Per loro ero solo il mio peccato, anzi peggio: ero strumento per i loro fini, oggetto tra gli altri. Per colpire te.
Mi hanno trascinata tra la folla che ti ascoltava, e mi hanno posta al centro. La mia vita ridotta al mio male, esposta alle viscere del popolo.
«Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosé, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (Gv 8, 1-11).
Mi hanno posta al centro, ma al centro, per loro, c’era la loro ragione, la vittoria su di te, il consenso della gente.
Tu ti sei chinato e ti sei messo a scrivere con il dito nella sabbia: scrivevi il mio peccato.
Li hai sorpresi. La loro condanna, che era scolpita su tavole di pietra, era troppo perentoria per trovare qualche lettera tracciata nella sabbia come risposta.
Allora hanno insisitito finché ti sei alzato e li hai guardati negli occhi: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Ti sei chinato e hai ripreso a scrivere per terra. Questa volta il loro peccato.
Li hai guardati negli occhi per liberarli e li hai ricondotti alla loro vita. Erano fuori, li hai riportati dentro. Erano sporti sulla vita degli altri, li hai afferrati per ricondurli salvi nella loro, prima che cadessero di sotto. Hai scritto i loro peccati nella sabbia perché li portasse via il vento. E anche il mio.
Quando se ne sono andati, ti sei alzato e mi hai fissato: nei tuoi occhi io non ero il mio peccato. Ero io, e basta. E in quel momento la mia vita ha smesso di accusarmi.
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». «Nessuno, Signore». E mi hai detto: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Me ne sono andata, camminando come se attraversassi quella città per la prima volta, come se quelle strade polverose fossero nuove, appena aperte, e mi sono messa a cantare: «Non ricordate più le cose passate, non ricordate più le cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is, 43, 18-19).
di Luca Lorusso
Luca Lorusso
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