Slow page dei Missionari della consolata

19/ Atti. Paolo a Roma

Paolo prigioniero, naufrago, capitano, missionario nel cuore dell'impero.

In viaggio verso Roma e arrivo a Roma (At 27,1-28,31) 

La metà del libro di Atti, a cominciare dal capitolo 13, è dedicata ai viaggi di Paolo. Quello di cui parliamo in queste righe è l’ultimo. Il viaggio che Paolo compie come prigioniero, partendo da Cesarea verso Roma, narrato da un testimone oculare, Luca, con molti dettagli interessanti circa la navigazione in quell’epoca.

Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme ad alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio della coorte Augusta. Salimmo su una nave di Adramitto, che stava per partire verso i porti della provincia d’Asia e salpammo, avendo con noi Aristarco, un Macèdone di Tessalonica.

At 27,1-2

La narrazione è al plurale, «salimmo» (v.2). Paolo non è solo, ma viaggia in compagnia di altri prigionieri e dei suoi collaboratori Luca e Aristarco. Il viaggio sarà un’avventura in mezzo ai pericoli mortali incontrati in un drammatico naufragio, durante il quale Paolo emerge sempre più come il capitano finchè «tutti poterono mettersi in salvo a terra» (27,44).

Questo capitolo è uno dei testi più interessanti della letteratura antica sulla navigazione e sulla drammaticità del naufragio. Ricco di dati che rivelano un narratore che conosce la materia (gli esperti dicono che usa una decina di termini tecnici del linguaggio marinaro). È quasi un monumento letterario che Luca dedica a Paolo, esperto di viaggi e naufragi («tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde», 2 Col 11,25). È una pagina affascinante da leggere integralmente e gustare.

Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme ad alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio della coorte Augusta. Salimmo su una nave di Adramitto, che stava per partire verso i porti della provincia d’Asia e salpammo, avendo con noi Aristarco, un Macèdone di Tessalonica. Il giorno dopo facemmo scalo a Sidone e Giulio, con gesto cortese verso Paolo, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure. Salpati di là, navigammo al riparo di Cipro a motivo dei venti contrari e, attraversato il mare della Cilicia e della Panfilia, giungemmo a Mira di Licia. Qui il centurione trovò una nave di Alessandria in partenza per l’Italia e ci fece salire a bordo. Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido. Poi, siccome il vento non ci permetteva di approdare, prendemmo a navigare al riparo di Creta, dalle parti di Salmone, e costeggiandola a fatica giungemmo in una località chiamata Buoni Porti, vicino alla quale era la città di Lasèa.

At 27,1-8

La navigazione a quell’epoca era pericolosa in ogni stagione, ma soprattutto a partire dall’autunno, perciò da novembre a marzo i mari erano chiusi («maria clauduntur»). Il tempo più propizio per navigare nel Mediterraneo, era da maggio a ottobre.

Nell’antichità non esistevano navi passeggeri, chi si spostava per viaggi lunghi, prenotava un posto su una nave da carico (mercantile) (v.6), stando sul ponte e dormendo all’aperto o sotto delle tende. Le navi non potevano rispettare un orario troppo preciso, perché si dipendeva dal vento e dalle condizioni metereologiche. Quelli che dovevano viaggiare in nave, dovevano stare alcuni giorni nel porto per essere pronti quando la nave fosse partita. La velocità di crociera dipendeva molto dalle condizioni del tempo. In condizioni normali un viaggio da Alessandria d’Egitto a Roma poteva durare tredici giorni. Ma se il tempo era sfavorevole, il viaggio poteva durare più del doppio. Prima dell’invenzione della bussola, il cielo coperto rendeva difficile scorgere le stelle per orientarsi (v.20).

La tempesta e il naufragio

Essendo trascorso molto tempo ed essendo ormai pericolosa la navigazione poiché era già passata la festa dell’Espiazione, Paolo li ammoniva dicendo: «Vedo, o uomini, che la navigazione comincia a essere di gran rischio e di molto danno non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite». Il centurione però dava più ascolto al pilota e al capitano della nave che alle parole di Paolo. E poiché quel porto era poco adatto a trascorrervi l’inverno, i più furono del parere di salpare di là nella speranza di andare a svernare a Fenice, un porto di Creta esposto a libeccio e a maestrale.

At 27,9-12

Non volendo passare l’inverno in un porto poco attivo, il pilota e il capitano della nave non dando retta a Paolo che è esperto di pericoli di mare, prendono il rischio di continuare il viaggio per andare a svernare a Creta ma non riescono ad arrivarci perché incontrano una terribile tempesta che li sbatte come fuscelli sulle coste dell’isola di Malta. Il racconto del naufragio è altamente drammatico con dettagli interessantissimi di linguaggio marinaro. Contrasta con la violenza delle onde e l’insicurezza dei marinai, il coraggio e la sicurezza di Paolo il quale, confortato da una visione dall’alto, prende progressivamente il controllo della situazione e invita a non perdersi di coraggio (vv. 23-25).

Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, convinti di potere ormai realizzare il progetto, levarono le ancore e costeggiavano da vicino Creta. Ma dopo non molto tempo si scatenò contro l’isola un vento d’uragano, detto allora «Euroaquilone». La nave fu travolta nel turbine e, non potendo più resistere al vento, abbandonati in sua balìa, andavamo alla deriva. Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Càudas, a fatica riuscimmo a padroneggiare la scialuppa; la tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per fasciare di gòmene la nave. Quindi, per timore di finire incagliati nelle Sirti, calarono il galleggiante e si andava così alla deriva. Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e la violenta tempesta continuava a infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta.
Da molto tempo non si mangiava, quando Paolo, alzatosi in mezzo a loro, disse: «Sarebbe stato bene, o uomini, dar retta a me e non salpare da Creta; avreste evitato questo pericolo e questo danno. Tuttavia ora vi esorto a non perdervi di coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave. Mi è apparso infatti questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato. Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola».

At 27,13-26

Paolo è ormai il capitano della nave! Proprio quando il capitano e i soldati hanno perso ogni speranza di salvezza egli li esorta a non disperare cominciando a prendere cibo (è un’allusione all’eucaristia?) perché il «suo» Dio gli ha promesso che nessuno perirà (v.25).

Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava. Gettato lo scandaglio, trovarono venti braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, trovarono quindici braccia. Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. Ma poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e gia stavano calando la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prora, Paolo disse al centurione e ai soldati: «Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo». Allora i soldati recisero le gòmene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare.
Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo: «Oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza prender nulla. Per questo vi esorto a prender cibo; è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto». Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo. Eravamo complessivamente sulla nave duecentosettantasei persone. Quando si furono rifocillati, alleggerirono la nave, gettando il frumento in mare.

At 27,27-38

Dopo tanti giorni di sballottamenti in mare, avvistano finalmente una terra ferma sconosciuta verso la quale dirigere la nave dopo averla alleggerita del suo carico di frumento. Ma anche questo piano non riesce a realizzarsi perché la nave s’incaglia in una secca. Di fronte a questo imprevisto e temendo che i prigionieri fuggano, i soldati, che verrebbero ritenuti responsabili della fuga dei prigionieri, prendono la decisione di ucciderli. Il centurione però, che si era affezionato a Paolo si accorge in tempo dell’intenzione dei soldati e impedisce loro di attuare il loro piano malvagio. «E così tutti poterono mettersi in salvo» (v.44).

Fattosi giorno non riuscivano a riconoscere quella terra, ma notarono un’insenatura con spiaggia e decisero, se possibile, di spingere la nave verso di essa. Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e spiegata al vento la vela maestra, mossero verso la spiaggia. Ma incapparono in una secca e la nave vi si incagliò; mentre la prua arenata rimaneva immobile, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde. I soldati pensarono allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse gettandosi a nuoto, ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo progetto; diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiunsero la terra; poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra.

At 27,39-44

Soggiorno a Malta (28,1-10)

Dopo aver scoperto di trovarsi nell’isola di Malta sono impressionati dalla generosità con la quale vengono accolti dai suoi abitanti. Del breve soggiorno di Paolo a Malta, non vengono registrate parole memorabili, vengono narrati eventi che lo fanno credere una persona straordinaria quasi una divinità (v. 6). Ospitati alcuni giorni da Publio, il «primo» dell’isola, Paolo guarisce il padre (v.7), e questo aumenta il senso di riconoscenza della gente per il gruppo di naufraghi, i quali vengono poi  forniti di provviste per la prosecuzione del viaggio.

Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straodinario, cambiò parere e diceva che era un dio.
Nelle vicinanze di quel luogo c’era un terreno appartenente al “primò’dell’isola, chiamato Publio; questi ci accolse e ci ospitò con benevolenza per tre giorni. Avvenne che il padre di Publio dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo l’andò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì. Dopo questo fatto, anche gli altri isolani che avevano malattie accorrevano e venivano sanati; ci colmarono di onori e al momento della partenza ci rifornirono di tutto il necessario.

At 28,1-10

Da Malta a Roma (28,11-16)

Una volta partiti da Malta, il viaggio si fa veloce, si può dire che Luca ha fretta di portare il suo eroe a destinazione, Roma che, dopo Gerusalemme, Antiochia, Efeso, diviene il luogo «fine del mondo» in cui essere testimone di Gesù, anche se da una prigione. Da Malta alla Sicilia, con tappa a Siracusa, quindi alla penisola italica, Reggio e due giorni dopo arrivo a Pozzuoli, ove termina il viaggio in mare. In questa città vi è già una piccola comunità cristiana che accoglie Paolo e i suoi compagni per una settimana (v.14a ), quasi per acclimatarli alla terra ferma, dopo tante avventure in mare. Quindi partenza a piedi verso Roma.

Dopo tre mesi salpammo su una nave di Alessandria che aveva svernato nell’isola, recante l’insegna dei Diòscuri. Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni e di qui, costeggiando, giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana.
 Partimmo quindi alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio.
Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia.

At 38,11-16

Partimmo quindi alla volta di Roma (28,14)

È l’ultima tappa di questo viaggio avventuroso ormai giunto vicino alla meta. Mentre il gruppo di Paolo avanza verso Roma, ecco che un altro gruppo di persone lascia Roma e viene incontro al famoso prigioniero. Paolo aveva scritto la sua lettera più poderosa alla chiesa di Roma come sua autopresentazione, ma certamente nel suo piano di arrivare a Roma (Rom 1,10; 15,22) non era previsto di arrivarci da prigioniero. Pur senza i moderni mezzi di comunicazione, le notizie corrono, e un gruppo di cristiani di Roma, saputo che il famoso Paolo di Tarso sta arrivando, decidono di andargli incontro fuori Roma, a Foro Appio, una località a circa 50 km a sud della città. Dopo tante peripezie di viaggio, si capisce l’emozione di Paolo (v. 15 «rese grazie a Dio e prese coraggio») nell’incontrare questa avanguardia della comunità romana.  
Arrivato a Roma, al prigioniero Paolo viene concesso di abitare per suo conto, vigilato da un soldato. Ed è in questa situazione che Paolo vorrà incontrare i suoi correligionari giudei. Ancora una volta, sebbene in catene, ha l’opportunità di testimoniare Gesù ai Giudei e, di fronte al loro rifiuto, decidere di dedicarsi totalmente ai pagani «ed essi l’ascolteranno» (v.29).

Presa di contatto con i Giudei di Roma

Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei e venuti che furono, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. Questi, dopo avermi interrogato, volevano rilasciarmi, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. Ma continuando i Giudei ad opporsi, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio popolo. Ecco perché vi ho chiamati, per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena». Essi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi; di questa setta infatti sappiamo che trova dovunque opposizione».
E fissatogli un giorno, vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra loro, mentre Paolo diceva questa sola frase: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per bocca del profeta Isaia, ai nostri padri: “Và da questo popolo e dì loro: Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete; guarderete con i vostri occhi, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito: e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi; hanno chiuso i loro occhi per non vedere con gli occhi e non ascoltare con gli orecchi, non comprendere nel loro cuore e non convertirsi, perché io li risani”.
Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!».

Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.

At 38,17-31

Conclusione

Dopo aver letto l’epilogo di Atti restiamo con una domanda: cos’è successo a Paolo dopo i due anni di prigionia a Roma? È stato messo in libertà? Ha potuto andare in Spagna come aveva desiderato (Rom 15,24-28)? È stato nuovamente imprigionato? Luca non soddisfa la nostra curiosità. Da altre informazioni (tradizioni) sembra che Paolo sia stato ucciso a Roma nella persecuzione di Nerone.
Atti non è la biografia di Pietro e Paolo ma la storia della parola di Gesù che nella forza dello Spirito Santo risuona libera e senza catene sia in Roma al tempo di Luca come nelle periferie più lontane del mondo di oggi. Pietro e Paolo sono stati i testimoni nella Chiesa delle origini duemila anni fa, noi, uomini e donne che abbiamo ricevuto la fede in Gesù di Nazareth, Figlio di Dio e Salvatore del mondo, dobbiamo essere i testimoni di Gesù nel mondo di oggi (Biblia de nuestro pueblo).
Anche attraverso di noi il libro degli Atti degli Apostoli continua ad essere scritto.

di Mario Barbero

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Mario Barbero

Padre Mario Barbero, missionario della Consolata, nato nel 1939, è stato a Roma durante il Concilio, poi in Kenya, negli Usa, in Congo RD, in Sudafrica, in Italia, di nuovo in Sudafrica, e ora, dal 2021, nuovamente in Italia. Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage Encounter (Incontro Matrimoniale).

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