“Mi piacciono gli amici dalle menti indipendenti che ti consentono di vedere i problemi da angolazioni diverse”, Mandela.
Ritornati a casa è difficile raccontare quello che si è vissuto. In questo momento risulta molto facile fare una rassegna dei luoghi che abbiamo visitato, una descrizione delle Missioni, degli asili e degli ospedali che abbiamo visto. La mente è vuota: è il cuore ad essere pieno. Pieno di volti, occhi, sorrisi, lacrime, risate, abbracci, gesti che ci hanno accompagnati come gruppo in questo viaggio. Sì, perché in un viaggio come questo sono le persone che fanno la differenza, i compagni di viaggio: Laura, Tarcisio, Maddalena, Ilaria, Giulia e Giorgia, una perfetta amalgama di carismi (cosa non scontata visto che prima di questo viaggio non ci conoscevamo) e la gente del posto che ci ha accolti e, nel vero senso della parola, ci ha fatti sentire a casa.
Una povertà piena di dignità
Allora in questo breve excursus voglio soffermarmi sulle persone che abbiamo incontrato nei giorni passati in Sudafrica che, come scrive Mandela, ci hanno permesso di vedere i problemi, ma anche vivere la gioia, da angolazioni diverse.
Padre Giorgio è stato il nostro faro nei giorni trascorsi nella missione di Hluti nello Swaziland. Grazie alla sua esperienza e al suo grande entusiasmo e alla sua esperienza abbiamo avuto la possibilità di visitare le famiglie della missione, scoprire e meravigliarci dell’accoglienza ricevuta, semplice e sentita in un contesto di una povertà piena però di dignità. Di solito ci facevano entrare in una stanza o mettevano all’aperto delle stuoie sulle quali ci sedevamo tutti insieme. Ci raccontavano del loro quotidiano, ci presentavano i bambini, cantavano e pregavano con noi. I bambini parlavano con gli occhi e con il loro sorriso presente o assente sul loro volto.
Ci hanno avvolto in un abbraccio spontaneo, in un entusiasmo aiutato anche dal linguaggio del gioco che unisce. Ricordiamo la storia di Fufu, un bambino nato sieronegativo nonostante i genitori siano sieropositivi all’Hiv. Si era creato un clima di amicizia tanto che tutti ci siamo emozionati quando abbiamo lasciato la missione. Quando è il cuore a parlare anche le barriere linguistiche e culturali cadono perché le emozioni sono uguali in qualsiasi latitudine del globo.
Aids e acqua
Suor Camilla, invece, ha investito la sua vita come infermiera nella clinica della missione di Hluti, aiutando soprattutto i malati di AIDS, grande piaga di questo Paese, oltre all’assenza dell’acqua. Non ha solo fatto punture, dato medicinali, ma si è presa cura delle ferite sociali che una malattia come l’AIDS comporta.
Suor Ada ha in mano la gestione di un bene prezioso: l’acqua sempre nella missione di Hluti. Almeno due volte al giorno si reca alla piccola diga, alimentata da un fiume quest’anno in secca, per controllare che le turbine che portano l’acqua alla missione, attraverso un sistema di tubazione, funzionino bene, non si surriscaldino. L’acqua, prima di arrivare nelle case della missione, passa attraverso un sistema di purificazione, mentre quella che serve per l’agricoltura non viene trattata.
Sempre parlando d’acqua è stata un’esperienza unica poter vedere i serbatoi, finanziati dal progetto sostenuto anche dal nostro piccolo gruppo, già collocati in alcune abitazioni. Sono dislocati in una zona piuttosto isolata, povera e arida. Purtroppo i serbatoi sono vuoti perché l’acqua piovana quest’anno stenta ad arrivare. Il responsabile della diocesi ci ha accompagnati nelle famiglie a cui è stato installato. E’ stato bello, nonostante le condizioni difficili della popolazione, capire la potenza e l’aiuto che un progetto come questo può dare alle persone. Per noi basta aprire un rubinetto e l’acqua scorre, non dobbiamo preoccuparci di preservarla. Lì, invece, ogni goccia è preziosa, da utilizzare con parsimonia. Ci hanno colpito i bambini di diverse età che vanno a prendere l’acqua in un rigagnolo. Anche piccoli di 2, 3 anni con due bottiglie in mano si fanno anche 10 km prima di arrivare a una fonte.
Il popolo africano loda il Signore con tutto il corpo
Un altro volto che ci ha colpiti è stato quello del Vescovo che ha voluto incontrarci alle 3:30 di notte durante un pellegrinaggio in onore di Maria Assunta in cielo (missione di Florence). Abbiamo partecipato ad una veglia notturna che non ha niente a che vedere con le nostre: il popolo africano loda il Signore con tutto il corpo. Con la voce: hanno una capacità polifonica naturale; riescono a cappella ad intonare canti a 3, 4, 5 voci come niente. Pregano anche con la danza: movimenti semplici, ma che fatti da 4000 persone contemporaneamente (questo era il numero dei partecipanti alla veglia, tenendo conto che solo il 5% della popolazione è cattolica). Ti coinvolgono in una lode gioiosa proprio in questi luoghi dove tocchi con mano la sofferenza. Noi su questo abbiamo molto da imparare.
Altri occhi che parlano da soli sono quelli del direttore dell’orfanotrofio vicino a Newcastle. Un omone grande e grosso ma con un cuore di cristallo, prezioso e delicato. Bastava vedere come guardava i bambini che vivono nella struttura per capire che quella era la sua famiglia e che per quella famiglia lui cerca di fare e di volere il meglio. Ci ha domandato: “Avete fatto quello che cercavate?”. Decisamente sì: passare un po’ di ore con i piccoli della casa, mettere loro il pigiama e vedere come i bimbi più grandi si prendono cura dei più piccoli, per esempio all’ora di cena, oppure vedere ballare gli adolescenti la sera in una piccola festa improvvisata, non poteva che riempire il nostro cuore di gioia.
Il mal d’Africa, non credevo, ma esiste
Giunti a casa, ritornati alle nostre abitudini è difficile che tutto torni alla stessa quotidianità. Cambiano le piccole cose: cerchi di non sprecare, in primis, l’acqua, visto che in Africa anche in città, come per esempio Manzini, viene razionata e la chiudono tre volte a settimana per ottimizzarla. Manca quel silenzio del tramonto che svuota la mente e apre e riempie il cuore. Mancano quelle mani color cioccolato che s’intrecciano con le nostre color latte. Mancano gli occhi delle persone e i sorrisi dei bambini. Manca una semplicità estrema, ma sentita nel dimostrare e ricevere affetto che non è sovrastrutturata come i nostri comportamenti abituali nelle relazioni.
Personalmente sono partita con l’idea di dover dare, in realtà è più quello che ho ricevuto e quello che ho imparato essendo semplicemente me stessa. Un bagaglio di umanità che in questo momento cerco di portare avanti nel mio quotidiano, negli ambienti che frequento, al lavoro, in famiglia.
Il mal d’Africa, non credevo, ma esiste.
Di Erika Sgargetta
Erika Sgargetta
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