Al cuore del discorso della montagna vi è la preghiera del Signore, il Padre nostro.
Ne presento un commento essenziale attingendo dalle pagine di Gesù di Nazareth di J. Ratzinger/Benedetto XVI, Rizzoli, Milano 2007, 157-197.
La preghiera del Signore (Matteo 6,5-13): anzitutto il Signore ci dice come dobbiamo pregare
9Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
10venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
11Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera (6,5-8).
– La preghiera non dev’essere un’esibizione davanti agli uomini per farsi vedere:
E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
– L’altra forma errata di preghiera è il chiacchiericcio, profluvio di parole per “informare” il Signore di ciò di cui abbiamo bisogno:
7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio. La silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua».
Nel Vangelo di Luca
Mentre in Matteo il Padre Nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca (11,1) lo troviamo in un altro contesto, sulla strada di Gesù verso Gerusalemme:
Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei Discepoli gli disse “Signore, insegnaci a pregare”.
L’incontro con il pregare di Gesù desta nei discepoli il desiderio di apprendere da lui a pregare. Luca mette in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso, esso proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre. Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell’esistere umano di ogni tempo. Ognuno di noi, col suo rapporto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera.
Il Padre nostro ci è stato tramandato in Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Nell’una come nell’altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.
Struttura
Il Pater, nella forma matteana, consiste in un’invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Viene affermato dapprima il primato di Dio dal quale deriva la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Il Pater è sempre una preghiera di Gesù ed essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste che conosciamo attraverso il Figlio: e così sullo sfondo delle domande c’è sempre Gesù.
«Padre»: iniziamo con l’invocazione «Padre». In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre, perché per opera di Cristo siamo tornati a essere figli di Dio. L’uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola «padre», poiché l’esperienza del padre è spesso assente o offuscata nell’insufficienza dei padri. Secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere padre presenta per noi due dimensioni: Dio è innanzitutto nostro Padre in quanto è nostro creatore, poiché Egli ci ha creato e noi apparteniamo a Lui. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno individualmente. In secondo luogo, Cristo è in modo unico «immagine di Dio», ma soprattutto Gesù è il Figlio in senso proprio e vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio. Noi non siamo figli di Dio in modo compiuto, ma dobbiamo diventarlo sempre più mediante la nostra comunione con Gesù.
Dio non è anche madre? «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13), «si dimentica forse una donna del suo bambino? […] io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Se l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, tuttavia Dio non viene mai qualificato né invocato come madre sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio. Dio non è né uomo né donna, ma il Creatore dell’uomo e della donna. L’immagine del padre è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo.
«Nostro»: solo Gesù poteva dire «Padre mio» a pieno titolo, perché solo lui è davvero il Figlio unigenito di Dio. Noi tutti dobbiamo invece dire «Padre nostro». Solo nel noi dei discepoli possiamo dire «Padre nostro» a Dio, perché solo con la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente figli di Dio. Questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro «io» e di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale. Nel recitare il Padre nostro preghiamo in comunione con l’intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.
«Che sei nei cieli»: con queste parole non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo un padre terreno, proveniamo tutti da un unico Padre che è misura e origine di ogni paternità.
«Sia santificato il tuo nome»: a Mosè che gli chiede il nome, Dio risponde «Io sono colui che sono» (Es 3,14). Egli è, e basta. Questa affermazione è insieme nome e non nome. Perciò è corretto che in Israele si pronunciasse questa autoaffermazione di Dio nella parola Yhwh, per non degradarla a una specie di nome idolatrico, per conservare invece il mistero di Dio per il quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili. Ma che cos’è un nome? Il nome crea la possibilità dell’invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Dio stabilisce una relazione tra sé e noi, si rende invocabile, ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui. La rivelazione del nome di Dio giungerà a compimento nell’incarnazione, dove Gesù dirà «ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini» (Gv 17,6). Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio. Ma noi abbiamo la possibilità di deturpare questo nome, di qui la supplica perché Egli stesso si prenda cura della santificazione del suo nome e protegga il meraviglioso mistero della sua accessibilità da parte nostra.
«Venga il tuo regno»: con questa domanda riconosciamo anzitutto il primato di Dio: dove Lui non c’è, niente può essere buono. Dove non si vede Dio, decade il mondo e decade l’uomo. È in questo senso che il Signore ci dice: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Mt 6,33).
Possiamo ricordare la prima preghiera di Salomone appena salito al trono: «Concedi al tuo servo un cuore docile perché possa rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1 Re 3,9). Con la domanda «venga il tuo Regno», Gesù vuole condurci a questo modo di pregare e stabilire le priorità del nostro agire. La prima cosa, quella essenziale, è un cuore docile, perché sia Dio a regnare, non noi. La vita di questo regno è la prosecuzione della vita di Cristo nei suoi. Pregare per il regno di Dio significa dire a Gesù: «Facci essere tuoi, Signore! Pervadici, vivi in noi».
«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»: questa domanda rivela che c’è una volontà di Dio con noi e per noi che deve diventare il criterio del nostro volere e del nostro essere. Inoltre la caratteristica del cielo è che lì immancabilmente viene fatta la volontà di Dio, o con altre parole: dove si fa la volontà di Dio, è cielo. L’essenza del cielo è essere una cosa sola con la volontà di Dio. La terra diventa «cielo», se e in quanto in essa viene fatta la volontà di Dio, mentre è solo «terra» se e in quanto essa si sottrae alla volontà di Dio. Perciò chiediamo che le cose in terra vadano come in cielo, che la terra diventi «cielo».
Ma come riconosciamo la volontà di Dio? Le sacre scritture presuppongono che esista una comunione di sapere con Dio, profondamente iscritta in noi che chiamiamo coscienza, ma sanno anche che questa comunione è stata deturpata nel corso della storia. Per questo lungo la storia Dio ci ha parlato nuovamente con parole che danno un aiuto al nostro sapere interiore ormai troppo velato. Si tratta della Legge, e in particolare del Decalogo affidato a Mosè sul Monte Sinai e perfezionato da Gesù nel Discorso della Montagna. Ma quando Gesù parla della volontà di Dio questo ha a che fare in modo centrale con la sua missione.
Essere una cosa sola con la volontà del Padre è la fonte della vita di Gesù. L’intera esistenza di Gesù è riassunta nelle parole «ecco io vengo per fare la tua volontà» (Sal 4,7). Solo così comprendiamo la parola «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). E a partire di là comprendiamo ora che Gesù stesso è il cielo nel senso più profondo e autentico. Egli, mediante il quale la volontà di Dio viene fatta pienamente. Guardando a Lui impariamo che, di nostro, noi non possiamo mai essere pienamente giusti. Egli invece ci accoglie, ci attrae in alto verso di sé e nella comunione con Lui apprendiamo anche la volontà di Dio.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»: la quarta domanda del Padre nostro ci appare come la più umana di tutte. Il Signore che orienta il nostro sguardo su ciò che è essenziale, il Regno, sa però anche delle nostre necessità terrene e le riconosce. Egli che ai suoi discepoli dice: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete» (Mt 6,25) ci invita tuttavia a pregare per il nostro cibo e a trasmettere così la nostra preoccupazione a Dio.
San Cipriano (uno dei primi commentatori del Pater) richiama l’attenzione su due aspetti della domanda:
+ sottolineando l’aggettivo nostro ricorda che nessuno può pensare solo a se stesso. Quando preghiamo per il nostro pane chiediamo quindi anche il pane per gli altri. Chi ha pane in abbondanza è chiamato alla condivisione.
++ Sottolineando il termine oggi, Cipriano dice che chi chiede il pane per l’oggi è povero: il discepolo chiede il necessario per vivere solo il giorno stesso, perché gli è vietato preoccuparsi del domani.
I Padri della Chiesa in modo praticamente unanime hanno inteso questa domanda del pane come domanda per l’Eucaristia (in questo senso il Pater si trova nella Messa come preghiera eucaristica). Il tema del pane occupa un posto rilevante nel messaggio di Gesù: dalla tentazione nel deserto, alla moltiplicazione dei pani fino all’Ultima Cena.
«Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori»: la quinta domanda presuppone un mondo nel quale esistono debiti, debiti di uomini verso uomini, debiti di fronte a Dio; ogni colpa tra uomini comporta in qualche modo un ferimento della verità e dell’amore. Colpa chiama ritorsione; si forma così una catena di indebitamenti, in cui il male della colpa cresce di continuo e diventa sempre più difficile sfuggirvi. Questa domanda ci dice che la colpa può essere superata solo attraverso il perdono, non attraverso la ritorsione. Dio è un Dio che perdona, perché ama le sue creature, ma il perdono può penetrare, può diventare efficace solo in colui che, da parte sua, perdona.
Il tema del perdono pervade tutto il Vangelo. Ma cos’è veramente il perdono? La colpa è una realtà, una forza oggettiva che ha causato una distruzione. Il perdono ha il suo prezzo, innanzitutto per colui che perdona: egli deve superare in sé il male subito, deve come bruciarlo dentro di sé e con ciò rinnovare se stesso, così da coinvolgere in questo processo di purificazione anche l’altro, il colpevole e ambedue diventare nuovi. Ma a questo punto ci imbattiamo nei limiti della nostra forza di guarire, di superare il male. Il superamento della colpa richiede il prezzo dell’impegno del cuore. E anche questo impegno non basta; può diventare efficace solo mediante la comunione con Colui che ha portato il peso di tutti noi.
«E non c’indurre in tentazione»: le parole di questa domanda sono di scandalo per molti. Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto San Giacomo afferma: «Nessuno, quando è tentato, dice: ‘sono tentato da Dio’; Perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13). Gesù stesso fu tentato (Mt 4,11). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Nel libro di Giobbe Satana schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Così Dio concede a Satana di mettere alla prova Giobbe, anche se entro certi limiti. Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova. Per maturare l’uomo ha sempre bisogno della prova, come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità. L’amore è sempre un processo di purificazione, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione.
Nella sesta domanda del Pater deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze, dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. In questo senso forse è più comprensibile la traduzione «Non abbandonarci alla tentazione».
Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10,13).
«Ma liberaci dal male»: l’ultima domanda riprende ancora la penultima e la volge al positivo. Se nella penultima dominava il «non» (non dare spazio al Maligno oltre la misura sopportabile) nell’ultima ci presentiamo al Padre con la speranza centrale della nostra fede: «Salvaci, redimici, liberaci!». In fin dei conti è la domanda della redenzione. Da che cosa vogliamo essere redenti? Dal male/Maligno. Il male di cui si parla può indicare sia il male impersonale, sia il Maligno. In fondo i due significati non si possono separare. Se per i primi cristiani il male era quasi personificato nel potere politico romano attraverso il culto dell’imperatore, anche oggi ci sono da un lato le potenze del mercato, del traffico delle armi, di droghe, di uomini; dall’altro l’ideologia del benessere e del successo. Con questa domanda chiediamo che non ci venga strappata la fede che ci fa vedere Dio, che ci unisce a Cristo. Chiediamo che per i beni non perdiamo il Bene stesso, Dio. «Quando diciamo ‘liberaci dal male’ non resta niente che dovremmo ancora chiedere oltre a ciò. Una volta ottenuta la protezione chiesta contro il male, noi siamo sicuri e custoditi contro tutto ciò che diavolo e mondo possono mettere in atto. Quale paura potrebbe ancora sorgere dal mondo, per colui il cui protettore nel mondo è Dio stesso?» (S. Cipriano). Questa certezza ha sostenuto i martiri e li ha resi lieti e fiduciosi in un mondo colmo di angustie, ha liberato essi stessi nel più profondo, li ha liberati alla vera libertà.
Conclusione
Con l’ultima domanda ritorniamo alle prime tre: chiedendo la liberazione dal potere del male, chiediamo in definitiva il regno di Dio, la nostra unificazione con la sua volontà, la santificazione del suo nome.
di Mario Barbero
Mario Barbero
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