Trenta paesi, dieci anni di viaggi, trenta foto per raccontare storie che toccano.
Anche visitare la mostra «Viaggi dentro» e ascoltare la voce del suo autore Alex Zappalà è stato un piccolo viaggio interiore per molti a Martina Franca (Taranto).
La mia auto (s)corre sull’autostrada mentre in radio passa una di quelle canzoni che ti aiutano ad accorciare la strada, «…alla fine di un viaggio c’è sempre un viaggio da ricominciare», canta De Gregori, parole che evocano in me le sensazioni trasmesse dalla mostra fotografica «Viaggi dentro» di Alex Zappalà, fotoreporter, per diversi anni responsabile di Missio giovani.
Quando chiesi ad Alex di allestire la sua mostra a Martina Franca, immaginavo che sarebbero piaciute le sue foto (ed è stato così!), e che esse sarebbero state un’ottima occasione per gustare angoli di mondo. Solo durante l’esposizione mi accorsi che quegli angoli di mondo sarebbero rimasti «curve nella memoria», terremoti di emozioni.
Quasi un ossimoro
Alex scatta con l’occhio del fotografo e sviluppa con il cuore del missionario. Durante la mostra, a chiunque venisse a vedere il suo lavoro, raccontava le immagini catturate con il sensore della sua fotocamera e con pellicole speciali su cui s’impressiona la luce dell’animo umano.
Ti colpisce il suo aspetto pacioso e il suo sorriso amichevole, gli manca lo sguardo severo di certi suoi colleghi. Il tono della sua voce è pacato. L’accento catanese alternato a intercalari romaneschi ti fanno sorridere, ma spesso è un sorriso amaro, perché il contenuto del suo messaggio è tagliente come una lama. Ti interpella.
È così Alex: agrodolce, come le sue foto che mostrano storie drammatiche, scenari inquietanti, insieme a gioie, abbracci, piccoli miracoli che ogni giorno avvengono in «vite di scarto» (come avrebbe detto Zigmunt Bauman) che trasudano umanità. Viaggi Dentro: quasi un ossimoro, due parole in contrapposizione, di sicuro una provocazione! Perché mentre il «viaggio» esprime un moto di uscita, l’avverbio «dentro» dice una retromarcia.
La mostra è un viaggio essa stessa, un percorso che aiuta a uscire da se stessi e andare verso l’altro. È un percorso che affronta guerre, malattie, vita e morte, la fame, la disarmante semplicità dei bambini, l’ostinazione di vedere il bicchiere mezzo pieno, la certezza che il futuro è già domani.
Provo a immaginare quanto sia stato complicato scegliere i 30 scatti che rappresentano 10 anni di viaggi missionari in 30 paesi del mondo, 30 immagini che raccontano senza fronzoli, che riassumono senza esclusioni, che commuovono senza pietismi, che interrogano senza risposte definitive…
Da un muro a un orizzonte
La mostra comincia con l’immagine di un muro e termina con ampi orizzonti senza confini. Il muro è quello che separa Betlemme da Gerusalemme, che separa palestinesi e israeliani; è il muro di cemento impastato con i cuori induriti da una «cardiosclerosi precoce» provocata dall’odio tramandato da oltre settant’anni.
Nell’aprire il racconto della mostra, Alex sembra parafrasare le parole rivolte da papa Francesco ai giovani della Gmg di Cracovia: «…abbiate il coraggio di insegnare a noi che è più facile costruire ponti che innalzare muri!».
Tra quel muro e quell’orizzonte si passa da una guerra all’altra: in Repubblica Democratica del Congo ad esempio. Siamo turisti a un safari fotografico nella savana: dallo sfondo sfocato si staglia in primo piano la testa di una bambola e i resti di stoviglie per terra… Turisti ignari di una guerra taciuta da oltre vent’anni per l’accaparramento di terre con giacimenti di coltan, minerale utilizzato per la costruzione dei touch screen di telefonini e tablet.
Il mio smartphone vibra nel momento meno opportuno. Non leggo il messaggio. Mi fa impressione toccare quello schermo forgiato con sangue e sudore di soldati per forza e minatori – spesso bambini – pagati pochi dollari al giorno.
Storie dentro
La mostra è pensata per giovani, ma racchiude un messaggio anche per i bambini che fanno domande a cui non è facile rispondere e per i più grandi che si chiedono esterrefatti perché nessuno parli di queste cose…
Notizie taciute dai media, non facili da trovare, forse perché non le vogliamo trovare.
La mostra «Viaggi dentro» apre una finestra sul mondo, invita a informarsi, discutere, capire. È il compito del fotoreporter mandare un messaggio, poi sta a noi decidere se chiudere quella finestra o spalancarla.
Una festa in Benin. In ogni foto c’è un particolare che ti colpisce. C’è un momento di gioia ripreso in Benin: danze e canti al ritmo dei tamburi. Eppure, in questo quadro festoso, l’occhio dell’osservatore nota la tristezza di una ragazza che porta, evidenti sulle braccia, i segni della malattia… è l’Aids. Sulla testa ha il tipico copricapo di colore rosso (colore di lutto in Benin) che serve da monito per gli altri: un segno esteriore che indica una fine ineluttabile. In mano, in un sacchetto nero, ci sono gli indumenti puliti, gli ultimi che indosserà. Lo sguardo perso nel futuro che non ha…
La ragazza farfalla. Sì, il futuro. Quello che per i bambini è già domani, come per la «ragazza farfalla» di un’altra foto. Uno squarcio di luce all’interno della capanna mostra parzialmente il suo volto intessuto con i segni della sua tribù sull’ordito della malattia che l’accompagna fin dalla nascita. La ragazza sogna di fare la dottoressa. Lo dice con la sicurezza di chi sta per consegnare la tesi in medicina. Eppure sa di avere l’Aids.
Tagore scriveva che «la farfalla non conta gli anni ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta». È questo l’insegnamento della ragazza farfalla: se vuoi restare bruco per tutta la vita fai pure. Ma se hai il coraggio di rinascere farfalla, nel breve tempo che ti è dato, puoi vedere orizzonti immensi.
Le mani di Marcel. Non si può vivere senza sporcarsi le mani e darsi da fare per l’altro. Sono le mani di Marcel (a cui Alex dedica la mostra) che sbuccia un frutto. Non il viso, ma le mani esprimono l’avere cura dell’altro. Le mani sono il luogo del primo incontro, del saluto, le mani sono lo strumento per aiutare, per toccare e abbracciare, per sentire.
Donna Celsa. Anche Celsa non riesce a stare con le mani in mano. È una donna che vive nell’Amazzonia colombiana e che, non sopportando più di vedere i tanti bambini del suo barrio mangiare nemmeno un pasto al giorno, ha iniziato a preparare loro una merenda. Osservando donna Celsa che prepara un pasto al giorno per più di 130 bambini viene spontaneo chiedersi come faccia a trovare cibo per tutti. Lei risponderebbe che «nella matematica di Dio per moltiplicare devi dividere». Così, grazie alla condivisione di amici e vicini, la sua umile casetta, ogni giorno, diventa un «merendero» chiamato «El buen Samaritan», una specie di tabernacolo dove si «spezza» quel poco che c’è.
Nel nostro mondo siamo abituati a vedere ciò che non abbiamo e viviamo la nostra vita nell’ansia di riuscire ad averlo, anche se superfluo.
La capanna spoglia. Sarebbe bello vedere di persona quella capanna di tronchi e paglia che sorge nel nulla, in un angolo di savana burundese. A prima vista sembrerebbe che manchi tutto. Non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono sedie e tavoli, non ci sono finestre, non c’è il pavimento. Eppure quella capanna è un asilo di mattina e un luogo di ritrovo e aggregazione nel pomeriggio, il venerdì è una moschea, il sabato è il luogo di culto per i cristiani evangelici e la domenica è una cappellina per i cattolici. Quindi è bello che quella capanna ci sia, perché tra le cose che mancano non ci sono quelle più importanti.
La scuola nella foresta. Anche la piccola scuola nella foresta del Bengala a 250 km dalla prima città abitata è carente di banchi, sedie, penne, quaderni, eppure il maestro che l’ha messa su l’ha creata lo stesso perché pensa che la povertà più grande non è quella delle cose, ma quella culturale.
Dice un proverbio africano: «Hai un dente solo? Sorridi solo con quel dente». Il vuoto che c’è nella tua vita riempilo con l’amore sconfinato e il perdono. Anche se la vita ti ha deluso, ti ha tolto quello che avevi, anche se sei stato oltraggiato sopraffatto dall’odio o dalla violenza, puoi amare.
Pagine di Vangelo
Sembra di leggere pagine di Vangelo ascoltando Alex raccontare la sua mostra e mi viene in mente l’obolo della vedova. È uno degli ultimi pannelli della mostra. L’accoglienza e il sorriso di una famiglia di pescatori. L’ospite è sacro sul Rio Putumayo, al Confine fra Colombia e Perù. Vitto e alloggio non bastano, infatti non si lascia andar via l’ospite a mani vuote. In tasca, gli ultimi 1000 pesos (circa 10 centesimi di euro) con cui l’ospite può comprare un chilo di riso per la sua famiglia. «Ecco tutto quello ho! Buon viaggio».
Mi vengono in mente uno dopo l’altro tutti gli scatti della mostra, tanto che mi accorgo di aver oltrepassato l’uscita dell’autostrada. Sorrido, perché penso al proverbio di quella nonnina africana raccontataci da Alex: «Chi vuole trovare la strada la trova, altrimenti troverà una scusa».
Francesco Semeraro
Laico Missionario della Consolata
Francesco Semeraro
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- Occhio di fotografo, cuore missionario - 1 Marzo 2017