire dall’Età Moderna
L’attività missionaria della Chiesa in funzione dell’espansione del cristianesimo nel mondo durante l’età moderna, a partire cioè dal XVI secolo, s’inserì in quel complesso intreccio di dinamiche politiche, commerciali, economiche che i popoli europei intrapresero una volta scoperto il nuovo mondo, le Americhe. La ricerca di materie prime e metalli preziosi portò i portoghesi a esplorare le coste dell’Africa occidentale, a circumnavigare il continente nero e seguire la via delle Indie scoperta da Vasco de Gama. Nel 1455 il papato romano aveva già conferito al Portogallo il mandato di svolgere attività missionaria via via che scopriva nuove terre e nuovi popoli. Anche alla Spagna, con la bolla papale Inter caetera del 1493, fu consentito di fare attività missionaria nelle terre da essa scoperte. La Chiesa dunque poteva estendere l’attività missionaria alle Americhe, in Brasile, in Asia e in Africa con il patrocinio monarchico delle potenze iberiche, ma anche della Francia. In questa specifica cornice politica il papato poteva muoversi in prospettiva missionaria, ma molte prerogative spettavano all’imperatore spagnolo (Carlo V): era solo a lui che spettavano le decisioni di come e dove e quando fare attività missionaria, in quanto era l’imperatore che dirigeva, organizzava e finanziava l’attività missionaria nelle Americhe e in Asia. La diffusione del cristianesimo subì in questo modo una strumentalizzazione politica non indifferente, che assunse presto l’appellativo di «colonizzazione». Fu infatti all’ombra dell’espansione coloniale che si attuò la propagazione religiosa del cristianesimo. Sotto l’egida di altri paesi europei conquistatori come la Francia, l’Inghilterra, la Danimarca e l’Olanda, il cristianesimo s’inserì con la sua connotazione missionaria (anche nella sua versione protestante, ma solo in progetti sporadici individuali a opera di calvinisti, ugonotti, pietisti in particolare) nell’ambito delle rivalità e competizioni di natura politica, economica e commerciale che le varie nazioni europee colonizzatrici opposero tra loro.
Propaganda Fide
Per porre termine a questa flagrante ingerenza da parte delle potenze coloniali europee nell’organizzazione dell’attività missionaria, la Chiesa istituì un organismo curiale che si doveva occupare esclusivamente della missione: la Congregazione per la diffusione della fede (Congregatio de Propaganda Fide). A fondare tale istituzione ecclesiastica, organo della Curia romana, fu papa Gregorio XV nel 1622. Propaganda Fide diede vita a una nuova impostazione della missione cristiana da parte della Chiesa di Roma, che prese le distanze dalle precedenti direttive e influenze delle potenze coloniali, facendo decadere, per esempio, i patronati iberici sulle missioni. Si realizzò con convinzione e fermezza un preciso sganciamento della Chiesa dallo Stato in materia di missione, svincolando quest’ultima da ogni condizionamento di tipo politico o commerciale, e facendo sì che invece si desse maggiore impulso alla componente più squisitamente religiosa dell’attività missionaria. Propaganda Fide inoltre programmò che ai missionari venisse impartita una buona preparazione linguistica, culturale e scientifica, con l’obiettivo di preparare in terra di missione anche un clero indigeno e missionari autoctoni. Con l’Istruzione trascritta da Propaganda Fide nel 1659, si cancellò come improponibile ogni identificazione della missione con l’europeizzazione, rivalutando come necessario cardine della missione l’adattamento alle culture avvicinate da cristianizzare.
La Missione nel Nuovo Mondo
Dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, i successivi viaggi compiuti dal navigatore genovese comportarono anche la presenza di missionari. Tra i quali si distinse Ramón Pané, geronomita. Egli nel 1498 produsse un rapporto sulla cultura degli indigeni haitiani e sui primi timidi tentativi di svolgere fra essi un’attività missionaria di proselitismo. Animati da ideali missionari furono anche alcuni esploratori del nuovo mondo. Fu il caso di Hernán Cortés, per esempio, che attraverso spedizioni militari conquistò il Messico, regno degli Aztechi. Egli, in un dialogo religioso avuto con il sovrano azteco Montezuma, fece esporre il ritratto della Madonna e un crocifisso. I militari si sentivano essi stessi dei missionari: erano pertanto consapevoli di seguire un ideale religioso, di combattere per motivi religiosi, perseguendo il fine di estirpare la «religione diabolica» politeista professata dagli indigeni. Consideravano come una missione religiosa la loro missione militare, che consisteva nel fare tabula rasa di templi e di culti indigeni, ritenendo ciò come passo iniziale necessario per la diffusione della fede cristiana. Dopo le conquiste militari, che comportavano massacri, distruzioni, rapine e spoliazioni, si facevano avanti i missionari religiosi, che stavano insieme ai soldati. Tale meccanismo che vedeva la missione sempre preceduta dalla conquista militare nell’America del Sud perdurò fino al 1573. A partire da quell’anno la corona spagnola proibì definitivamente le imprese militari nelle terre nuove di frontiera, in cui potevano penetrare invece, pacificamente, i missionari, pur sotto la protezione di scorte armate. I missionari che penetrarono in quelle terre erano appartenenti in genere agli ordini mendicanti. Ne partirono oltre 5000, fra francescani e domenicani, nel XVI secolo. Nel XVIII secolo se ne contarono 16 mila (per oltre la metà francescani, e 3500 gesuiti). Obiettivo dei missionari francescani in America fu quello di istituire una Chiesa originaria indigena. Di fronte allo sfruttamento degli indios, nelle encomiendas, che implicava, ma solo in apparenza, anche un processo di cristianizzazione degli indigeni ridotti in schiavitù fino alla decimazione demografica, molti religiosi e uomini di Chiesa gridarono allo scandalo. I missionari, di fronte al mostruoso processo di distruzione di massa degli indigeni operata con la conquista, fecero sentire forte la loro voce di protesta. Il primo a denunciare le atrocità fu il domenicano Antonio de Montesinos, il quale pronunciò una celebre predica nel 1511 a Santo Domingo, in cui chiedeva giustizia a nome degli indios, mettendo in discussione il modo in cui gli spagnoli stavano procedendo nel nuovo mondo. Ma fu in particolare l’azione perseverante e persuasiva di Bartolomeo de las Casas a indurre i sovrani spagnoli ad abolire l’encomienda e a riconoscere i diritti degli indigeni. Fu tra i primi missionari a porre bene in evidenza la contraddizione insita tra colonizzazione e missione, individuando nella loro commistione la difficoltà a svolgere un’autentica azione missionaria ispirata al Vangelo. Il suo impegno indefesso a favore degli indios portò anche il papa Paolo III a pubblicare la Bolla Sublimis Deus nel 1537, che confermò i diritti degli indigeni e proibì la loro riduzione in schiavitù. I francescani svolsero una solerte attività missionaria in Messico. Era il 1524. Cinquant’anni dopo fu il turno dei gesuiti. Questi ultimi in varie parti del Sud America nel XVIII secolo misero in atto le cosiddette riduzioni: comunità di indigeni che vivevano in maniera seminomadica in insediamenti propri separati dagli insediamenti spagnoli. Anche in Nord America si verificò un intenso lavoro missionario, al seguito dei progetti coloniali organizzati dalle potenze europee Francia e Inghilterra. Le tribù di indiani venivano avvicinate anche da ordini di suore, come le orsoline e le suore ospedaliere di Dieppe. I gesuiti si occuparono in particolare della tribù degli Huroni.
Missione in Asia
Anche in Asia l’attività missionaria fu strettamente unita all’espansione europea coloniale. Portoghesi, inglesi, francesi, olandesi e danesi crearono fruttuose vie commerciali, che anche i missionari utilizzarono per diffondere il Vangelo. In Asia, Giappone, Cina e India, i missionari dovettero fare i conti con culture e civiltà ben definite e avanzate. I gesuiti parlarono allora di «accomodamento», così era definita la loro strategia di propagazione della fede che portò i suoi frutti. Si dimostrò un eccellente missionario in queste terre Francesco Saverio. Un’altra figura incisiva per la missione in Oriente fu Alessandro Valignano, anche lui gesuita, che adottò a pieno ritmo il metodo dell’accomodamento. Nel XVII secolo furono registrate infatti in Giappone 300mila conversioni al cristianesimo. Dopo la morte però di Oda Nobunaga (1582), la politica di accoglienza dei cristiani mutò in avversione e persecuzione di massa e il cristianesimo fu letteralmente annientato, a parte piccole comunità clandestine che sopravvissero fino a quando nel XIX secolo poterono manifestarsi apertamente. In Cina i gesuiti adottarono la strategia dell’accomodamento, che si rivelò vincente con Michele Ruggieri e Matteo Ricci, e altri missionari gesuiti che andarono in Cina dopo di loro. I gesuiti come missionari assunsero un ruolo anche nella cultura e nella tecnica, in veste di matematici, astronomi, architetti, pittori, orologiai, cartografi, facendosi molto apprezzare e tenere in gran conto presso i cinesi e la corte imperiale. In India Francesco Saverio cristianizzò in particolare i cercatori di perle. Un gesuita, Roberto de Nobili, entrò in contatto con i bramini, la casta superiore.
Attraverso l’intelligente strategia dell’accomodamento, la cultura cristiana e quella indiana si fusero insieme, includendo nei riti e nella liturgia esteriore molti usi e costumi indiani, fra cui l’accettazione della divisione in caste. Il papato, sotto Benedetto XIV, proibì però la tolleranza che i gesuiti adottarono molto discrezionalmente con gli usi e i costumi sia cinesi che indiani. Il metodo dell’accomodamento subì un forte contraccolpo e le conversioni in Cina e in India cessarono subito. Missionari, anche cappuccini, oltre ai gesuiti, s’inoltrarono in Mongolia, in Tibet e in Vietnam. La Corea fu una terra in cui il cristianesimo giunse verso la fine del XVIII secolo per interesse degli stessi coreani, non tanto per iniziativa diretta dei missionari, le cui opere furono conosciute attraverso i contatti con la Cina: una prima chiesa cristiana fu fondata infatti da laici.
Slancio missionario
Con la soppressione dell’ordine dei Gesuiti, il fiorire dell’illuminismo e le leggi napoleoniche, lo slancio missionario si ridusse e si compresse in maniera importante. Solo nel XIX e XX secolo la missione conobbe di nuovo un impulso inaudito, se pur accompagnato da una politica colonialista molto presente. In molti, fra i missionari, condividevano l’idea di una superiorità culturale occidentale, europea o eurocentrica, e la trasmissione del cristianesimo nelle terre di missione assecondava questo aspetto culturale e tecnico egemonico detenuto dagli europei. La missione cristiana (sui due versanti rivaleggianti cattolico e protestante) viaggiò mista all’espansione coloniale, confondendosi con quest’ultima in maniera piuttosto forte. I missionari agivano a vantaggio dei rapporti commerciali e della annessione coloniale. Erano visti dalle potenze europee e statunitense come i primi pionieri culturali, che aprivano la strada strumentalmente a iniziative politiche ed economiche aggressive di espansione occidentale in particolare in terra d’Africa, in Asia e in Oceania. In tal modo la finalità religiosa passava in secondo piano. Nel XX secolo fu l’Africa il territorio privilegiato in cui gli ordini missionari (francescani, domenicani, gesuiti, comboniani, padri bianchi, maristi, oblati, spiritani, missionari della Consolata, ecc.), su mandato tassativo di Roma, svolsero le loro attività di assistenza caritativa, sanitaria, scolastica, e catechetica, con un forte aiuto anche da parte delle donne, che contribuirono alla fondazione e organizzazione di scuole, ospedali, centri di accoglienza.
In tutti i continenti, le statistiche hanno documentato la presenza operativa di 12.700 sacerdoti missionari stranieri e 24.000 suore. In poco tempo si verificò poi un salutare processo di indigenizzazione del clero locale. I missionari erano nativi del posto: si passò da una Chiesa di missione a una Chiesa indigena. E questo traguardo fu considerato un successo. Anche la componente laicale indigena e l’utilizzo liturgico di usi e tradizioni locali dimostrarono il radicamento della fede.
Il Concilio Vaticano II valorizzò molto questo modo di fare missione. La promozione umana e la catechesi erano i pilastri su cui la missione si portava avanti, contando moto sull’apporto dei laici e del clero indigeni. Ed è subentrata, oggi, una crescente coscienza missionaria nelle giovani chiese locali, pronte a far partire missionari indigeni verso un occidente in crisi di fede.
Per saperne di più:
Michael Sievernich, La Missione Cristiana. Storia e Presente, Biblioteca di Teologia Contemporanea, Queriniana, Brescia 2012
di Nicola Di Mauro
Nicola Di Mauro
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