Ho conosciuto Missio Giovani a 30 anni. Credo che per me sia stata l’età giusta.
Ho incontrato Gesù da piccolo, in famiglia, come tanti. Frequentavo l’oratorio del mio piccolo paese, spesso servivo la messa come chierichetto, mi arrabbiavo se, per qualche motivo, mancavo ad una celebrazione. Ho vissuto la mia infanzia secondo il “tempo cristiano”, quel calendario dell’attesa che, forse, appartiene a quell’antico bisogno dell’uomo di scandire la vita in cicli: c’è il momento della penitenza e quello della gioia, quello della morte e quello della vita, quello della distruzione e quello della costruzione. La mia idea di Dio era, negli anni dell’adolescenza, quasi solo liturgica; pensavo, poi, che il rapporto tra me e Gesù fosse esclusivo. E, forse, da qui è partito il grande equivoco.
Ad un certo punto tutto si è fermato. Il mio essere “spirito libero” ha trovato sfogo nelle letture. Ho creduto che la maturità passasse dal mettere in discussione un catechismo che va bene fino a quando sei “piccolo”, ma poi …
Mi sono allontanato da Dio con la testa, ma sono morto, forse, nel cuore. Ovviamente non potevo dirlo ai miei amici, ai miei compagni, che figura ci avrei fatto? Non potevo dirlo a miei genitori: che ne sarebbe stato altrimenti del mito di quel giovane ribelle agnostico?
Per anni, con una scopa di buona marca, ho messo sotto il tappeto delle granitiche certezze intellettuali la polvere della mia fragilità esistenziale, il bisogno di dare un senso a questa vita. Le braccia che reggevano quella scopa si rinvigorivano sempre di più di fronte al racconto dei “mali della Chiesa”. Percepivo, poi, il mondo parrocchiale come un fortino, arroccato nelle proprie sacre verità e nei propri tabù. Un mondo in cui non c’era spazio per l’amore, di qualunque tipo esso fosse, per la differenza, per la gioia pura. Un mondo non inclusivo, ma escludente. Un mondo che imponeva privazioni, capo chino e una buona dose di ipocrisia. Un mondo che costituiva per molti una foglia di fico dietro cui nascondere le sporcizie della “vita vera”, reale, di tutti i giorni.
Ma si sa, nella vita irrompe sempre l’inaspettato. Vita e morte, come dicevo. Ho conosciuto l’amore di una donna. Ho perso quasi all’improvviso i miei amati nonni. Ho ritrovato i miei genitori e la mia sorellina. Ho rotto con alcuni amici. Per un bel po’ di tempo sono rimasto privo di orientamento in questo vortice di emozioni. Poi, un giorno, Elena, si chiama così la mia ragazza, mi ha fatto la fatidica domanda: “Ma a te, in questo momento, cosa costa credere?”. La “scommessa” di Pascal, quel capitolo dei libri di filosofia che ho sempre liquidato come banale. Uno a zero, palla al centro. Quella domanda non era astratta. Non era speculazione filosofica (ne avevo fatta fin troppa, e di bassa, sino a quel momento, senza molti risultati). Aveva un terreno in cui poter essere coltivata.
In un weekend del 2016 andai a sondare quel terreno. Mi informai subito sul proprietario: un tal o una tal “Missio Giovani Puglia”. Senza retorica, venni travolto dai contadini di quel campo.
Era la Chiesa che non avevo mai avuto e che non credevo esistesse. I Tags di questa “nuvola umana” erano: missione, relazione, amore, famiglia, comunione, gioia. In quei contadini, intenti a seminare, ho visto una Chiesa che include, che non ha tabù, pregiudizi, che accoglie, che dà entusiasmo, vita. Una Chiesa che tocca la carne, la fragilità, l’umanità, l’unicità delle persone. Una Chiesa che prega ballando, che partecipa alla messa sorridendo.
E sono ancora qui. Il 3 marzo ho partecipato al meeting di Lucera di Missio Giovani Puglia. Abbiamo parlato di “resilienza”, di cosa significhi per il cristiano essere “resiliente”, di come questa reazione all’urto, al trauma passi dalla Croce, che è, in fin dei conti, la vita. Ancora una volta Missio Giovani mi ha insegnato, come ha scritto Bonhoeffer, che “Dio e la sua eternità devono essere amati da noi pienamente. Ma questo amore non deve nuocere ad un amore terrestre, né affievolirlo”.
Grazie a Missio Giovani, grazie a Padre Dawinso, grazie a tutti i volti che ho incontrato, a tutti gli abbracci che ho ricevuto.
Di Francesco Antonica
Francesco Antonica
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