Mi è capitato molte volte di fermarmi e voltare lo sguardo sulla strada appena percorsa, ma mai quanto nell’ultimo anno.
L’Africa
Prima di partire, mai mi sarei aspettata tutto quello che ho vissuto. Ero preparata a tutto, ma ancora non sapevo che il meglio doveva arrivare.
Tutto è iniziato in un caldo pomeriggio di luglio nella casa dei Missionari della Consolata a Bevera, nell’ormai lontano 2013. Eravamo tutti riuniti in Chiesa, più fresca rispetto alle altre sale, per ascoltare la testimonianza di Ivo, un missionario laico della Consolata. Un uomo semplice, tanto nell’aspetto, quanto nello spirito. E con questa sua semplicità anche nel parlare, ci ha portati in Congo. Parole forti, dure, difficili da digerire, raccontavano le atrocità viste in quegli anni, ma in quella voce si sentiva tutto il suo amore verso quella Terra ferita. Penso sia stato proprio quel contrasto tra le parole e il tanto affetto nel pronunciarle, che ha fatto scattare qualcosa in me.
Cosa spinge un uomo a restare, nonostante il dolore, nonostante tutto? Credo sia proprio questo lo spirito missionario: partire nonostante i dubbi, le paure e restare, nonostante tutto, sapendo perfettamente ciò per cui vale la pena vivere.
E così due anni dopo, mi ritrovo su un aereo. Direzione: Tanzania. Un paese il cui nome, fino a poco tempo prima, pronunciavo con l’accento sbagliato e che associavo grossolanamente all’isola paradisiaca di Zanzibar.
Era l’estate della maturità, l’estate più libera di tutta la mia vita, piena di sogni, di felice incertezza per il futuro. Un’estate senza preoccupazioni, da vivere pienamente in ogni suo istante. Non potevo scegliere momento migliore per un viaggio simile.
Era il 3 agosto 2015, e la ragazza che quel giorno salì su quell’aereo, sarebbe inevitabilmente cambiata.
Se ripenso a quel giorno, e al momento in cui finalmente stavamo atterrando all’aeroporto di Dar es Salaam, credo mi si sia subito presentato quello che l’Africa avrebbe poi significato per me.
“Una Luce nella notte”
Tutto può essere racchiuso in quell’istante in cui, sorvolando la città all’apparenza addormentata, sotto di noi si apre una distesa di Luci nella notte. Una sensazione magica, quasi surreale. Sorvolavo una città mai vista che al suolo aveva una distesa di stelle, e uno spettacolo immenso come cielo.
Appena usciti dall’aeroporto, ad aspettarci ci sono le uniche due persone bianche, P. Francesco e il Generale. Ci dirigiamo verso i pick-up dove sul pianale depositiamo i nostri bagagli accuratamente legati tra di loro e alla macchina. Partiamo, destinazione: il Consolata Centre di Bunju, la casa che di lì a poco avremmo definito “la Reggia”. Sul nostro pick-up il viaggio dall’aeroporto alla casa si svolge praticamente in silenzio: come dei piccoli bambini guardiamo fuori dal finestrino tra un misto di incredulità e curiosità. Le strade sembrano deserte e le auto sembrano guidate da nessuno; sarà anche la scarsa illuminazione, ma le persone di colore di sera non si vedono proprio.
Ci rianimiamo un attimo quando ad un semaforo rosso, noi tiriamo via dritto. Non capiamo il perché, allora chiediamo al padre e la risposta effettivamente non fa una piega: “Se ci fermiamo al semaforo è molto probabile che vi rubino i bagagli”. Arriviamo alla casa praticamente a mezzanotte, ma non possiamo andare a dormire: c’è il cibo che ci attende, e come rifiutarlo? Dopo aver mangiato, scarichiamo i bagagli e finalmente ci dirigiamo nelle nostre stanze.
Ed è lì, stesa nel mio letto coperto da una zanzariera, che più che ripararti dagli insetti, sembra ripararti dal mondo, finalmente inizio a realizzare di avercela fatta. Ma nulla mi avrebbe preparato a ciò che avrei provato il giorno del kwaeri (arrivederci). Emozioni e sentimenti forti e contrastanti che in questi due anni di cammino mi hanno portato a fare una scelta: tornare.
Perché tre o cinque settimane non ti permettono di vedere le cose nella giusta prospettiva, tutto sembra rose e fiori. Sarebbe come provare un paio di scarpe nuove e poi rimetterle nella scatola senza nemmeno provare a camminare; non saprai mai se quelle sono davvero le tue scarpe. Ed è invece proprio questo quello che io voglio cercare di capire.
di Alessia Rossi
Alessia Rossi
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