Giovani italiani in Kenya. Altri italiani, un po’ meno giovani, in Marocco. Alcuni Polacchi in Tanzania. Tutti partiti all’incontro con l’altro, alla scoperta dell’altrove e della propria capacità di mettersi in gioco per un mondo migliore.
Ecco tre racconti delle molte esperienze che diversi gruppi legati ai Missionari della Consolata hanno vissuto l’estate scorsa.
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VENTUNO GIOVANI TORINESI IN KENYA
Venite, vedrete
Ventuno giovani torinesi tra i 18 e i 28 anni in missione in Kenya. Formati dalla pastorale missionaria della diocesi di Torino in collaborazione con i Missionari della Consolate e le Suore operaie della casa di Nazareth, hanno trascorso tre settimane ad agosto in quattro missioni, incontrando persone e modi di vivere inattesi.
Sono andati, hanno visto, e oggi sognano di ritornare.
«Che cosa cercate?» chiede Gesù ai due discepoli di Giovanni Battista nel brano di Vangelo che ha accompagnato i nostri incontri prima della partenza. Loro, zelanti e pronti seguaci, rispondono senza
temere: «Dove dimori?».
Noi, giovani wazungu (bianchi) tra i 18 e i 28 anni, a quella domanda, forse, non avremmo saputo rispondere così prontamente. Cosa si cerca quando si decide di trascorrere tre settimane in un paese sconosciuto, con persone sconosciute, in un contesto diversissimo dal proprio e lontano anni luce dalla propria quotidianità? Cosa si cerca quando il proprio sguardo si incastra con quello di una ragazzina keniana, al quale improvvisamente ci si sente legati in modo indissolubile? Cosa si cerca quando ci si ritrova con i piedi scalzi nell’acqua marrone di un fiumiciattolo, sapendo che attraversarlo è l’unica via possibile per raggiungere un villaggio isolato e i suoi abitanti?
A queste domande, alle quali già di per sé è difficile rispondere, si aggiunga una questione ancora più urgente: perché partire?
Non necessariamente, infatti, esiste una motivazione. Alle volte si parte e basta e, proprio per questo, partire senza sapere perché o conoscere la destinazione o il programma, partire perché scatta qualcosa dentro, e si ha l’impressione che rimanere non è più possibile, è un grande atto di fede.
Fidarsi è ciò che fanno i due discepoli dopo aver ascoltato il maestro: «Venite e vedrete», dice Gesù, e loro «andarono e videro dove egli dimorava».
E fidarsi è anche ciò che abbiamo fatto noi, quando siamo partiti per Nairobi senza sapere dove avremmo dormito, cosa avremmo fatto, chi avremmo incontrato.
Un atto di pura fiducia, nei confronti delle nostre «guide»: padre John Nkinga, Imc, suor Valentina Melis, sorella operaia della casa di Nazareth, Aaron John Mutuma, seminarista missionario della Consolata. Ma anche nei confronti dei compagni e delle compagne di gruppo, dei padri che ci hanno ospitato, e delle cuoche e dei cuochi che ci hanno fatto sentire a casa nelle missioni di Saint Joseph Mukasa; di Kahawa West, Nairobi; alla Familia Takatifu di Rumuruti e al Saint Martins centre a Nyahururu.
Non è semplice spiegare la fatica di fidarsi e affidarsi, ma è potente la forza con cui ognuno di noi è riuscito a farlo, con una leggerezza propria solo delle cose che non potevano essere diverse da come sono state.
Ciò che ci ha permesso di vivere intensamente l’esperienza, secondo me, sono state le parole di padre John che, fin dal primo incontro, non ha fatto che ripeterci che la nostra missione non sarebbe stata «fare, fare, fare», ma «incontrare, incontrare, incontrare».
Incontrare e lasciarci incontrare sarebbero dovuti essere i nostri due unici reali impegni.
Mi sento di dire che è stato proprio così. Mettere da parte l’idea di dover salvare il mondo, aiutare il prossimo o cambiare il Kenya, e darsi la possibilità di osservare, conoscere, farsi attraversare dalle voci, dagli odori e sapori del posto; lasciarsi guidare dalle mani sapienti dei bambini che, giocando a nascondino, ci portavano a scovare gli angoli segreti della parrocchia; scoprire quanto una casa di due metri per due possa essere accogliente, quando a ospitare c’è una signora anziana che sorride e vuole sapere tutti i nostri nomi; osservare le abitudini locali – come quella di sollevare le sopracciglia per dire «sì» che all’inizio, ha creato qualche incomprensione; conoscere le storie delle ragazze del Girl rescue centre – una casa in cui le giovani vulnerabili possono trovare rifugio dalle pratiche della mutilazione genitale femminile e dei matrimoni forzati -, nei cui occhi bambini si leggevano le storie di mille donne dal destino simile al loro; o ancora sedersi a un tavolo e cenare con i co-memebers di L’Arche – le comunità per persone con disabilità fondate da Jean Vanier – e proprio da loro comprendere quanto sia bello trascorrere insieme il tempo.
È capitato, a volte, che, davanti a questo tipo di incontri, ci siamo ritrovati in silenzio. Le parole adeguate per dare un nome a ciò che stavamo vivendo, infatti, forse non sono ancora state inventate.
È successo anche tra le vie sporche e maleodoranti di Soweto, a Nairobi, dove, di fronte alla miseria più estrema, mi è capitato di chiedermi cosa sognino i bambini e le bambine che nascono e crescono lì, dove i vestiti sono stesi sul filo spinato, i rifiuti vengono bruciati in assenza di altri mezzi per smaltirli, e il governo abbatte case, scuole e chiese per fare strade dalla dubbia utilità.
Poi, d’un tratto, la messa domenicale: i fedeli vestiti in abiti eleganti, le acconciature impreziosite da trecce e gioielli (di plastica colorata), le sostanziose offerte donate al sacerdote perché possa portarle là dove c’è più bisogno, e poi balli, canti, sorrisi, strette di mano, preghiere in una lingua universale.
Il Kenya, con i suoi contrasti fortissimi, ci ha mostrato come ovunque, anche nell’angolo più remoto di una baraccopoli, risieda una bellezza preziosa che nasce non tanto da quanto il luogo offre, che spesso è molto poco, ma da chi quel luogo lo vive e lo anima.
In questo incontro con il prossimo, con l’altro, il diverso che si rivela essere poi piuttosto simile, sta, forse, parte della risposta alla nostra domanda.
Siamo partiti cercando qualcosa e siamo tornati dopo aver trovato qualcuno, sia esso dentro o fuori di noi.
Penso che questo sia uno dei grandi doni che il Kenya ci ha fatto, e mi sento infinitamente grata per avere avuto la possibilità di vivere questa esperienza e di averla vissuta così intensamente.
Quel giorno i discepoli di Giovanni non solo andarono e videro dove dimorava Gesù, ma scelsero di rimanere con lui.
In quel gesto vedo tutta la bellezza e la profondità della nostra missione: andare, vedere e poi scegliere di rimanere, con la testa, con il cuore e, chissà, magari un giorno non troppo lontano, di nuovo anche con il corpo.
Gloria Benedetto
UN’ESPERIENZA D’INCONTRO IN MAROCCO
Oujda: l’altro è la tua meta
Quattro donne, insieme a padre Fabio Malesa, sono state in Marocco tra fine agosto e inizio settembre. Un viaggio all’insegna dell’incontro dopo un percorso di formazione nel centro culturale Cam dei Missionari della Consolata a Torino.
Come degna e felice conclusione del cammino di preparazione a un viaggio missionario per adulti – percorso che si è articolato, nella primavera 2024 in sei incontri dal titolo «Cammina, l’altro è la tua meta» -, in quattro siamo finalmente partite per il Marocco, dove siamo state dal 26 agosto al 5 settembre, accompagnate da padre Fabio Malesa.
Nel raccontare l’esperienza, mi vengono in mente tre immagini. La prima è quella di un sūq, mercato vivace in contorti vicoli, nei centri storici delle città, con lunghe file di bancarelle, piccole botteghe, affollato dagli abitanti e da qualche turista, ricco di stoffe, terraglie, spezie, saponi, frutti, mazzi di menta, colori, odori, profumi, suoni, richiami, sguardi, sorrisi.
Se ci riconoscono come italiani, ci raccontano orgogliosi dei parenti emigrati nel nostro Paese e ci fanno percepire un legame speciale fra il Marocco e le comunità italo marocchine in Italia.
La seconda immagine è il Monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Midelt, un’oasi di pace, autenticità e ospitalità, che ha raccolto lo spirito dei monaci di Tibhirine, la comunità vittima del massacro avvenuto nel 1996 vicino a Medea, in Algeria. Prosegue la loro testimonianza di pacifica convivenza fra cristiani e musulmani, nella quotidianità fatta di cose semplici, in una fraternità rispettosa della fede altrui.
Una vita comunitaria di preghiera, di accoglienza degli ospiti e di lavoro manuale per portare avanti la casa, il giardino, l’orto, il frutteto.
Nel testamento spirituale del monaco cistercense Christian de Chergé, priore dell’Abbazia di Tibhirine, colpisce questo pensiero: «Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo, vorrei che la mia comunità, la Chiesa, la mia famiglia sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato».
Infine la terza immagine è l’ultima tappa del nostro cammino: Oujda, che si trova a pochi chilometri dalla frontiera con l’Algeria, porta d’accesso dei migranti subsahariani in Marocco. Qui giungono circa 4mila migranti all’anno, fuggiti da Sudan, Guinea, Mali, e altri paesi. In media ogni giorno sono ospitati 100 migranti e più nel centro di accoglienza gestito da tre missionari della Consolata intorno alla chiesa di Saint Louis, vicino a una moschea. Qualche decina di giovani permane nel Centro per un anno, frequentando corsi di formazione professionale. Alcune persone malate rimangono fino alla guarigione. Sono organizzati corsi di alfabetizzazione anche per chi si ferma pochi giorni.
Vi è il progetto di due suore appartenenti a due diverse congregazioni, che vivono poco distanti e che sostengono le donne sole durante la gravidanza e nella cura dei bambini, e organizzano corsi di taglio e cucito. I loro prodotti sono venduti online in Europa. La loro casa si chiama Dar Kum, la casa in cui ci si rialza.
Uomini, donne (in piccola percentuale) con o senza bambini, minori non accompagnati, arrivano da viaggi pericolosi lunghi settimane e mesi, attraversando Egitto, Libia, Algeria, dove spesso subiscono respingimenti violenti, abbandoni nel deserto, trattamenti disumani e degradanti.
Ogni migrante che arriva a Oujda, dai missionari è accolto, curato, nutrito affinché possa riacquistare le forze per proseguire il cammino verso le grandi città del Marocco, in cerca di lavori più o meno temporanei, più o meno sfruttati. Altri tentano la traversata verso la Spagna e verso le Canarie, oppure cercano di scavalcare le barriere con filo spinato delle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. Tentativi che si ripetono più e più volte, e che talvolta si concludono raggiungendo l’obiettivo, talvolta con la rinuncia, altre con la morte.
«Padre – dicono – al mio paese non c’è futuro. È meno pericoloso il viaggio, che mi dà la speranza di una vita dignitosa».
Se Dio vuole, inshallah, ci riusciranno. Se non sarà così «sia fatta la volontà di Dio».
Impossibile descrivere certi sguardi, i sorrisi che sanno regalare, nonostante tutto il dolore, la violenza, la disumanità incontrata, e poi quella forza, determinazione, speranza che li muove a non arrendersi, a continuare, che li porta avanti verso la meta.
Ci sono le famiglie o gruppi che si disperdono lungo il cammino, e i singoli si trovano soli.
Vediamo donne con bimbi. E questi bimbi si vede che hanno assorbito come spugne tutto ciò che sono stati costretti a sentire, vedere, subire.
Ma c’è la canissa (l’eglise, la chiesa) che è davvero «la famiglia», con padre Edwin Duyani Osaleh, padre Patrick Mandondo Fwakongo, padre Francesco Giuliani, che, con i volontari e lo staff, si prendono cura delle persone che arrivano, le alimentano, le vestono, ma soprattutto sono con loro, li fanno sentire protetti, amati, custoditi.
Maria Luisa Coppo, Carla Monti
QUATTRO GIOVANI POLACCHI IN TANZANIA
Manda. Laboratori al femminile
Quattro giovani polacchi, accompagnati dal missionario della Consolata padre Ditrick Sanga, hanno trascorso l’intero mese di agosto a Manda, villaggio del centro Tanzania.
L’obiettivo era chiaro: offrire a diverse donne del luogo le competenze e gli strumenti tecnici necessari ad avviare un laboratorio di cucito per confezionare assorbenti riutilizzabili. E affrontare così due problemi: uno economico, l’altro culturale, vincendo il tabù che circonda questo tema.
I primi raggi di sole svegliano lentamente il villaggio annunciando un’altra giornata luminosa e calda. Terra rosso rame, senza alcun segno di rugiada, e possenti baobab senza foglie sono coperti dalla calda luce dell’alba.
L’intero villaggio di Manda si sta svegliando e si sta preparando per un’altra giornata nel cuore della Tanzania. E con esso anche noi: quattro volontari polacchi – Agnieszka, Maria, Kinga e Stasiek -, con il missionario della Consolata, padre Ditrick Sanga.
Per tutto il mese di agosto, siamo diventati cittadini di Manda, vivendo e lavorando con i bambini, le comunità e tutte le persone, a prescindere dall’età, dalla religione o dall’appartenenza tribale.
E noi siamo diventati davvero i loro compatrioti, perché ci hanno accolto come se fossimo dei loro. Si è trattato, in effetti, di un ritrovarsi, due anni dopo una nostra precedente missione del 2022. E non ci sono parole che possano descrivere quanto è importante e bello il ritorno. Manda è un villaggio situato nella parte centrale del Paese. Nonostante si trovi a soli 100 km da Dodoma (la capitale), le strade accidentate e sabbiose estendono notevolmente la distanza.
La vita lì è difficile, le persone devono affrontare molte sfide come la mancanza di acqua pulita e di cibo nella stagione secca. Tuttavia, nonostante le dure condizioni di vita, hanno tutti un cuore aperto e caloroso per gli altri.
Durante la nostra missione, abbiamo intrapreso diverse iniziative, per lo più educative.
Il progetto principale era la lotta contro la «povertà mestruale». La mancanza di prodotti per l’igiene, di servizi adeguati, di acqua pulita e la presenza di tabù costruiti intorno alle mestruazioni, infatti, le rendono un incubo per ogni donna, e ancora peggio per le ragazze adolescenti.
Due anni fa avevamo iniziato un progetto di «educazione mestruale» a Manda e nei villaggi limitrofi di Mondomela e Chifutuka, e avevamo fornito assorbenti riutilizzabili che possono essere usati per anni, a ragazze e donne.
Quest’anno abbiamo fatto un altro passo avanti. Abbiamo creato un laboratorio di cucito dotato di macchine da cucire, materiali di buona qualità e tutti gli strumenti necessari per confezionare questo tipo di assorbenti. Tutto questo per garantirli a ogni ragazza e a ogni donna di Manda e dintorni. Naturalmente, non eravamo in grado di insegnare a tutti come cucirli, quindi abbiamo invitato ai nostri workshop una donna per ognuna delle comunità in cui Manda è suddivisa.
Nove donne – Esther, Bhina, Devotha, Happiness, Witness, Consolata, Gidlesia, Elizabeth e Masela – si sono assunte la responsabilità di insegnare agli altri e di prendersi cura dell’attrezzatura dopo la nostra partenza.
Durante i laboratori abbiamo mostrato come realizzare assorbenti con materiali da noi portati e con tessuti disponibili localmente. Abbiamo insegnato come cucirli, anche a mano. Abbiamo mostrato tutto ciò che sapevamo, e alla fine le nove donne erano preparate a prendere in mano il laboratorio.
E così è stato fatto: il progetto ha iniziato a essere portato avanti senza nostri ulteriori contributi, e presto sarà in grado di fornire a ogni ragazza e donna gli assorbenti riutilizzabili di cui ha bisogno. Inoltre, le partecipanti ai workshop hanno creato una propria community in cui si sostengono a vicenda e possono parlare di tutto, anche infrangendo i pesanti tabù che circondano il tema delle mestruazioni.
Niente di tutto questo sarebbe accaduto se non fosse stato per la guida e le benedizioni di Dio. Con i nostri sforzi, non saremmo stati in grado di realizzare niente del genere. L’abbiamo affidato a Dio, come tutta la nostra missione, e crediamo che Lui ci guidi in ogni passo del cammino.
Agnieszka Kowalczyk
Giovani IMC
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