Slow page dei Missionari della consolata

A tutto t(m)ondo

Intervistiamo s. Stefania Raspo, Missionaria della Consolata trentacinquenne. Originaria di Revello, in provincia di Cuneo. Autrice, tra gli altri, di un libro sulla sua consorella martire in Somalia, suor Leonella Sgorbati (Tutto in tre Parole, Ed. Verso l’Arte 2011).
Suor Stefania condivide esperienze e riflessioni attraverso il suo blog: http://missioneintuttiisensi.blogspot.com e il suo canale youtube: http://www.youtube.com/user/suorstefaniamc.

Perché hai deciso di diventare missionaria e, soprattutto, perché missionaria della Consolata?
Conosco il mondo missionario fin da piccola (uno zio di mia mamma era sacerdote Fidei Donum in Brasile) e sono cresciuta avendo come orizzonte non solo il mio piccolo Piemonte, ma una realtà di vita e di Chiesa molto più vasta. La mia curiosità, la voglia di fare il bene e la domanda: «Che farò da grande?», erano il bagaglio con cui sono approdata alla Certosa di Pesio (Cn). All’epoca (fine 1997) ero studentessa universitaria di filosofia e animatrice nella mia parrocchia di Revello.
In Certosa ho incontrato dei maestri di spiritualità che mi hanno aiutata a crescere nella «lettura pregata» della Parola, e poco per volta ho iniziato ad ascoltare Dio che mi invitava a una vita di donazione totale, mentre dentro di me cresceva il desiderio di rispondere con tutta me stessa all’amore immenso che mi dimostrava: e ho capito che la missione nell’Istituto delle Missionarie della Consolata poteva essere la mia strada.

Ci racconti brevemente la tua storia missionaria?
In verità… sto iniziando appena adesso! Sono passati 10 anni dal mio ingresso nell’Istituto, però il cammino formativo è stato lungo. Ora mi trovo in Argentina, in attesa di volare in Bolivia, dove mi aspetta la missione con il popolo quechua, sull’altipiano andino.

Puoi dire due parole sul paese in cui ti trovi oggi? Quali sono le sue principali sfide missionarie?
L’Argentina è un paese che ti rapisce per l’accoglienza schietta e spontanea delle persone, che credono nell’amicizia, e lo dimostrano «perdendo il loro tempo» a bere mate in compagnia, tra una chiacchiera e l’altra. Ci sono alcune ferite del passato che riemergono sistematicamente, e che i mass media amplificano almeno una volta alla settimana: la violenza della dittatura militare, che ha fatto sparire migliaia di persone, i cosiddetti desaparecidos, insieme alla giustizia che non ha ancora giudicato tutti i responsabili di tanta barbarie. Un altro tema scottante è legato alle isole Malvinas, territorio inglese che l’Argentina rivendica con forza, e per il quale ha anche mosso guerra nel 1982, con una spedizione catastrofica che ha riaffermato il controllo inglese del territorio. Il fatto che negli ultimi mesi la Gran Bretagna abbia rafforzato la presenza militare nell’arcipelago, non è stata vista di buon occhio in Argentina.
E poi ci sono ferite di cui i giornali non parlano (quasi) mai: per esempio la situazione dei popoli indigeni. Lo stato argentino li ha relegati ai margini della nazione (nel freddo sud e nel caldo nord) dopo averli decimati circa un secolo fa. La Chiesa fatica ad assumere un impegno pastorale a favore dei popoli indigeni, e per questo è un campo missionario che vede presenti i Missionari e le Missionarie della Consolata.
Buenos Aires è una delle metropoli in continua crescita dell’America Latina. Quasi la metà della  popolazione nazionale risiede nella Capitale e nella sua periferia: le sfide di un centro urbano che accoglie un numero sempre più grande di poveri, sono raccolte dalla comunità di Merlo, in periferia, dove le sorelle lavorano in collaborazione con i padri e i laici missionari della Consolata, in una zona della parrocchia di Pompeya.

Qual è la difficoltà più grande che incontri?
A volte fermarsi per conoscere e apprendere richiede molta più energia che buttarsi a capofitto nell’apostolato. Ma è una buona scuola di umiltà, oltre che una saggia decisione di vita. Un proverbio makua (popolo del Mozambico, ndr.) dice: «Quando si è stranieri, si diventa bambini», ed è vero! Bisogna imparare da zero, o quasi: a parlare, a salutare, a mangiare. E così sto imparando a «perdere tempo» bevendo mate con la gente e le mie sorelle!

Qual è la tua soddisfazione più grande?
Sapere che sono nel luogo che Dio ha preparato per me fin dall’eternità è fonte di grande pace e gioia interiore.

Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
La notte del 24 dicembre, poco prima della mezzanotte, è arrivata la notizia che una donna povera del Barrio di Merlo, aveva subito violenza da un balordo, ed era stata salvata dai vicini di baracca. Io conosco quella donna, il suo volto mi è subito venuto alla mente. In quel momento mi ha assalito una tristezza enorme, e non avevo più voglia di festeggiare.
Era come se le tenebre avessero preso il sopravvento. Ma poi una forza interiore mi ha detto che Cristo è nato, e se le tenebre non l’hanno accolto, egli comunque è Luce e ha vinto l’oscurità.

Quali sono le sfide della missione del futuro?
La missione oggi non si appoggia più su megastrutture come ospedali e scuole, costruiti secondo il modello occidentale. Ormai siamo orientati verso una missione «a tu per tu», che si basa sulla relazione personale. Questa richiede molta più forza ed energia, la struttura era un’impalcatura che sosteneva i missionari e che dava loro maggiore sicurezza. Ora bisogna saper giocare in prima linea, avere il coraggio di prendersi i pesci in faccia. Non so se riesco a farmi capire…
La comunità di Poopò, in Bolivia, dove vivrò, ha queste caratteristiche: stare con la gente, e portare avanti per i più poveri progetti molto semplici. Prima di partire mi trovavo in imbarazzo di fronte alla domanda: «Che fanno le suore in Poopò?», perché non ci sono opere concrete da descrivere, se non il cammino quotidiano con la gente.
Cosa possiamo fare, secondo te, per essere sempre più in sintonia con il mondo giovanile?
I giovani oggi sono carenti di tante cose: hanno tutto a livello materiale, ma mancano spesso di un contesto familiare solido, di un’educazione umana adeguata. Mi sembra che i vescovi italiani abbiano fatto bene a stabilire l’educazione come priorità nel piano pastorale decennale.
La missione come un incontro «a tu per tu» vale anche nella pastorale giovanile. Un lavoro meno immediato, più esigente, ma è esattamente ciò che oggi è richiesto dalla situazione. Con la pazienza del seminatore (e del vero educatore!).

Ci suggerisci uno slogan per i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari?
A tutto t(m)ondo!
Il tutto tondo è una scultura che si osserva a 360°. Il 3D della scultura! Anche la realtà bisogna vederla a 360°, ricordandoci che l’orizzonte non è il mio piccolo mondo, ma il mondo intero. E tutto mi interessa ed è affar mio!

di Luca Lorusso

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