Nato in Kenya, a Siaya, provincia del Nyanza, nel 1982, da genitori cristiani impegnati nella chiesa locale, Nicholas Omondi, quinto di otto figli, oggi è padre missionario della Consolata a Bevera (Lecco), dove lavora con i giovani e gli ammalati.
Perché hai deciso di diventare missionario e, soprattutto, perché della Consolata?
«Ho come modello il mio parroco missionario proveniente dall’Irlanda. Mi colpiva sentirlo parlare e vederlo presente nelle nostre umili case, tra gli ammalati, nelle scuole, nei dispensari. Mi sono sentito attratto da quello stile di vita come da una calamita. Ho scelto poi la strada dei missionari della Consolata perché un mio amico mi aveva dato una copia della loro rivista The Seed. Lì si raccontava di una missione e l’articolo terminava con un invito ai giovani di dare una mano. Cominciai così a scrivere a un missionario. Il padre rispondeva alle mie curiosità e mi poneva domande molto specifiche e personali che implicavano una risposta seria. Così mi sono innamorato della Consolata e alla fine del liceo sono stato invitato per una convivenza con altri aspiranti missionari. Lì ho compreso che il Signore mi chiamava nell’Imc».
Puoi raccontare il tuo cammino nell’Imc?
«Nel 2003 ho iniziato l’anno di studi propedeutici in Uganda. È stata un’esperienza forte per due motivi: era il primo anno di seminario e la prima volta che vivevo lontano dai miei. Eravamo otto ragazzi. In seguito tutto il gruppo ha continuato con lo studio della filosofia in Kenya per quattro anni. Nell’anno 2007/2008 ho fatto il noviziato e nel 2008 la professione temporanea. Nello stesso anno sono stato destinato in Italia dove ho studiato teologia alla pontificia università Urbaniana. Nel 2011/2012 ho fatto un anno di servizio a Bedizzole (Brescia), finito il quale sono stato destinato a Bevera, dove ho iniziato la specializzazione in teologia morale e ho fatto anche i voti finali nel 2012. Nel 2013 sono diventato diacono e il 30 agosto 2014 sono stato ordinato in Kenya insieme ad altri dieci confratelli. È il dono più grande che io abbia mai ricevuto».
Puoi dire due parole sul paese in cui ti trovi oggi? Quali sono le sue sfide missionarie?
«L’Italia è un grande dono per me e per tutte le persone che hanno potuto entrare in questa terra. Noto con piacere il valore del volontariato presente in tutte le stagioni della vita. La forte accoglienza di tutti coloro che bussano alla porta della Penisola mi commuove. L’Italia è una democrazia con alleanze che si creano distruggono e poi si ricreano senza mai arrivare alla guerra. Ed è un grande esempio per me. Inoltre apprezzo la convivenza pacifica tra il cattolicesimo e la vita politica del paese.
Penso che la sfida principale della missione in Italia consista nel trovare un nuovo linguaggio per parlare a chi non crede o a coloro che non sanno a chi o cosa prestare la loro fede. Bisogna trovare un nuovo modo per fare innamorare le persone della chiesa. Perché spesso, chi si trova in crisi spirituale, non fa fatica a credere in Dio, fa fatica a credere nella chiesa».
Che lavoro stai svolgendo oggi? Quali sono le difficoltà e soddisfazioni che incontri?
«Lavoro a Bevera, il luogo che mi ha accolto da seminarista e da prete. Posto in cui rido, a volte piango, in cui posso sbagliare e correggermi. Lavoro nell’animazione missionaria tra i giovani e sono cappellano all’ospedale di Casatenovo.
Lavorare con i ragazzi significa essere sempre disponibile per ascoltare, dialogare, accompagnare, condividere la Parola di Dio, abbracciarsi e cercare risposte alle domande quotidiane.
In ospedale invece bisogna avvicinare una persona che soffre anche solo per dirle: ”Forza, ce la farai”, oppure per darle un bicchiere d’acqua. Chiamarla con il suo nome e non con il numero della stanza (cosa che implica a volte di dire un nome per un altro). Ascoltarla quando ti confida con occhi brillanti che il giorno seguente sarà dimessa, rispettarne il silenzio quando non vuole parlare e rattristarsi quando non ce la fa, offrire una preghiera per lei.
La soddisfazione più grande è pronunciare le parole della consacrazione a messa. Poter dire a qualcuno: “Dio ti benedica”, mi commuove».
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«Una volta ho chiesto a un amico richiedente asilo di venire a parlare a un gruppo di ragazzi delle medie in una parrocchia qui vicino. Sono rimasto sorpreso dall’attenzione, rispetto e delicatezza con cui hanno posto le loro domande e ancora di più dal fatto che a tre mesi di distanza chiedono ancora di lui, se ha trovato lavoro, ottenuto il permesso di soggiorno, se pensa di tornare al suo paese. I bambini sono proprio santi».
Quali sono le sfide della missione del futuro? Come pensi di affrontarle nel tuo ambiente?
«Penso che la chiesa debba fare i conti con la secolarizzazione. Prima tutti credevano e i valori della chiesa erano gli stessi della società. Oggi invece la società sembra mettere in discussione i valori etici e proclamarne di opposti. In secondo luogo dovrà gestire la questione della famiglia. Bisognerà definire questo termine alla luce dei recenti cambiamenti e scelte politiche. Credo che la chiesa debba fare un grande salto per coinvolgere sempre di più i laici. Infine fare i conti con la convivenza con altre religioni, come vivere la fede all’interno di questa pluralità.
In concreto penso di affrontare questo nel mio ambiente, rimanendo aperto al dialogo e all’annuncio. Nel nostro piccolo dobbiamo ricordarci che la chiesa è di Cristo e che il suo futuro, il mio e il tuo, è nelle mani del Signore che ha promesso di stare con noi fino alla fine dei tempi».
Che cosa possiamo offrire al mondo come missionari della Consolata?
«La nostra congregazione è stata fondata per l’Etiopia. Era il sogno dell’Allamano. Oggi quel paese è diventato il mondo. Essa ci insegna a camminare con il tempo. Ha allargato l’orizzonte e tenta di rispondere al grido del mondo attuale. È una congregazione multiculturale e ciò testimonia che la diversità è ricchezza ed evangelizzazione. Inoltre siamo eucaristici e mariani dentro un mondo frettoloso e rumoroso. Abbiamo un’attenzione verso il povero, l’emarginato, il migrante. Siamo in un mondo in cui tutto viene fatto sotto i riflettori, ma il bene non deve fare rumore si fa perché è bello farlo!».
Cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
«Penso che si debba assecondare ogni proposta valida dei ragazzi e cercare di stare loro vicini. Dimostrare che ogni loro opinione è importante e preziosa e che la porta è aperta a qualunque orario. Bisognerebbe seguire il mondo giovanile anche tra i banchi di scuola».
Che frase, slogan, citazione proporresti ai giovani che si avvicinano ai nostri centri, e perché?
«Prendo la frase contenuta nell’episodio del buon Samaritano: “Va! E anche tu fa lo stesso!”, perché Gesù non si ferma alle parole, ma affida un compito. Le parole servono fino ad un certo punto, esse devono poi lasciare spazio al fare, vivere e amare».
Ilaria Ravasi
Ilaria Ravasi
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