Padre Piero Demaria, classe 1978, cuneese, è sacerdote missionario della Consolata dal 2012. Dopo due brevi periodi in Mozambico e a Taiwan, oggi lavora con i giovani in Italia nel trevigiano, nella casa Milaico.
«Sono nato a Cuneo nel 1978, ed ho abitato per i primi anni della mia vita in un paesino che si chiama Madonna delle Grazie, poco distante dal capoluogo della “provincia granda”. In famiglia siamo in quattro: i miei genitori, mio fratello Francesco e io. Ciò che ha avuto più impatto sulla mia formazione è stata sicuramente la famiglia insieme alla scuola e allo scoutismo. Alle elementari la maestra durante i periodi di vacanza non perdeva occasione per viaggiare e conoscere il mondo. Al ritorno ci raccontava, con fotografie e cartelloni ciò che aveva visto e compreso e in molti di noi pian piano nasceva il desiderio di seguire il suo esempio. Se a questo si aggiungono le vacanze in camper con la famiglia e i sentieri scoperti con gli scout, vien quasi da sé che il percorrere le strade del mondo, incontrando chi le abita, sarebbe presto diventato un desiderio irresistibile».
Perché hai deciso di diventare missionario e, soprattutto, perché della Consolata?
«Dopo il liceo Classico decisi di studiare Fisica e mi trasferii a Pavia per frequentare l’università. Ogni fine settimana tornavo a Cuneo per seguire il gruppo scout, del quale nel frattempo ero diventato animatore. Nell’estate del 1998 avevamo programmato di recarci a Foligno, dove il terremoto aveva devastato un gran numero di abitazioni, per prenderci cura dei bambini e dei ragazzi ospitati nelle tendopoli. Ci fu risposto, però, che i volontari all’opera erano già molti e la nostra presenza non era necessaria. Presi alla sprovvista ripiegammo su un campo di lavoro organizzato dai missionari della Consolata a Bevera (Lc) che fu per me un punto di svolta decisivo. In quel campo, infatti, terminavo il mio percorso scout con la “partenza” e decidevo di dedicare parte del mio tempo al servizio. Padre Antonello Rossi con le sue belle catechesi e la sua testimonianza aveva fatto nascere in me il desiderio di approfondire un po’ il mio rapporto con Dio.
Mai avrei immaginato, però, che di lì a qualche anno sarei diventato missionario della Consolata!
Perché proprio della Consolata? A volte una comunità, uno sport, un lavoro, una compagnia colpisce il tuo cuore e non sai neanche bene il perché; senti che lì ti trovi bene, che in qualche modo con loro riesci a essere te stesso. Ho incontrato diversi missionari e missionarie della Consolata che mi sono sembrati persone felici e in gamba, in qualche modo realizzati. Un altro aspetto che mi è subito piaciuto della Consolata è stato lo spirito di famiglia che si respirava in seminario. Una semplicità e un calore naturali nei rapporti umani».
Puoi raccontare brevemente la tua storia missionaria?
«Durante gli anni universitari ho frequentato la Certosa di Pesio mentre continuavo a svolgere il mio servizio con gli scout e ho scoperto che il tempo dedicato a fare “deserto”, a stare solo di fronte a qualche paesaggio mozzafiato, aperto all’ascolto di me stesso, della natura e di Dio, era un tempo prezioso per me. Piano piano è maturato il desiderio di dedicare la mia vita al Signore e agli altri… ma come? Sono andato a conoscere i monaci di Les Rins, ho frequentato un corso vocazionale con i Francescani ad Assisi, eppure sentivo che il mio posto era con i missionari della Consolata.
Quando stavo quasi per decidermi, ecco che mi innamoro di una ragazza e lei ricambia e tutto torna nuovamente sottosopra. Che fare?
A lei volevo molto bene e il tempo passato insieme era di una delicatezza e profondità rare a trovarsi… Pensa e ripensa, in alcuni esami universitari ho ottenuto risultati poco soddisfacenti, perché non riuscivo a concentrarmi. Lei o la missione? E non riuscivo a decidermi. Alla fine, dopo essermi confrontato, dopo aver cercato di ascoltare i miei desideri più profondi, ho scoperto che ciò che mi faceva esplodere di gioia più di tutto era la relazione con Dio e con gli altri e dunque mi son deciso: appena conclusa la laurea sono entrato nel seminario dei missionari ad Alpignano».
Dove e quando hai studiato?
«Tre anni di studi filosofici ad Alpignano, poi il noviziato a Bedizzole vicino a Brescia, quindi la teologia a Roma, un anno di servizio pastorale a Maùa in Mozambico, poi la specializzazione in teologia biblica all’Università Gregoriana di Roma, con un semestre all’Università Ebraica di Gerusalemme e quindi, finalmente, l’ordinazione, a Cuneo nel 2012. Sedermi in mezzo agli altri preti dopo esser stato ordinato, con la presenza di tantissimi amici e conoscenti che mi sostenevano ed incoraggiavano è stato davvero emozionante».
Dove hai lavorato?
«La prima destinazione missionaria è stata Taiwan, dove abbiamo avviato la presenza dei missionari della Consolata in terra “cinese”. L’entusiasmo era grande, la cultura, la lingua e la realtà affascinanti, però la salute non mi ha accompagnato e dopo poco meno di un anno sono dovuto rientrare in Italia».
Puoi dire due parole sul paese in cui ti trovi oggi? Quali sono le sfide missionarie principali di questo paese?
«Attualmente mi trovo a Casa Milaico, nel comune di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, insieme a padre Daniel, al diacono Noè e ad una famiglia composta da Cristina e da sua figlia Noemi. Penso che le sfide che l’Italia deve affrontare in questo momento siano grandi e impegnative. Dal punto di vista missionario una delle più importanti credo sia il coinvolgimento con i giovani. Le statistiche indicano che solamente un 10% di loro si sente vicino alla Chiesa e i motivi di tale allontanamento sono molteplici. Eppure sono proprio i giovani a costituire il domani della nostra società e in questa realtà sempre più frammentata e precaria il trovarsi insieme confrontandosi, lasciandosi accompagnare e decidendo di dare il proprio contributo attivo nella costruzione di una società più tollerante, più attenta alle varie ricchezze e alle culture diverse presenti nel Paese è fondamentale».
Che lavoro stai svolgendo oggi?
«A casa Milaico viviamo, preghiamo e lavoriamo insieme, religiosi e laici, e ci occupiamo principalmente della formazione di adolescenti e giovani organizzando incontri mensili e campi estivi e preparando i giovani per un’esperienza in missione».
Qual è la difficoltà più grande che incontri?
«La difficoltà più grande è la fatica che si riscontra in molte persone oggi nel mantenere una certa continuità negli impegni presi. Ci si entusiasma facilmente, ma si lascia perdere con altrettanta facilità un cammino intrapreso e dunque bisogna ricominciare spesso da capo».
Qual è la soddisfazione più grande?
«Incontrare molti che ci sono vicini, che collaborano in mille modi diversi con la nostra comunità, che ci trasmettono il loro affetto. Soddisfazione è vedere un giovane che trova la sua strada, che cresce, che si assume le sue responsabilità e sapere di essere stati compagni di viaggio per un tratto del suo percorso».
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«Mi trovavo a Maúa in Mozambico, durante lo stage pastorale, quando io e un altro padre missionario siamo andati a far visita a un’anziana signora nella cittadina di Cuamba. Lei non parlava portoghese, né macua, ma solo kishwahili, in quanto aveva trascorso tutta la sua vita in Tanzania. Era a letto malata e noi, lì accanto a lei, potevamo fare ben poco. Eppure il suo sorriso lasciava trasparire la gioia di una visita che consisteva semplicemente nell’essere lì, accanto a lei. A un certo punto ci ha chiesto di pregare insieme un Padre nostro e, tirando fuori quel poco di kiswahili che conoscevamo, abbiamo pregato insieme. Lontani per età, esperienza di vita, visione del mondo, ci sentivamo vicini nell’essere insieme figli di uno stesso Padre».
A partire dal tuo contesto, che cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
«Credo che dovremmo trovare più tempo per stare con i giovani, per essere loro accanto quando vivono momenti importanti, quando scelgono la loro strada, si laureano, iniziano il primo lavoro. I nostri centri missionari dovrebbero essere dei luoghi aperti in cui potersi sentire “a casa”, sapendo che c’è qualcuno di fidato con cui poter parlare o semplicemente prendere un caffè. Dovremmo essere persone autenticamente adulte che non hanno paura di lasciar trasparire i propri limiti, ma che hanno scelto con coraggio una direzione e su quella camminano con gioia».
Durante queste interviste chiediamo sempre di suggerirci uno slogan da proporre a tutti i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari. Che frase, slogan, citazione proporresti, e perché?
«La prima lettera di Giovanni dice: “In questo consiste l’amore, non siamo stati noi ad amare Dio, ma Lui ha amato noi”. Lasciamoci semplicemente amare, dagli altri, così come ne sono capaci».
di Luca Lorusso
Leggi, scarica, stampa da MC marzo 2019 sfogliabile.
Luca Lorusso
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