Vittime sacrificate agli idoli (1Cor 8,1-13)
Paolo fa riferimento a un tema molto concreto e sentito nella comunità di Corinto che viveva in un ambiente pagano: si può mangiare o no la carne degli animali sacrificati agli idoli?
Questo problema farà sicuramente sorridere i cristiani di oggi.
Come ci ha già abituati, Paolo si eleva sopra le circostanze del caso concreto e offre ai corinti – e ai lettori di oggi – una formidabile lezione sulla dimensione di solidarietà che deve accompagnare la libertà cristiana.
La carne in questione era quella che avanzava dai banchetti cultici e che veniva venduta al mercato. Naturalmente i cristiani non partecipavano al culto degli idoli. Ma quella carne, potevano comprarla e mangiarla?
1Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. 2Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere. 3Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto. 4Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo. 5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –, 6per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui.
Nella comunità vi erano dei cristiani scrupolosi (l’Apostolo li chiama «di coscienza debole/delicata», dnr) (7) probabilmente neoconvertiti dal paganesimo, che consideravano quella carne già contaminata dall’idolatria e perciò non la mangiavano, e si scandalizzavano che altri la mangiassero. È a questi altri, ai «liberati» (cristiani maturi) che si rivolge Paolo e lo fa su due piani.
Anzitutto dice come stanno le cose: esiste un solo Dio, perciò le carni sacrificate agli idoli sono come le altre e non c’è alcun male a mangiarle. Ma poi dice, dal lato della carità: non si può scandalizzare un fratello che ha una coscienza meno formata o più scrupolosa: provocare la caduta di un fratello è una grave offesa a Cristo (cf. Rm 14,15-20). L’Apostolo non pretende che lasciamo il fratello debole nell’ignoranza. Tutto il contrario. Ma è il rispetto del debole e dell’ignorante che dà alla nostra libertà la qualità di libertà cristiana, cioè una libertà presidiata e regolata dalla carità. Questa è la vera libertà che ci ha donato Gesù.
7Ma non tutti hanno la conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. 8Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. 9Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 11Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 13Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.
L’esempio di Paolo (1Cor 9,1-27)
È proprio la difesa di questa libertà ciò che spinge Paolo a lanciarsi in un discorso polemico, appassionato e veemente. In esso troviamo alcune delle espressioni più memorabili della letteratura paolina. Comincia col dire che egli è libero e apostolo «non ho forse visto Gesù Signore nostro?» (1). Prova di questo: «il sigillo del mio apostolato per il Signore siete voi» (2). Enumera poi i suoi diritti su di loro, secondo i quali potrebbe «sfruttarli» nella sua qualità di apostolo. Diritti ai quali però ha rinunciato liberamente per il bene della comunità, come mangiare e bere a loro spese (4) o essere accompagnato nei suoi viaggi da una sposa cristiana come gli altri apostoli (5), ecc.
1Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato. 3La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: 4non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? 5Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? 6Oppure soltanto io e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?
Paolo si indigna soprattutto che lo critichino per il suo diritto e la sua libertà di lavorare con le sue mani per mantenersi e non essere di peso a nessuno. Il lavoro manuale di Paolo, tessitore di tende, non andava troppo d’accordo con la cultura greco romana che considerava il lavoro manuale come compito proprio degli schiavi, e pertanto, dal punto di vista dei Corinti, indegno di un apostolo e fondatore di comunità cristiane. Paolo è ripetitivo, ripete varie volte tutta una serie di paragoni e riferimenti biblici che l’Apostolo, come il soldato, il lavoratore o il pastore, ha diritto per gustare il frutto del suo lavoro per poi concludere con enfasi «io però non ho usato nessuno di questi diritti» (15).
7E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? 8Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. 9Nella legge di Mosé infatti sta scritto: “Non metterai la museruola al bue che trebbia”. Forse Dio si prende cura dei buoi? 10Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara, deve arare sperando, e colui che trebbia, trebbiare nella speranza di avere la sua parte. 11Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo. 13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo.
Con queste parole, Paolo sta forse chiedendo la riconoscenza e l’ammirazione dei Corinti? «Vorrei piuttosto morire», esclama con orgoglio. Partendo di qui Paolo riprende a descrivere il senso della sua missione di annunciare il vangelo con una delle espressioni più affascinanti che siano uscite dalla sua bocca: «Guai a me se non annunciassi il vangelo» (16).
Si sente come un profeta forzato a predicare. Ci ricorda l’esempio di Geremia (Ger 15,17) bruciato dal fuoco interiore del messaggio «mi sforzavo di contenerlo ma non potevo» (20,9). Solamente contrasti così violenti di parole come questi possono esprimere la nuova realtà esistenziale che è stata donata a Paolo nel suo incontro con il Risorto sulla strada di Damasco che ha fatto di lui un uomo libero e gustosamente incatenato per Gesù (cf. At 9). Questa forza che lo incatena interiormente è l’amore, espressione suprema di libertà. La memoria di questo Gesù, incisa nel più profondo del suo essere, lo porterà a scegliere e a identificarsi con i deboli ed emarginati in una vita di continuo rischio evangelico.
15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! 16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
In Antiochia (Gal 2,1-15) si mise dalla parte dei pagano cristiani la cui causa vedeva minacciata. Adesso in Corinto esce in difesa dei «deboli» giudeo cristiani. In una parola «mi feci tutto a tutti per salvare almeno qualcuno» (22). Che ricompensa spera Paolo? Nessun’altra se non quella di partecipare alla Buona Novella che egli annuncia.
24Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato.
Termina con un’immagine sportiva di corsa e di pugilato, suggerita dai «giochi itsmici» che si celebravano a Corinto, per illustrare il modo di essere libero che egli ha escogitato: allenamento, disciplina e sacrificio per vincere il premio. Se nello stadio uno solo vince la medaglia sportiva, nella vita cristiana tutti ricevono il premio se corrono con perseveranza.
di Mario Barbero
Mario Barbero
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