Slow page dei Missionari della consolata

#CAMminiamo, #CAMbiamo

Un missionario keniano a Torino

Padre John Kinyua Nkinga è nato nel 1987 in Kenya. Dal 2015 è in Italia, prima come studente a Roma, ora come animatore missionario a Torino, dove segue, tra le altre cose, la comunità ecumenica di lingua inglese.
Un missionario che racconta molto di sé e lascia trasparire la grande
fiducia che lo guida.

«Io sono John Kinyua Nkinga. Sono nato l’8 marzo 1987, nella zona di Nyeri, al centro del Kenya. Sono l’unico figlio della mia mamma, nato quando lei era giovane e doveva finire gli studi. Quindi mi ha cresciuto mia nonna. Con mia mamma ci vedevamo durante le sue vacanze. Dopo il diploma alla secondaria, ha fatto la scuola da infermeria e, quando ha finito, nel 1992, sono andato a vivere con lei.
Abbiamo vissuto poco insieme, però, perché lei è morta quando avevo 10 anni».

Padre John è missionario della Consolata, impegnato nell’animazione missionaria a Torino. Compie 35 anni in questi giorni. All’inizio della nostra chiacchierata ci racconta della grande famiglia nella quale è nato e cresciuto: la nonna, la mamma, lo zio materno che ha accolto John in casa sua quando è rimasto orfano, la moglie dello zio, che è diventata per lui come una seconda mamma. E poi le suore di Maria Immacolata di Nyeri, quelle fondate da monsignor Perlo, dalle quali aveva lavorato sua mamma e che l’hanno aiutato in tutto, a partire dal sostegno economico per l’istruzione. Per arrivare al suo papà biologico, cercato e ritrovato all’inizio del seminario, grazie alla spinta dei Missionari della Consolata per riconciliarsi con quella parte della sua vita, e alla moglie di suo papà, ennesima «mamma» che l’ha accolto nella sua vita e che gli ha donato anche un fratello e una sorella.
«Mio papà si era sposato con un’altra donna. In inglese si dice stepmother, ma è una parola che a me non piace, perché questa donna ha proprio preso il posto della mia mamma. È una donna meravigliosa. Poi ho un fratello e una sorella. Quindi la mia famiglia si è allargata: non dico più che sono figlio unico. Queste persone mi hanno riempito di gioia».

Come hai conosciuto i Missionari della Consolata?

«Sono cresciuto a Mwea, vicino Sagana, dove l’Imc ha il noviziato. Lì, i Missionari della Consolata portano i novizi a fare un mese di esperienza nell’ospedale delle suore dove io ero di casa. Ho conosciuto l’Imc dai novizi. Però, ai tempi, non avevo l’idea di diventare missionario».

Com’è nato il desiderio di entrare nell’Imc?

«Quando è morta mia mamma, le suore di Maria Immacolata sono diventate un po’ delle mamme adottive per me. Appena finita la scuola secondaria, ho lavorato al loro ospedale.
Un giorno viene da me una suora e mi dice: “John, cosa vuoi fare nella vita?”. È un pomeriggio caldo, io ho lavorato tutto il giorno nei campi, sono stanco e sudato. Desidero solo farmi una doccia e riposare. Voglio mandare via la suora il prima possibile. Allora – e questo è un miracolo – le dico: “Vorrei fare il sacerdote”. Lei va via, ma torna dopo cinque minuti con un biglietto: “Padre Kizito Mukalazi”, e un numero di telefono. “Chiama questo padre”, dice. Io chiamo, e lui mi risponde: “Sono a 20 minuti da te, passo mentre torno a Nairobi”.
Dopo un po’, è da me. Mi chiede come sto, come mai l’ho chiamato, poi mi chiede il mio indirizzo postale e mi dà la sua e-mail. Infine va via.
Finalmente posso riposare: “Non gli scriverò mai”, penso.
È l’estate del 2009. Io entrerò in seminario nel 2010».

E poi?

«Dopo una settimana, ricevo una busta con la rivista “The seed” e una lettera di padre Kizito che spiega chi sono i Missionari della Consolata. Io la leggo e la metto da parte. Dopo due settimane, arriva un’altra lettera. Dopo altre due settimane, un’altra lettera.
Mi dico: “Ma cosa vuole da me? Ma basta!”. Allora rispondo, ma solo per buona educazione. Non ricordo più le cose che ho scritto, ma non erano parole dalle quali si potesse pensare che ero interessato a qualcosa.
A novembre mi scrive di nuovo per invitarmi a una settimana di Come and see, “Vieni e vedi”, con altri ragazzi a Nairobi. Io non sono mai stato in città e mi viene un po’ di ansia, però vado.
È una settimana meravigliosa. Siamo quasi 40 ragazzi. I missionari vengono a parlare con noi della loro esperienza. Torno a casa e non dico niente a nessuno, né agli zii, né alle suore.
A gennaio trovo un lavoro come insegnante, nel frattempo il padre continua a scrivermi e io rispondo per buona educazione.
A luglio mi scrive che viene a trovarmi a casa.
A questo punto devo raccontare tutto agli zii. Però dico loro che è solo una prova. Anche alle suore dico la stessa cosa.
Quando il padre viene a casa, scrive qualcosa e mi fa firmare. A fine luglio ricevo una lettera di ammissione al seminario, allora mi dico: “Ora vado a casa e dico che parto, ma che non è una decisione ferma: è una prova”.
Dico così a mia zia, e lei mi risponde: “John, due settimane fa sono stata a un’ordinazione. Diventava prete un figlio di una donna come me. Non è che quella donna fosse speciale. Anche tu sei figlio di una donna come me, quindi tu vai, ti sosteniamo con la preghiera. E mettiti questa cosa in testa: che anche tu ce la puoi fare, perché anche tu sei un figlio di una donna come quella”.
Alla fine entro in seminario nell’agosto 2010. A provare».

A forza di provare

Padre John non risparmia i dettagli. Il suo racconto degli anni di seminario è vivace e pieno di volti e aneddoti. Il filo conduttore è la frase «John, prova», che il giovane si ripete a ogni tornante del cammino. Entrato in seminario, fatica ad adattarsi ai suoi ritmi. In più c’è un formatore severo. Si dà sei mesi per vedere come va, poi altri quattro: «Poi torno a casa e mi dicono: “Ah, ce l’hai fatta”. Allora torno a provare: nell’anno 2011-2012 ho fatto il propedeutico a Mathari, vicino a Nyeri. Nel periodo 2012-2014 ho fatto filosofia a Nairobi, però tutti gli anni mi ripetevo: “Mi dò ancora un anno”». Arriva il noviziato a Sagana, nel 2014-2015: «Dentro mi dicevo: “Ci provo”. Però, durante quell’anno, ho scoperto che non era più una prova. Erano cambiate le carte in tavola. Era diventato un discernimento. Ho fatto i primi voti nel 2015».

E poi sei arrivato in Italia.

«Io non avrei mai voluto venire in Italia. Primo, perché in seminario avevamo una cuoca che faceva una pasta terribile. E io pensavo: “Ma se andassi in Italia dove si mangia sempre pasta, cosa faccio?”. Secondo, perché avevamo un padre spirituale italiano che gridava sempre. In seguito, ho capito che gridava perché non sentiva, però a me sembrava che ci sgridasse. Allora mi ripetevo: “No, io in Italia mai!”.
Quando al noviziato ci hanno detto di scrivere le nostre preferenze di continente dove studiare teologia, io ho scritto per prima l’America Latina, poi l’Africa e per ultima l’Europa.
Durante la settimana di ritiro prima dei voti qualcuno ha messo in bacheca le destinazioni mandate dal padre generale. Quando l’abbiamo saputo, siamo corsi per vedere. Allora io cerco il mio nome in America latina e non lo trovo. Dico, “benissimo, sarò in Africa”. Non mi trovo. Poi vedo il mio nome a Bravetta, Roma. I miei compagni hanno riso tutti, ma io sono andato in crisi. Allora, finito il ritiro, chiamo la zia e le dico: “Guarda, è tutto finito! Mi hanno destinato in Italia. Meglio che esca e non prenda i voti”. E lei mi dice – quella donna è unica -: “Per prima cosa, tu andrai. E quando tornerai, ci troverai ancora qui con le nostre mucche che invecchiamo piantando e raccogliendo. Tu andrai e vedrai che la vita ti offrirà delle esperienze nuove. Seconda cosa: ricordi che sei un figlio di una donna come me? Quindi prendi coraggio, e poi sappi che dove vai, troverai uomini come te che mangiano bevono e godono la vita. Vai, non avere paura”.
Ho fatto i voti, mi sono preparato per l’Italia e sono arrivato a Bravetta a settembre 2015.
Il mio “ci provo, ci provo”, l’ho un po’ preso come un progetto di vita. A volte, quando mi trovo in difficoltà, mi ripeto: “I will try”, ci provo, lasciami provare».

E ora che fai?

«Dopo tre anni a Bravetta per studiare all’Urbaniana, sono stato destinato a Torino, in Casa Madre per l’animazione missionaria. Io mi sono detto: “Boh, non so cos’è l’animazione missionaria, però vediamo”.
Il 14 dicembre 2019 ho emesso i voti perpetui, e il 21 sono diventato diacono.
Ho iniziato l’animazione missionaria facendo il cappellano del gruppo ecumenico di lingua inglese di Torino, nella parrocchia San Giuseppe Cafasso. La domenica ci troviamo per due ore di celebrazione. Poi mi fermo ad ascoltare le persone.
Appena ordinato diacono, pensavo che avrei passato una Pasqua 2020 bellissima in parrocchia a cantare l’Exultet, e invece ci siamo trovati chiusi in casa per il Covid. Ho fatto il mio servizio diaconale servendo i confratelli di Casa Madre, soprattutto quelli che erano positivi.
Il 2020 mi ha insegnato una cosa: la pazienza. Con noi, con gli altri e con la situazione. Il Signore è in tutto questo.
Ad esempio, avevo progettato di andare in Kenya ad agosto per l’ordinazione, ma non si poteva. Alla fine sono partito a dicembre 2020, per essere ordinato il 13 febbraio 2021».

Quali sono, secondo te, le sfide missionarie dell’Italia?

«Non vorrei chiamarla mancanza di fede, perché c’è ancora in giro chi crede. Però penso che la gente deve essere aiutata a credere di nuovo nel Signore, a ricordare bene le promesse battesimali che abbiamo fatto.
Un’altra sfida è quella delle famiglie: c’è troppa tristezza in loro.
E poi i giovani, che sono l’oggi della chiesa. Bisogna aiutarli a credere di nuovo, accompagnarli in cammini catecumenali, aiutarli a parlare. I giovani hanno molta difficoltà a esprimersi.
Un missionario della Consolata deve avere la pazienza di ascoltare. Di prendersi del tempo anche fuori programma. Qui la missione non è come in Africa, dove costruiamo chiese, scuole… La missione è, piuttosto, presenza.
Comunque ho cambiato idea sull’Italia: ora mi piace molto».

Che lavoro fai oggi?

«In questo momento il Centro di Animazione di Torino, il Cam, è chiuso, in attesa di vedere realizzato il progetto di un Polo culturale missionario.
Il mio tempo oggi è occupato molto dalla cappellania del gruppo ecumenico dei nigeriani ospitato nella parrocchia San Giuseppe Cafasso dove collaboro con don Angelo Zucchi per alcuni servizi pastorali.
Sono anche collegato con l’ufficio migrantes della diocesi, e con il centro missionario diocesano. Poi sto organizzando con padre Gigi Anataloni un cammino di preparazione dei giovani della parrocchia Regina delle missioni per un’esperienza estiva in Tanzania, se va in porto».

Qual è la difficoltà più grande che incontri?

«La mia pazienza. A volte mi viene da dire: “John, devi essere più aperto”. Perché io non posso cambiare dieci persone, ma posso cambiare me stesso. Se voglio aiutare qualcuno, penso che devo iniziare da me e chiedere al Signore di darmi forza. Piuttosto che dire che i problemi sono fuori, preferisco dire che devo lavorare su di me.
Poi, gli italiani sono quelli che sono: non posso pretendere che siano come noi in Africa, dove cantiamo, balliamo, e ogni tanto è festa. L’inserimento nella cultura è importante. Non è possibile portare l’Africa qui, però qualche aspetto di me e della mia cultura sì».

E la soddisfazione?

«La domenica, quando arrivo a casa stanco dopo la giornata con la comunità ecumenica: quando sono stanco perché sono stato con la gente.
Io penso che dobbiamo cambiare le idee sulla missione: passare dal “fare”, al “rimanere”».

Racconti un episodio significativo della tua missione?

«È molto recente, riferito al gruppo ecumenico: una signora di nome Merit: dopo tanti anni che fa parte della comunità ecumenica, ha chiesto il battesimo per sé e per i figli.
La comunità è stata seguita da sempre dai Missionari della
Consolata. Questa donna, che dopo 22 anni sceglie il battesimo cattolico, è segno che hanno seminato bene».

Uno slogan?

«#CAMminiamo #CAMbiamo. Perché se camminiamo insieme, possiamo cambiare tante cose, anche noi stessi».

di Luca Lorusso

Leggi, scarica, stampa da MC marzo 2022 sfogliabile.

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Luca Lorusso

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