«Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; è dare la vita a poco a poco, nel silenzio della vita quotidiana, come la dà la madre che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio».
La Chiesa, celebrando la beatificazione di Mons. Arnolfo Oscar Romero Galdámez (il 23 maggio 2015) ha voluto innalzare agli onori degli altari una figura esemplare ed edificante della Chiesa latino americana. Martire perché ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava la Messa, subito dopo il rito dell’Offertorio, durante il momento della Transustanziazione, mentre elevava l’Ostia e il Calice, nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza a San Salvador, la capitale dell’omonimo stato sudamericano.
L’inizio della causa di beatificazione
La causa avviata dalla Chiesa riguardo al martirio di Mons. Romero era iniziata nel marzo 1994. Ma il protrarsi delle indagini da parte della Congregazione Vaticana sugli scritti e l’esperienza di vita di questo vescovo conobbe intoppi, riserve e interruzioni non indifferenti, addirittura sabotaggi, data la complessa situazione politica e sociale in cui il suo apostolato e la sua attività pastorale avevano avuto luogo. Finalmente nel 2007 papa Ratzinger confermò ufficialmente che Mons. Romero avrebbe potuto conseguire la Beatificazione. E a opera di papa Francesco si è accelerato l’iter della causa.
Fatti sanguinosi contro uomini di Chiesa
Mons. Romero è stato un autentico testimone della fede. Come patrocinatore delle istanze di giustizia sociale provenienti dai poveri e dai più deboli, di cui lui stesso si faceva carico come pastore della Chiesa, la sua predicazione e la sua testimonianza si rifacevano a una frase a lui cara, pronunciata da papa Paolo VI: «La civiltà dell’amore». Il suo martirio – è stato riconosciuto – avvenne in odio della fede, in quanto la Chiesa salvadoregna, il suo vescovo e i suoi collaboratori furono oggetto di continue minacce, violenze, vessazioni, intimidazioni. Persecuzioni che si concretizzarono in fatti sanguinosi e in uccisioni di sacerdoti e catechisti. A tal proposito, con una punta di marcata sofferenza interiore, Mons. Romero ricordò in un’omelia quel passo del Vangelo in cui Gesù aveva detto: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi».
Un cambio di rotta
Quando una tale sorte toccò a un gesuita, intimo amico di Mons. Romero, tre anni prima che lo stesso presule venisse assassinato, Rutilio Grande (ucciso il 12 marzo 1977), nel vescovo salvadoregno si verificò un cambio di rotta, un mutamento irreversibile nel proprio operato pastorale che divenne più incisivo, più forte, più determinato, più efficace. L’assassinio del gesuita turbò profondamente l’animo del presule, come documentano le fonti (lettere, scritti, appunti, il diario di Mons. Romero, interviste fatte al vescovo stesso, ecc.). Il tragico evento capitato al suo più fidato collaboratore quasi lo convinse che la vittima successiva sarebbe stato proprio lui.
L’opzione per i poveri
A volere la morte di Mons. Romero furono esponenti politici e simpatizzanti della destra conservatrice e plutocratica del governo salvadoregno, alti ufficiali dell’esercito, fautori della dittatura militare, i grandi latifondisti, le famiglie più ricche del paese, a cui faceva comodo il mantenimento dello status quo. Essi, infatti, vedevano in lui, non il vescovo della Chiesa cattolica, ma un nemico da eliminare, tacciato di predicare e favorire la lotta «comunista», la guerriglia, la rivoluzione. Con queste tre voci, ambiguamente, si è tentato, fino a non molto tempo fa, di mascherare il senso vero, la ragione profonda, l’intima verità che animavano l’operato e l’attività pastorale di Mons. Romero: la predicazione evangelica rivolta a tutti, ma con una predilezione per i poveri. In questa prospettiva si traduceva l’attività apostolica di Mons. Romero: l’opzione per i poveri voluta dalla Chiesa latio americana, l’adesione al Vangelo quando esso aderisce, si confà e trova la sua linea di condotta più autentica, conformandosi all’amore per la giustizia sociale, la difesa degli oppressi, la responsabilità della Chiesa verso gli umili.
Tensioni all’interno della Chiesa salvadoregna
Questo richiamo al Vangelo, che ricorse più volte nelle omelie e negli scritti di Mons. Romero, quando denunciava con forza le violenze e le sopraffazioni che si stavano compiendo a danno del popolo, da parte degli squadroni della morte e delle stesse istituzioni governative salvadoregne, era motivo di contrasti accesi all’interno della Chiesa locale. Alcuni vescovi, per gelosia o per motivi di parte, lo accusavano subdolamente di prendere una posizione politica. Gli stessi militari e politici e le classi sociali più ricche del piccolo paese sudamericano avevano buon gioco nel diffamarlo e calunniarlo come simpatizzante dei guerriglieri e dei rivoluzionari, con l’assunto che il vescovo stesse palesemente dalla loro parte.
«Romero è nostro»
Queste accuse, calunnie, diffamazioni non solo infliggevano un gran senso di sgomento, sfiducia e pena nell’animo di Romero, il quale aveva anche dichiarato di volersi volentieri dimettere da vescovo, dato che molti suoi antagonisti ecclesiastici lo spingevano in quella direzione, ma hanno pesato in modo notevole e controproducente sulla sua stessa immagine, sia quando era in vita sia dopo la sua morte, offuscando la sua memoria e ostacolando l’avvio e il proseguimento della sua causa di beatificazione. Fu papa Giovanni Paolo II a scansare e togliere ogni dubbio sulla totale adesione di Romero alla Chiesa di Roma, smentendo in modo definitivo quella «conversione a una posizione politica» denunciata e proclamata da molti sul conto di Romero, quando, in visita nello stato salvadoregno (6 marzo 1983), violando il parere contrario dei suoi rappresentanti politici, egli volle pregare davanti alla tomba del vescovo martire, gridando in quell’occasione alla folla: «Romero è nostro! Romero è della Chiesa!».
Un’accusa infamante
Il favoreggiamento del vescovo nei confronti del socialismo o comunismo era l’accusa infamante che i suoi nemici gli muovevano senza tanti complimenti ogni volta che apriva bocca durante le sue omelie, le quali erano interventi e tentativi pubblici di fermare la violenza endemica, l’ingiustizia e l’oppressione sistematiche contro i più poveri del paese. Mentre quello che lui faceva, predicava e testimoniava, come pastore della Chiesa, corrispondeva esclusivamente al Magistero pontificio, alle novità più toccanti e profonde del Concilio Vaticano II, ai suggerimenti pastorali provenienti dal papato di Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Un’impostazione tradizionale
Nemmeno potevano, le sue dichiarazioni e riflessioni pastorali, essere confuse o fraintese con le tesi della Teologia della Liberazione (altro stereotipo smentito poi dai fatti), perché Mons. Romero, pur condividendo in linea di massima le istanze evangeliche che quel filone teologico innovativo rievocava almeno in superficie, non ne conosceva a fondo le reali radici di pensiero, anzi lui stesso aveva ammesso che non aveva e non trovava il tempo per approfondirne i contenuti, rimanendo dunque un vescovo della Chiesa cattolica di impronta squisitamente tradizionale. Più volte Mons. Romero cercò il dialogo con alcuni sacerdoti della sua Diocesi, cosiddetti «politicizzati», i quali avevano sposato la causa della guerriglia, facendo coincidere l’avvento del Regno di Dio con la rivoluzione e l’uso della violenza. Il suo intento era quello di aiutarli a fare chiarezza, a discernere sulle loro scelte e sulla loro vocazione, perché una cosa è predicare e testimoniare il Vangelo a favore dei poveri, un’altra imbracciare le armi e uccidere per ragioni politiche, ritenendo erroneamente di aiutare pure in quel modo i poveri.
«La violenza dell’amore»
Il fatto che Mons. Romero denunciasse ogni volta che poteva i soprusi e le ingiustizie non significava affatto che lui prendesse a cuore o giustificasse i fautori della guerriglia e della rivoluzione. Allo stesso modo, cercava di convincere questi ultimi che l’uso della violenza, l’imbracciare le armi, il far ricorso alle bombe e il progettare agguati, atti di violenza, attentati non era il modo giusto e più corretto per restituire dignità ai poveri e promuovere la giustizia sociale. La Chiesa e il Vangelo – parole di Mons. Romero – parteggiavano solo per la «violenza» dell’amore. Tanto è vero che qualche giorno prima di essere ucciso da un colpo di fucile, che gli trapassò il cuore, aveva ordinato ai soldati e alla polizia di disobbedire all’ordine ingiusto di uccidere e perseguitare il popolo salvadoregno.
«Quel prete comunista»
Il suo essere schierato dalla parte degli oppressi, il suo essere defensor civitatis (classica definizione coniata dagli antichi Padri della Chiesa), il suo battersi con vigore e a costo della vita e per la salvaguardia dei diritti umani, fu interpretato da parte dei capi del regime e dei generali dell’esercito come un gesto di sfida, che venne accolto senza alcuna esitazione ed ebbe come risultato esplicito la sua conseguente eliminazione fisica. Tra la gente del Salvador si narra ancora oggi che quelli che volevano la sua morte, dopo il suo assassinio, festeggiarono con lo spumante e andavano in giro per le piazze a gridare che quel «prete comunista» finalmente non avrebbe più dato fastidio a nessuno.
Vita di Mons. Romero
Arnulfo Romero (nato a Ciutad Barrios il 15 agosto 1917, scomparso a San Salvador il 24 marzo 1980), sentì la vocazione al sacerdozio sin da bambino. Entrò in seminario giovanissimo e proseguì i suoi studi teologici a Roma. Ordinato sacerdote nel 1942 nella cappella maggiore del Collegio Pio Latino Americano di Roma, fece ritorno in El Salvador per assumere la responsabilità di parroco ad Anamoros, poi a San Miguel. In seguito ricevette la nomina di Vescovo Ausiliare di San Salvador. Nel 1974 fu nominato Vescovo di Santiago de Maria, una delle diocesi più disagiate (dove la povertà era praticamente di casa) di El Salvador. Venne dunque in contatto strettissimo e diretto con la più estrema miseria e l’ingiustizia più eclatante subite ogni giorno dal popolo salvadoregno. Nel 1977 divenne Arcivescovo di San Salvador, in un contesto politico e sociale caratterizzato da una repressione governativa continua e sempre più spietata. Chi governava e teneva il Paese sudamericano sotto le strette e crudeli maglie della dittatura, in un primo momento, sperava di trovare nell’arcivescovo una sorta di alleato, un complice inconsapevole delle proprie malefatte, o meglio, un uomo di Chiesa spirituale, avulso dalla realtà politica e sociale. Ma ben presto i capi di governo e l’oligarchia del paese dovettero ricredersi. Durante il suo ministero pastorale, Mons. Romero fu colto alla sprovvista da una notizia tragica, che lo indusse a ripensare alle sue responsabilità ecclesiali: uno dei suoi sacerdoti più fedeli, il padre gesuita Rutilio Grande, con cui aveva una profonda amicizia fraterna, venne assassinato. Mons. Romero ebbe come un sussulto nell’esercitare il suo ministero: la giustizia sociale e la solidarietà nei confronti dei poveri vessati e resi succubi da un sistema politico corrotto e repressivo – fece sapere pubblicamente – diventavano la sua bandiera, la sua ragion d’essere come vescovo. Il suo schierarsi apertamente dalla parte dei poveri insospettì chi governava e teneva le redini del paese. La diffusione radiofonica delle sue omelie domenicali, della sua voce, diventata voce di coloro che non avevano voce, che implorava la pace, la cessazione di ogni violenza, la giustizia sociale, fece andare in bestia i più alti rappresentanti delle istituzioni nazionali e del potere militare: lo consideravano ormai un pericolo che bisognava mettere a tacere subito. S’inaugurò così tutta una serie di attentati verso la sua persona, i suoi collaboratori e contro l’intera Chiesa locale. Altri uomini di chiesa venivano uccisi in agguati e in irruzioni. La situazione in cui versava la Chiesa e il Paese era tale che Mons. Romero ebbe a dire: «Mi è toccata la sorte d’essere pastore per raccogliere cadaveri». Finché il 24 marzo 1980, mentre Mons. Romero stava celebrando la Messa, un colpo di fucile in pieno petto lo fece smettere di parlare per sempre. La mano assassina era stata armata da un generale dell’esercito salvadoregno. Il 24 marzo, giorno della morte di Mons. Romero, venne in seguito istituita e celebrata, per volontà della Conferenza Episcopale Italiana, Giornata di Preghiera per i Missionari Martiri. Anche le Nazioni Unite vollero ricordare Mons. Romero il giorno della sua morte, proponendolo come giornata che promuove in tutto il mondo la difesa dei diritti umani. Anche la Chiesa anglicana e la Chiesa luterana lo venerano come santo e martire.
Preghiera a Mons. Romero
Noi t’invochiamo, vescovo dei poveri,
intrepido assertore della giustizia, martire della pace!
Ottienici dal Signore il dono di mettere la sua Parola al primo posto.
Aiutaci a intuirne la radicalità e a sostenerne la potenza,
anche quando essa ci trascende.
Liberaci dalla tentazione di decurtarla per paura dei potenti,
di addomesticarla per riguardo di chi comanda,
di svilirla per timore che ci coinvolga.
Non permettere che, sulle nostre labbra,
la Parola di Dio s’inquini con i detriti delle ideologie.
Ma dacci una mano, perché possiamo coraggiosamente
incarnarla nella cronaca, nella piccola cronaca personale
e comunitaria, e produca così storia di salvezza.
Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo
teologico dove Dio si manifesta, il roveto ardente
e inconsumabile da cui egli ci parla.
Prega, vescovo Romero, perché la chiesa di Cristo,
per amore loro, non taccia.
A fianco dei poveri. Sempre
Ciò che ha caratterizzato l’esperienza religiosa e pastorale di Mons. Romero è stata la sua scelta di schierarsi al fianco dei poveri, fare sempre sue le loro istanze. Per questa ragione i suoi oppositori lo accusavano di comunismo. Il suo sollecitare più volte i ricchi a dare il giusto salario ai contadini coltivatori di caffè era, per esempio, un pretesto per collocarlo in una corrente ideologica, che nulla aveva a che vedere con la fede, il Vangelo, il Magistero della Chiesa, i suggerimenti del Concilio Vaticano II. Si intendeva dunque, subdolamente, approntare e giustificare un appiglio politico per frenare, svilire e far cessare una volta per sempre la sua predicazione evangelica. È evidente, e con il senno di poi ancora di più, che il rapporto tra fede e politica rappresentava il nodo centrale su cui Mons. Romero si stava giocando tutto: la reputazione, l’autenticità del suo apostolato, la vita stessa. Non fu facile manipolare un vescovo che di fronte a due correnti politiche che si odiavano a morte fra loro (l’estrema destra e l’estrema sinistra), invece di barcamenarsi e darla vinta, aveva scelto la strada del Vangelo. Ecco quanto disse in un’omelia pronunciata alla radio nel febbraio 1980: «Quello che cerco di fare non è politica. E se per necessità del momento sto illuminando la politica della mia patria, è perché sono pastore, è a partire dal Vangelo, è una luce che deve illuminare le strade del paese e dare il suo contributo, come Chiesa; quel contributo che, proprio perché Chiesa, deve dare». Mons. Romero, in sostanza, riteneva che la Chiesa, occupandosi della sorte morale della società, doveva altresì spronare la politica nel senso di un’etica votata alla promozione e realizzazione della giustizia, non fare politica.
L’abitazione del vescovo
Nel ricordare alcune sue iniziative concrete verso i poveri, destò particolare commozione l’aver organizzato per i bambini lustrascarpe di San Miguel anche una mensa tutta per loro. Era un uomo generoso fino al midollo: una donna gli chiese un giorno da mangiare. Lui stesso non aveva nulla in dispensa, ma aveva appena ricevuto in dono una gallina. Nonostante le proteste del suo autista, che lamentava l’assenza di cibo in diocesi, il vescovo non esitò a dare il
pollo avuto in dono a quella donna che lo aveva fermato per strada. I ricchi volevano ingraziarsi la benevolenza e la complicità del vescovo, gli proposero così di costruire per lui un palazzo vescovile. Ma Mons. Romero rifiutò. Come abitazione, Mons. Romero, infatti, preferì scegliere una residenza modesta ma testimoniante in modo lampante e concreto la sua adesione al Vangelo: andò a vivere presso un piccolo centro clinico (occupando solo alcune stanze all’interno della casa del custode vicino al cancello d’ingresso), dove erano ospitati i malati terminali di cancro. Proprio lì, il 24 marzo 1980, celebrando la Messa nella cappella, un sicario, un cecchino lo strappò alla vita, recidendo con una pallottola la vena giugulare al momento in cui stava elevando il calice per la Consacrazione. A premere il grilletto fu un soldato arruolato negli Squadroni della Morte, per ordine dell’ex maggiore Roberto D’Aubuisson, leader del partito nazionalista conservatore ARENA (Alianza Republicana Nacionalista). Ecco la testimonianza di una suora presente quel giorno all’assassinio del vescovo: «Monsignore stava celebrando l’Eucarestia nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. Erano circa le sei del pomeriggio. Una pallottola a esplosione ritardata lo colpì al cuore mentre stava iniziando l’Offertorio. Io ero presente nel momento del suo assassinio nella cappella; stavo a circa quattro metri di distanza dall’altare. Mentre Monsignore stava aprendo il corporale per iniziare l’Offertorio si sentì lo sparo. Colpito al cuore, egli istintivamente si aggrappò all’altare e si rovesciò addosso tutte le ostie. Cadde, quindi, ai piedi del crocifisso in una pozza di sangue. Io interpretai questo fatto come se Dio gli dicesse in quel momento: Oscar, ora sei tu la vittima».
Un’inquietudine di fondo
Mons. Romero sapeva che prima o poi avrebbe subito il martirio: le minacce alla sua vita erano costanti, quotidiane, pressanti, tanto da procurargli un profondo e lacerante turbamento, rendendolo addirittura quasi incerto nel suo agire e nel prendere decisioni; ogni notte, al minimo rumore, si svegliava di soprassalto, terrorizzato, inquieto, sudando freddo. Era psicologicamente abbattuto, piangeva e restava in silenzio pensoso, guardando muto davanti a sé, forse con lo sguardo nel vuoto. Ma la sua fedeltà alla Chiesa, al papa e al Vangelo erano più forti e sostenute da un incessante sostare in preghiera, che durava dalla tarda notte fino all’alba, e soprattutto mai egli conobbe esitazioni di alcuna sorta nel difendere i poveri e gli emarginati della sua diocesi, e di tutto il paese. Anche verso i ricchi la sua attività pastorale non cessava di esortare alla conversione e all’aiuto dei meno fortunati. Ma le sue parole, pare, cadevano nel vuoto.
Sapeva che sarebbe stato ucciso, ma non da chi
Nel temere e nell’essere pienamente consapevole che sarebbe stato ucciso, Mons. Romero confidò che non sapeva se ad assassinarlo sarebbero stati quelli dell’estrema destra o quelli dell’estrema sinistra, dal momento che, non approvando nemmeno la rivoluzione e la guerriglia, coloro che si opponevano alla dittatura, che opponevano violenza a violenza, spargendo sangue allo stesso modo dei militari e dei latifondisti, lo contestavano e minacciavano, proprio come facevano i militari e i rappresentanti del potere politico dominante.
Il martirio
Questa sua constatazione era indicativa del genere di apostolato che portava avanti: «Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l’onore di dare, fisicamente il loro sangue, di essere uccisi per la fede; però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui uno spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore. Noi, sì, siamo disponibili, affinché, quando giunge la nostra ora di render conto, possiamo dire “Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ho data”. Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; è dare la vita a poco a poco, nel silenzio della vita quotidiana, come la dà la madre che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio».
Suggerimento bibliografico
Un ottimo libro, recentemente uscito in libreria, illustra e chiarisce con estrema trasparenza, lucidità e obiettività storica, in modo particolareggiato ed esaustivo, con una documentazione di prim’ordine, la vita, l’intensa ed estenuante attività pastorale, la personale e ben definita scelta di prediligere i poveri, le ferite interiori del suo animo, la grande fede, l’esperienza del martirio di Mons. Oscar Romero: Oscar Romero. Un vescovo tra guerra fredda e rivoluzione, a cura di Roberto Morozzo Della Rocca, San Paolo (pp. 285, euro 7,90).
di Nicola Di Mauro
Nicola Di Mauro
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