Imitare il cane che non perde d’occhio l’antilope.
Testimoniare la speranza.
La vocazione missionaria è la chiamata all’incontro con il Signore per realizzare il suo Regno.
Per arrivare a tutti, Dio parte sempre da uno.
Un incontro, anche feriale, una chiacchierata, una piccola disponibilità, un’esperienza, una persona, un evento «che fa ardere il cuore», che fa, poco a poco, o anche improvvisamente, innamorare del Signore e della sua gente, del suo popolo. Qualcosa che chiede di mettere a disposizione la propria barca perché il Signore parli, perché avvenga la pesca miracolosa, perché il suo popolo acquisisca le ragioni per vivere, per amare, per soffrire, per dare un senso ai grandi interrogativi del vivere e del morire. Un innamoramento che può capovolgere la vita, che dà una direzione diversa, che fa entrare in «crisi», che fa «impazzire».
Ogni vocazione missionaria nasce così. Ogni missionario, ogni missionaria, s’illumina quando comincia a raccontare il momento in cui il Signore ha bussato alla porta, e ha segnato la sua storia in modo irreversibile. Il momento in cui si è sentito investito da un amore più grande, in cui qualcuno gli ha dato fiducia, gli ha donato la speranza, gli ha mostrato una vita così affascinante che ha iniziato a desiderare a sua volta di affascinare, contagiare altre vite. Con la stessa speranza ricevuta.
Il beato Giuseppe Allamano diceva che chi non arde non incendia. Pietro disse ai politicanti religiosi del suo tempo: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e toccato». Nel Vangelo secondo Luca, Giovanni si ricorda l’ora in cui ha incontrato Gesù: «Erano le quattro del pomeriggio».
Cosa hai fatto oggi?
«Cosa hai fatto oggi?». È una domanda ricorrente che la gente si rivolge a vicenda, e rivolge anche al missionario. «Padre, cosa hai fatto oggi?», come per dire: «In cosa consiste la tua vita? Qual è la caratteristica importante della tua giornata?».
Il missionario naturalmente, soprattutto chi lavora in «terre di missione», racconta con entusiasmo la sua vita, a volte eroica, affascinante, e finisce sempre per dire: «Bisogna portare speranza a quella gente». Ecco, la parola d’ordine: «Speranza». È la stessa speranza che nell’ora decisiva della chiamata ha sentito, ha ricevuto egli stesso.
Il missionario, in qualsiasi contesto si trovi, in primis non fa! Vive, prega, parla, organniza e fa in modo che l’operaio, il dottore, l’insegnante, l’impiegato, ecc., viva e compia la sua attività con gioia, serenità e speranza. Che il padre e la madre di famiglia abbiano gli strumenti per amarsi, che il povero, l’emigrato, il senza tetto, abbiano ragioni per continuare la loro esistenza. In altre parole fa sì che diventino vere le parole di Gesù: «Venga il tuo Regno». Egli diventa uno strumento perché le persone che gli stanno accanto abbiano e vivano nella pace, quella «pace» che il mondo non dà, ma che il Dio di Gesù ci ha promesso.
Queste sono solo poche parole che racchiudono l’essenzialità di tante vite, in tutto il mondo, vissute in silenzio e nascondimento, in battaglie quotidiane contro il male, per poter dare al bene «un’occasione».
Il missionario della Consolata è appunto un uomo o una donna che, innamorato di Dio, si innamora delle persone, e a loro porta la Consolazione in tante forme ed espressioni, porta Gesù: è Lui che la sete umana cerca, è in Lui che si raccolgono tutte le speranze e sogni di ogni uomo, è Lui che placa le tempeste dell’ira e della violenza, è Lui che soddisfa ogni inquietudine, che dà da mangiare agli affamati. È Lui che serve e trasmette la missionaria, è lui che cerca e offre tra i mattoni e il cemento del cantiere il fratello missionario consacrato; è Lui che dona nell’ascolto, nell’oganizzazione, nell’incontro, nell’assoluzione il sacerdote missionario.
È Lui che il sacerdote offre nella messa.
Il cane e l’antilope
«Ci vuole energia per essere missionari», diceva il fondatore beato Giuseppe Allamano: l’energia che viene dal Signore, perché «senza di Lui non possiamo nulla». La nostra fecondità è la sua: ce la dona lui nella nostra perseveranza quotidiana. «Perseveranza», ecco un’altra parolina decisiva: in Africa, si racconta che un giorno, in un piccolo villaggio, un cane scorse un’antilope. Il cane cominciò ad abbaiare e a correrle dietro. Gli altri cani sentirono e videro il cane, alcuni anche l’antilope, e cominciarono a correre. Dopo un paio di miglia i cani che non avevano visto l’animale si stancarono e non corsero più, mentre quelli che l’avevano visto continuarono a correre.
Ecco, la vita missionaria ha bisogno di perseveranza, di non smettere mai di correre dietro al Maestro che indica la strada e insegna a saltare gli ostacoli, nella fedeltà quotidiana, cantando e attuando le sue meraviglie.
di Nicholas Muthoka
Nicholas Muthoka
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